§Adolescenze
La macchina del tempo.
Passato, presente e futuro nella vita dei preadolescenti
di Stefano Laffi, con la collaborazione di Silvia Bertoncelli
  1. Il progetto

La macchina del tempo è parte del progetto MAdo, ovvero Museo dell’Adolescenza, un percorso aperto e incrementale di raccolta di materiali autoprodotti da ragazzə, curato dalla cooperativa Codici di Milano. Si tratta di reperti molto diversi per forma, supporti e linguaggio – lettere, testi scritti in occasione di laboratori, cartoline, manifesti, playlist, bandiere-slogan, ecc. – originati da lavori di ricerca e da laboratori, accomunati dall’essere espressione in prima persona di quello che unə adolescente vuol dire di sé o del mondo. 

La macchina del tempo, in particolare, è un percorso di formazione realizzato per l’Unione dei Comuni del Distretto Ceramico (provincia di Modena) tra il 2021 e il 2022, rivolto ad educatrici ed educatori, con tre obiettivi: l’acquisizione di tecniche per la raccolta del punto di vista di preadolescenti e adolescenti presenti nei servizi educativi territoriali, la realizzazione della raccolta stessa di reperti che testimoniasse quella prospettiva, l’allestimento di una mostra itinerante, che “restituisse” il lavoro di ricerca fatto e desse visibilità pubblica alle loro parole e ai loro pensieri.

L’origine del progetto non è estetica, quindi, ma pedagogica e politica. Il suo focus sono le biografie di ragazze e ragazzi, ovvero la costruzione di competenze narrative per il racconto di sé e per dare conto del proprio punto di vista. La ragione di fondo è “donmilaniana”: un lessico ricco, una piena consapevolezza della propria vicenda esistenziale, una capacità di nominare desideri e progetti, così come una visione nitida dei torti subiti e del senso di ingiustizia percepito aiutano ad operare scelte ponderate, a sentire il controllo sulla propria vita, a confrontarsi con gli adulti per far valere il proprio punto di vista.

Il racconto di sé in età adolescenziale è pratica diffusa ma è oggi fortemente affidato ai canali social, cioè è un racconto fra pari che non è corretto utilizzare per leggere quelle biografie (Boyd, 2018): è infatti reattivo, estremizzante, occasionale, polverizzato, finalizzato al consenso immediato, parziale perché censurato di quegli elementi di tristezza, dubbio, noia, ansia, frustrazione, senso di inadeguatezza ecc. che non fa gioco mostrare alla propria cerchia di contatti. L’effetto paradossale di questa sovraesposizione biografica per frammenti filtrati è che manca spesso in ragazzi e ragazze il filo del tempo, la consapevolezza della conseguenza delle proprie azioni, un’attitudine progettuale nelle scelte di vita, un orizzonte temporale oltre l’immediato: scrivono tantissimo, sulle loro chat e sui loro social, ma sono come pagine di diario senza il diario, in una parola manca il senso della propria storia, per quanto questa sia in corso e appena all’inizio. 

Da qui l’importanza del lavoro educativo di aiutare ragazze e ragazzi a raccontarsi, a ricostruire i nessi della propria vicenda, a riconoscere il filo rosso che lega avvenimenti e svela di cosa si è alla ricerca. E da qui anche la valenza politica del progetto, e più in generale del MAdo, cioè il tema della voce pubblica. La fascia di età coinvolta – ovvero quella compresa fra 11 e 16 anni – affolla i social ma non è presente nel discorso pubblico in prima persona: non è intervistata dai giornali, non pubblica libri, non è presente nei programmi televisivi o nei convegni. Quando compare è in genere oggetto e non soggetto, di un discorso di specialisti adulti, spesso dentro una cornice allarmista, compassionevole o patologizzante (Laffi, 2014). Una mostra sull’autobiografia di preadolescenti e adolescenti è quindi l’azione che consente di scoprire quella voce, senza mediazioni interpretative di esperti, e col vantaggio di guadagnare un’attenzione e una dedizione speciali, quelle del visitatore di fronte all’opera, nel contesto di una mostra. 

2. Il contesto di intervento, distretto territorio e GET 

I gruppi educativi territoriali (GET) sono servizi socio-educativi rivolti a ragazzə nella fascia d’età 11-16 anni. Il tempo è suddiviso in una parte dedicata al sostegno agli apprendimenti e una parte in cui ci si dedica di più alla socializzazione attraverso proposte laboratoriali, attività sportive, giochi, cineforum o esperienze di condivisione. 

I gruppi sono eterogenei, ci sono ragazzə che provengono da contesti che portano complessità di tipo familiare ed economico, altrə che non portano particolari fragilità ma che hanno comunque il desiderio di vivere un contesto educativo in cui potersi sperimentare. 

Per questo percorso formativo sono stati coinvolti una ventina di educatrici/educatori, circa ⅔ del totale e ha coinvolto i più di 300 ragazzə che frequentano i gruppi. 

Oltre ai GET è stata coinvolta nel percorso anche l’equipe del servizio di Educativa di strada, che sviluppa azioni di prossimità con i gruppi di adolescenti e giovani nei luoghi di ritrovo formali e informali del territorio. 

3. Le scelte metodologiche

La macchina del tempo è un percorso di formazione anomalo, composto da tre passaggi: la costruzione di competenze fra i formandi per promuovere l’autonarrazione di ragazze e ragazzi presenti nei servizi, l’esercizio di quelle competenze ovvero la raccolta delle narrazioni stesse, l’allestimento di una mostra itinerante per l’esposizione dei reperti. 

Grazie a questa formula “partecipativa” è stato possibile con poche giornate formative approdare alla raccolta di circa 380 reperti, presenti in mostra. Le figure educative formate hanno infatti prima sperimentato in prima persona gli strumenti autobiografici e li hanno poi applicati nei contesti di lavoro, gli allestimenti stessi sono stati realizzati nei laboratori di falegnameria gestiti da alcuni operatori. 

Si è detto dell’autobiografia: a 12 anni si vive nel presente, le storie personali di solito le raccontano gli adulti, più spesso gli anziani. Ma la linea del tempo è un universale biografico che a quell’età si riconosce immediatamente, si può avere nostalgia della propria infanzia, si sentono bruciare le emozioni del momento, si fa del futuro lo spazio dei grandi sogni o di inconfessabili paure (Laffi 2016). In breve, “raccontami la tua storia” è una proposta per lo più irricevibile in adolescenza perché ci si sente disorientati a rispondere, ma la propria linea del tempo è già ricca di pietre miliari, ovvero la storia si può ricostruire estraendo quelle pietre attraverso dei “mediatori narrativi”. Così questa linea è stata ricostruita attraverso dei “mediatori narrativi”: il passato è stato affidato a oggetti, il presente alle immagini, il futuro alle parole. 

La formazione a educatrici/educatori e la raccolta dei materiali coi ragazzi si è svolta attraverso dei laboratori: in quello dedicato al passato, si è lavorato utilizzando cestini dei tesori [1], ispirati alla proposta ludica tipica della prima infanzia, in cui oggetti d’uso comune (un cavatappi, una rocca di filo, una conchiglia, un portafoto antico…) diventavano macchine narrative per permettere al gruppo di conoscersi e raccontare di sé. Del passato abbiamo ricordi, spesso fissati in oggetti simbolici di quel momento, che tendiamo a conservare in quello speciale museo di se stessi che è la propria stanza, o il proprio spazio in casa: “Wunderkammer” è stata un parola esplorata in formazione, per condividere l’idea che ogni ragazzo/a è un esploratore e conserva tracce, come quei collezionisti nel Cinquecento, primi creatori delle “stanze delle meraviglie”. “Portami un oggettoche racconti di te e del tuo passato, lo esporremo in mostra e costruiremo insieme la sua didascalia, composta di due frasi, di cosa si tratta e perchè lo hai scelto”: questa è stata la consegna, sperimentata in formazione e poi applicata nei servizi.

Il presente è spesso un vortice di pensieri ed emozioni, di cui non possiamo avere oggetti, ma che proviamo a fissare oggi attraverso una fotografia del cellulare, quando sentiamo che quella situazione merita di non essere persa nel flusso delle cose che capitano. “Quali sono le emozioni che raccontano di più la vostra vita?”, e poi – una volta raccolte in una nuvola di parole [2] – “portateci un’immagine, già presente nella gallery del vostro cellulare o scattata apposta (come si fa nella tecnica del photovoice [3]), e insieme ne costruiamo la didascalia”: ecco la consegna per il presente.

La Macchina del Tempo _ Le immagini sulle emozioni del presente e il relativo Wordcloud

Il futuro non c’è ancora e non può avere tracce, eppure è abitato da pensieri, da proiezioni di desideri o di paure che si possono provare a nominare, cioè ad affidare alle parole. Così è stato costruito un gioco in scatola sulla falsariga del gioco dell’oca – il Future Game – in cui un percorso a tappe costringe a scrivere quindi ad esplicitare le voci indicate sulle 4 carte che si incontrano lanciando i dadi: speranze, minacce, progetti, caos. 

La Macchina del Tempo. Ragazzi che giocano al Future Game

4. Il processo e l’ideazione dei supporti espositivi

Il campo educativo è un terreno particolare per l’esercizio artistico, ne media alcuni tratti, perchè ad esempio l’autorialità è ridimensionata in una logica di maggior condivisione e partecipazione, il processo conta quanto il risultato, le opere perdono l’aura di mistero e le spiegazioni – nel nostro caso, le didascalie – sono quasi più importanti dei soggetti. Ma potremmo anche osservare la relazione all’inverso, perché l’arte esige un’attenzione al risultato estetico che l’educazione spesso trascura per festeggiare lo spontaneismo, richiede un’esplorazione di sé e dei propri vissuti che nelle attività quotidiane e nel gioco spesso non hanno spazio, esige un processo di individuazione dei singoli che non coincide col primato della relazionalità presente nella maggior parte delle proposte educative.

In questo progetto la combinazione di educazione e arte ha voluto dire, per esempio, la scelta di lavorare con una pluralità di linguaggi – la triade oggetti-immagini-parole – allestire raccolte al contempo analogiche e digitali, progettare e realizzare insieme gli allestimenti. Prendiamo un esempio degli allestimenti, come gli espositori degli oggetti ispirati alle scatole dell’artista Joseph Cornell: in formazione sono state proposte alcune opere dell’artista statunitense, sono state studiate nelle loro varie composizioni e successivamente sono state reinterpretate con l’accorgimento dell’utilizzo di cassetti di vecchi mobili, recuperati da un educatore, rivestiti, suddivisi in scomparti, appesi in verticale e poi allestiti per ospitare oggetti e didascalie. 

La Macchina del Tempo. Esempio di cassetto-scatola per l’esposizione degli oggetti del passato

Le fotografie, ovviamente prive del valore estetico di uno scatto fotografico professionale, sono state trasformate in formato quadrato e filtrate in modo omogeneo, per creare l’effetto seriale, e sono state riprodotte in piccolo formato, con una stessa cornice, per ridurre i difetti tecnici e portare i visitatori ad avvicinarsi, allo scopo di guardarle attentamente e leggerne le didascalie. Per il futuro invece è stato messo in mostra la scatola stessa del gioco e sono state esposte le carte, compilate durante le partite svolte nei GET, con le parole di ragazze e ragazzi: le carte erano appese a dei fili, come ad evocare la precarietà e la fragilità degli anni che ci attendono. 

La scelta di materiali sostenibili – cassetti recuperati, stampe su cornici di cartone riciclato, carte appese a fili di spago – e la co-costruzione degli allestimenti ha consentito di rendere l’intero percorso coerente alla logica formativa ed educativa del progetto.

La Macchina del Tempo. I gessetti di Ajhar
La Macchina del Tempo. La conchiglia di Alessandro

5. Passato, presente e futuro dei ragazzi e delle ragazze

La mostra nasce come itinerante; l’allestimento è stato pensato utilizzando materiali che si possono adattare a spazi diversi. È stata ospitata, nei Comuni del Distretto Ceramico, all’interno di biblioteche, teatri, centri giovani, sale civiche; durante il prossimo Festival Filosofia 2023 che si svolgerà a Sassuolo il 15 e 16 settembre, verrà allestita all’interno di Future Rap. Prendiamo la parola!, uno spazio pensato per dare voce, attraverso diversi linguaggi espressivi, a ragazze e ragazzi nei bellissimi spazi di Villa Vistarino. 

Ma cosa si vede, in mostra? Il passato raccontato da ragazze e ragazzi è agli antipodi di una Wunderkammer seicentesca, è il regno dell’endotico e non dell’esotico (Perec, 1994), non ci sono reperti straordinari ma oggetti comunissimi, carichi di vissuti ed emozioni spesso mai condivisi, molto privati, semisconosciuti alle stesse figure educative che li affiancano ogni giorno. 

Ci sono oggetti di un’infanzia fatta di giochi semplici (secchiello, pennello, palline,…), spesso regalati da familiari e carichi quindi di valore affettivo (macchinine, braccialetti,…). La famiglia è certamente la chiave del passato, anche per i rituali evocati da alcuni reperti (il mattarello per tirare insieme la sfoglia, il filo con cui la madre cuciva tutto il giorno,…), ma quel passato non ha solo colori pastello, ci sono anche traumi (il cavallo che ricorda una caduta dolorosa e la prima volta in ospedale), paure (il carro armato che evoca la guerra), perdite (l’uccellino che non c’è più), che non immaginiamo se osserviamo chi li porta nel proprio quotidiano. Per altro, alcuni oggetti mancano all’appello, qualche ragazzo ha raccontato che dopo il suo viaggio migratorio o il suo sgombero del campo nomade dove viveva ha perso qualcosa di caro, che non si può mettere in mostra.

Ci sono le passioni di sempre, praticate da tempo e mai tradite – il calcio soprattutto (pallone, lacci di scarpe, scarpe, figurine di Cristiano Ronaldo… ) – e scoperte recenti, auspici per futuro (la matita con cui diventare geometra, il plettro per una carriera da chitarrista, il logo della Lancia come anteprima dell’auto che si avrà da grandi…). Ma è il piano simbolico e metaforico quello nettamente più interessante, più sorprendente: se il lucchetto di cui buttare la chiave per fissare un amore eterno è ormai un cliché, c’è però anche la gomma per cancellare il passato e andare avanti, l’astuccio pieno di pensieri che nessuno vede, carta e matita che regalano la libertà di disegnare un destino aperto, la conchiglia di chi si sente chiuso in se stesso, o il gessetto “perchè dopo un po’ mi consumo e perdo i rapporti”.

Il presente delle emozioni trasmesse dalle fotografie dei propri cellulari ha colori simili e mostra una gamma ricca di sfumature. L’emozione più evocata è la “felicità”, ma la sua declinazione per immagini è molto varia: è spesso associata alla vacanza, al mare o in montagna, soprattutto con la propria famiglia, poi con gli amici, è fare qualcosa per la prima volta come l’andare a cavallo, è l’esercizio della propria passione come giocare a calcio o fare atletica. 

Qualcuno parla di “estasi” quando racconta la propria passione per l’andare in moto o per i dolci in pasticceria, o di “meraviglia” di fronte al Vesuvio, ma più spesso la natura – di un tramonto, di un paesaggio o di un campo a primavera – trasmette “serenità”, come serenità è la parola associata ai momenti di gioco con gli amici, a calcio, a pallavolo. Per parlare di “libertà” si inquadra il cielo, per nominare la “speranza” si riproduce una medaglia o un momento trascorso con gli amici il “giorno della memoria”. L’“attesa” è quella di un concerto in America che un giorno si vedrà.

Ma le emozioni possono essere anche negative, come si è capito dal racconto del passato. 

Può sorprendere gli adulti, ma già in preadolescenza si prova una profonda “nostalgia/malinconia”, soprattutto quando il background migratorio porta in dote un Paese lontano, con affetti primari. Ma non solo in quei casi, perché si usa la stessa parola anche per creare la didascalia di un bar, sede di un incontro d’amicizia di cui si sente tanto la mancanza. A quell’età si prova “tristezza” – come racconta una foglia a terra, l’immagine del proprio cane perso – “solitudine” – come l’immagine di un uomo rannicchiato, che ricorda a un ragazzo il giorno in cui è arrivato nel paese dove  oggi vive – si è “arrabbiati”, “impauriti” e “in ansia”, soprattutto per la scuola, i compiti, i libri da leggere.  

Il futuro ricostruito attraverso il gioco disponeva di quattro carte che in qualche modo scandivano già il campo emotivo, secondo questa logica: “progetti” e “speranze” per nominare sia precise intenzioni che auspici, più vaghi ma non per questo meno legittimi; poi “minacce” per descrivere di cosa si ha paura e infine “caos” per evocare l’inatteso, il disordine, insomma qualcosa che era molto presente negli stati d’animo dell’adolescenza dopo l’esperienza pandemica. Diciamolo in premessa, la scansione non sempre è risultata nitida, nell’interpretazione data durante il gioco è evidente che ci sono margini di sovrapposizione, se non di scambio di significato.

I progetti riportati nelle carte riguardano soprattutto lavoro e benessere materiale: prendere una o due lauree, fare i soldi, diventare ricco, fare carriera come calciatore, entrare in NBA, avere una casa, comprare un cavallo, fare l’avvocato, creare un business on line, mettere su famiglia, vivere in una città moderna… Ora è evidente che per lo più non sono progetti nell’accezione che un adulto si dà, ma sono auspici, desideri, sogni ad occhi aperti, che ci aiutano a capire di quali cose ragazze e ragazzi sentono la mancanza, da cosa ritengono ingiusto essere esclusi. Crediamo infatti che questi riferimenti non vadano letti in senso letterale: conoscendo i contesti familiari di origine, si può affermare che ci sia in queste biografie una condizione di deprivazione materiale che si vuole superare, per cui di fronte all’invito a scrivere dei propri progetti si nomina tutto ciò che consente di scavalcare il presente, per accedere ad un benessere desiderato e sconosciuto. 

Infatti, le carriere sportive, o professioni come il trading on line, sono nell’immaginario comune quelli in cui già a vent’anni si può dire di “avercela fatta”. D’altra parte, l’immaginario offerto dalla musica ascoltata a quell’età, in questi anni, ha alimentato queste rappresentazioni, ha costruito il mito del ragazzo che dalla strada si riscatta diventando ricco.

Ma se questi sono i progetti, che cosa invece si spera? In qualche caso la stessa cosa – diventare ricchi, famosi, ecc. – ma più spesso le “speranze” portano a interrogare una dimensione più spirituale, intima: si spera di essere felici, di star bene, di far star bene la propria famiglia, di morire di vecchiaia, di fare un viaggio, di passare serenamente l’estate. Colpisce la potenza delle parole e la loro interpretazione in adolescenza: il progetto che agli adulti evoca pianificazione di attività per un obiettivo realistico qui diventa la denuncia della propria povertà relativa e la voglia di riscatto materiale, la speranza che legittima il fatto di nominare mete lontane qui sembra riportare a una sorta di “umanesimo”, cioè star bene, conoscere il mondo, essere felici, anche solo nei prossimi mesi.

Dal lato negativo, due erano le carte. La minaccia è stata interpretata come ciò di cui si ha paura, e qui si nota ciò che da sempre spaventa a quell’età e non solo a quella, ovvero il buio, la morte, l’altezza, i rimproveri della mamma, la perdita di qualcuno cui si tiene. Ma anche la paura di non farcela, di non essere all’altezza, di non raggiungere i propri obiettivi, paure tipiche di ragazzə in crescita. Quanto al caos nel futuro, quello diventa il modo per nominare sorte di incubi – la propria bocciatura, la malattia della madre, rompere il legamento crociato del ginocchio, la morte del proprio cavallo – timori per le sorti dell’umanità – l’apocalisse zombie, scompare l’acqua, scoppia la terza guerra mondiale – e al contrario svolte inattese della propria esistenza, come un finale a sorpresa di un film: “se una casa editrice pubblicasse il libro che vorrei scrivere in futuro la mia vita cambierebbe, e finalmente mia mamma sarà fiera di me”.

6. Conclusioni 

L’impostazione culturale della nostra società e i rapporti fra le generazioni chiedono a ragazze e ragazzi solitamente di studiare la Storia – che a scuola esclude sistematicamente gli ultimi anni, quelli che loro vivono – e di ascoltare le nostre storie, di adulti. E, se si entra in un museo, un adolescente sa che non incontrerà mai un’opera creata da un/a coetaneo/a, né contemporanea né del passato, quale che sia la mostra in campo, il linguaggio utilizzato, l’epoca in questione. L’adolescenza non ha quindi tracce culturali e artistiche, cioè non può specchiarsi, è deprivata dell’opportunità di un “noi”, è confinata all’esercizio di un “io” che i social alimentano e di cui si nutrono. Da qui l’urgenza del MAdo, quasi un risarcimento a questo vuoto. 

Quando si riconosce questa ingiustizia e si supera questo schema di ascolto/visione obbligata sempre e solo di “altro da sé”, quando si rompe la sequenza di domande illegittime [4] tipica della relazione dialogica tra adulti e ragazzi/e, si apre un mondo, spesso sconosciuto agli stessi familiari, alle stesse figure educative. L’uso di strumenti mediatori come facilitazione del racconto e l’adozione della linea del tempo come escamotage per cucire narrativamente vite percepite a frammenti mette in scena un ritratto per molti aspetti sorprendente.

Le pietre miliari del passato non sono i regali dei compleanni e gli oggetti mirabolanti di cui il mondo dei consumi ha invaso l’infanzia, né evocano la ricerca dell’esotico delle “stanze delle meraviglie” del passato, sono reperti semplici, di nessun valore materiale, simboli di momenti esistenziali importanti, di scoperte di sé più che del mondo, perché il viaggio fatto fino a quell’età è soprattutto verticale, interiore. Le emozioni del presente ci parlano di una ricerca di felicità, di serenità e pace, della famiglia come l’ambiente in cui avviene ciò che conta della propria vita, ma rivelano anche sfumature di tristezza, nostalgia, ansia che potrebbero essere state rivelate qui per la prima volta, affidando a un’immagine evocativa il compito di nominare questi lati bui che la logica del selfie escluderebbe inevitabilmente. 

Nominare il futuro produce invece un esito molto distante da quello tipico della razionalità adulta, abituata a “colonizzarlo” dei propri progetti per renderlo un terreno sotto il proprio controllo, vincendo il demone dell’incertezza: convocati dalla parola “progetti” ragazze e ragazzi mettono in campo le ingiustizie sociali che patiscono e i sogni da cui non vogliono essere preventivamente esclusi, e con la parola ‘speranza’ disegnano un mondo di relazioni positive, di benessere diffuso, di serenità auspicabile per tutti. Con un legame con la natura – testimoniato da diverse immagini – che suona come una lezione di vita alle scelte delle generazioni che le hanno precedute.

Tutto è scritto nelle preziosissime didascalie, senza il tono dello slogan – quel tono che in passato “giovani arrabbiati” hanno avuto nelle proprie parole rivolte contro il mondo – ma con il lirismo di una scrittura intimista che sta cercando ancora di dare forma alla propria vita. 

Note

[1] Il Cestino dei tesori è un gioco elaborato negli anni ‘70 dalla pedagogista inglese Elinor Goldschmied, per rispondere al bisogno di esplorare il mondo dei bambini molto piccoli (viene di solito utilizzato da quando il bambino di pochi mesi può stare seduto e fino ai due anni di età con modalità diverse di gioco). Si tratta di un contenitore, solitamente di vimini, al cui interno vengono raccolti oggetti naturali (conchiglie, pigne, piccoli legnetti, piume) e oggetti d’uso comune (mestoli di legno, gomitoli di lana, chiavi..). La grande varietà del materiale raccolto e delle diverse texture proposte favorisce nei bambini l’osservazione, la concentrazione e l’immaginazione.
[2] ‘Nuvola di parole’ o ‘wordcloud’ è l’assemblaggio delle risposte a quell’invito, creato attraverso il programma Mentimeter: ogni parola scritta sul cellulare dei partecipanti ricompariva in una composizione grafica proiettata a parete da un pc, in formato tanto più grande e tanto più al centro quanto maggiore era la sua ricorrenza fra le risposte.
[3]  E’ una tecnica di indagine e insieme di sviluppo di comunità: un gruppo è sollecitato a raccontare un punto di vista non rispondendo a domande ma attraverso la produzione di immagini, la cui interpretazione diventa tema di confronto e presa di consapevolezza sulle visioni del mondo presenti fra i partecipanti.
[4] Secondo Von Foerster si chiamano così le domande in cui chi  pone la questione conosce la risposta e chi risponde sa di dover indovinare quanto è già definito e noto al domandante, come succede nelle verifiche in classe e in tutte le situazioni in cui l’adulto accerta semplicemente quando un ragazzo è tenuto a sapere. ‘Legittime’ sono invece quelle in cui la domanda intende davvero scoprire la risposta: tutte le domande della Macchina del Tempo sono domande legittime.

Bibliografia

Boyd D., It’s complicated, Castelvecchi, Roma, 2014.
Laffi S., La congiura contro i giovani, Feltrinelli, Milano, 2014.
Laffi S., Quello che dovete sapere di me, Feltrinelli, Milano, 2016.
Perec G., L’infra-ordinario, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.

Stefano Laffi è sociologo, ricercatore sul campo, co-fondatore della cooperativa di ricerca sociale Codici di Milano. Da anni cura progetti di partecipazione, protagonismo, presa di parola, soprattutto di giovani e adolescenti. Ha pubblicato per Feltrinelli, Quodlibet, gli Asini, Franco Angeli. Ha collaborato alla realizzazione di Futura, film selezionato per la Quinzaine des Réalisateur al Festival del Cinema di Cannes 2021.

Silvia Bertoncelli è coordinatrice pedagogica Unione dei Comuni Distretto Ceramico.