§Anche le statue muoiono
Parlare della comunità, parlare con la comunità:
il caso di Scaffold al Walker Art Center di Minneapolis
di Martina Neglia e Yasmin Riyahi

Sam Durant (Seattle, 1961) è un artista che dalla metà degli anni Novanta esplora la dimensione politica della cultura contemporanea, ripercorrendo momenti topici della storia americana, portandone alla luce le maggiori controversie attraverso sculture, disegni e installazioni trans-mediali. 

Scaffold in Europa
In occasione di Documenta 13 (9 giugno – 16 settembre 2012), l’artista ha portato a Kassel Scaffold, una scultura in legno e metallo sul tema della pena capitale negli U.S.A.. L’opera consiste in una costruzione ricombinata dei patiboli utilizzati in alcune delle più significative esecuzioni pubbliche per impiccagione volute dagli Stati Uniti d’America tra il 1859 e il 2006. L’opera non è «né un memoriale né un monumento» (Durant, 2017) alla pena di morte, ma uno spazio di apprendimento che porta l’attenzione sulle ingiuste strutture di potere governative. Attraverso i suoi riferimenti storici, Scaffold si proponeva come una piattaforma di discussione sulle questioni della pena capitale e delle incarcerazioni di massa, fino alle problematiche direttamente connesse di razzismo e colonialismo.
All’epoca l’artista stava lavorando a una serie di opere su questo tema, ricreando con disegni e installazioni di medie dimensioni i patiboli costruiti per le impiccagioni pubbliche americane [1]. Per Documenta, il progetto è stato tradotto in una monumentale installazione pubblica presso il Karlsaue Park. Le persone erano invitate a scalare la struttura in legno, accedendovi da due scale di metallo, scoprendo progressivamente la natura dell’opera, non immediatamente leggibile. Ciò che all’inizio poteva sembrare una costruzione ludica per bambini, rivelava a poco a poco la sua natura drammatica, trovando sulla piattaforma centrale le informazioni sulle esecuzioni capitali rappresentate (Durant, 2012). Ad accompagnare l’opera, una zine autoprodotta dall’artista, con grafici e dati verificati riguardo la pena di morte e le incarcerazioni negli Stati Uniti.
Il successo dell’opera non si è esaurito in Germania. Nel 2013 Scaffold è stata infatti riproposta a Edimburgo, per il festival Jupiter Artland (3 agosto-15 settembre), e successivamente a L’Aia, dove è rimasta per oltre un anno (settembre 2013-novembre 2014) in occasione di Stroom Den Haag – See You in The Hague [2]. In Olanda, Scaffold è diventata palcoscenico di una rassegna ricca di eventi su pena di morte e democrazia. L’opera è stata così attivata come reale piattaforma di discussione sui temi evocati dalla sua stessa struttura.  

L’approdo negli Stati Uniti e le proteste della comunità Dakota
Tra le persone in visita alla scultura durante il periodo europeo, c’era anche Olga Viso, allora direttrice del Walker Art Center di Minneapolis, in Minnesota. Per lei l’opera di Durant rappresentava una potente dichiarazione artistica sull’etica della pena di morte, in grado di mirare direttamente alle violenze sepolte della storia statunitense (Viso, 2017). Viso ha quindi sottoposto la proposta di acquisto al museo, che nel 2014 ha acquisito Scaffold per 450 mila dollari [3]. L’opera sarebbe stata inserita all’interno del grande piano di ristrutturazione ed espansione del Minneapolis Sculpture Garden annunciato nel 2016 (Kerr, 2016).
Quello che sembrava un progetto carico di aspettative positive per il futuro dell’istituzione museale, si è scontrato con le proteste della comunità locale. Una delle impalcature usate per l’opera di Durant era ispirata all’impiccagione di 38 Nativi Americani della tribù Dakota avvenuta il 26 dicembre 1862 a Mankato, non distante da Minneapolis. La pena ai danni dei Dakota, eseguita per ordine del Presidente Lincoln, costituisce ad oggi la più grande esecuzione di massa nella storia degli Stati Uniti (Welter, 2015). L’opera richiamava quindi uno degli eventi più traumatici per la storia della comunità nativa del Minnesota, di cui alcuni membri sono diretti discendenti delle vittime.
L’opera in costruzione nello Sculpture Garden chiuso per lavori era perfettamente visibile dai passanti. Il Walker Art Center non si era impegnato in nessun modo a rendere leggibile al pubblico ciò che stava succedendo, in merito a una struttura che per occhi esterni sembrava solo una ricostruzione della forca di Mankato o addirittura un monumento al genocidio della comunità nativa. Per l’artista Scaffold voleva essere un modo per manifestare supporto ai nativi, ma la mancata comunicazione al pubblico da parte del museo ha contribuito a rendere ancor più problematica la ricezione di un’opera con quel tipo di estetica e rappresentazione (Durant, 2020).

Le recinzioni intorno al museo sono state infatti affollate dai protestanti, costringendo al rinvio della riapertura dello Sculpture Garden. Molti anche i cartelli portati e affissi, su cui si leggeva: “Take it down”; “Our genocide is not your art”; “Not your story”, con un richiamo all’appropriazione culturale e al dolore che l’opera di Durant infliggeva nei confronti di un trauma storico e sociale non ancora sanato (Nelson, 2017).
La risposta del museo alle proteste è arrivata con una lettera aperta della direttrice Olga Viso, in cui chiariva le motivazioni che l’avevano spinta ad acquisire Scaffold, poiché legata a temi della contemporaneità necessari da affrontare negli Stati Uniti. Riallacciandosi alle parole di Durant, Viso esprimeva la volontà, attraverso l’installazione, di sollevare un dibattito su come avvenimenti controversi della storia americana siano oggi ricordati, ribadendo le “buone intenzioni” da parte del museo. Tuttavia, nella lettera Viso riconosceva come il posizionamento geografico, così vicino all’esecuzione evocata e alla comunità coinvolta, non sia stato un dato neutro rispetto alla reazione ricevuta: «[…] rimpiango di non aver previsto meglio come [Scaffold] sarebbe stata ricevuta a Minneapolis, specialmente dal pubblico di Nativi. Avrei dovuto coinvolgere i leader Dakota e di più ampie comunità native prima della collocazione dell’opera, e mi scuso per qualsiasi dolore e delusione che la scultura potrebbe suscitare». La direttrice chiudeva poi la lettera suggerendo la necessità di avere un dialogo con la comunità per la costruzione di un processo di apprendimento reciproco (Viso, 2017).
L’attivista e artista Graci Horne, presente durante le proteste, pochi giorni dopo scriveva sui social dell’importanza della memoria, del ricordare di come le tribù Dakota siano state costrette ad abbandonare la terra natale dividendosi tra gli Stati, fino in Canada. Lo stesso Walker Art Center è stato costruito su terre appartenute ai Dakota (Waldman, 2020). Per Horne, con Scaffold la narrazione della loro storia è passata tra le mani di un artista non-Nativo come Durant, rinvigorendo un ciclo violento di dinamiche colonialiste in cui è l’artista bianco a definire i termini della sofferenza indigena e il modo in cui è possibile raccontarla. Horne riportava in ultimo anche la volontà degli Anziani di dialogare con la direttrice Olga Viso con lo specifico intento di richiedere la rimozione dell’opera [4].

Recinzioni del Minneapolis Sculpture Garden ricoperte dai manifesti della protesta. In fondo, l’opera di Sam Durant, Scaffold Photo © Sheila Regan

Il processo di mediazione
Alla luce dei fatti, alla fine di maggio 2017 si avviò un processo di mediazione, proposto dai leader Dakota e accettato dal Walker Art Center. La mediazione ebbe luogo il 31 maggio 2017 in una sala conferenze del museo, con alcuni membri del suo staff, del Minnesota Department of Natural Resources, il personale della città di Minneapolis, rappresentati Dakota e di altre tribù locali. Erano gli Anziani Dakota a guidare la mediazione, i quali precisarono che per loro l’evento era un processo trasformativo di guarigione, che non voleva porsi come antagonista nei confronti dell’artista o dell’istituzione museale. Sam Durant ha raccontato in un’intervista l’importanza di questa sessione: «C’era una mediatrice di grande esperienza che ha guidato l’intero incontro […] Era un cerchio cerimoniale. Dalla loro prospettiva, era una sessione spirituale e non politica – potevamo permetterci un certo tipo di dialogo, forse più aperto e onesto. È stato davvero toccante. Volevo spiegare il mio lavoro, ma ho avuto l’impressione che avrei dovuto ascoltare, così è quello che ho cercato di fare. Il problema principale era quanto quella struttura per loro fosse reale. Gli anziani erano calmi e rispettosi, ma anche fermi sulle loro opinioni» (Miranda, 2017). 

Comprendendo le ragioni valide dietro le proteste, Sam Durant propose di rimuovere da Scaffold la sezione che faceva diretto riferimento all’esecuzione di Mankato. Non era sua volontà far rivivere un trauma a un gruppo di persone, peraltro rispetto a un tema che intendeva condannare. D’altronde l’opera non era un monumento alla storia Dakota, e la rimozione di una delle forche non avrebbe alterato significativamente il contenuto. Questa soluzione fu però rigettata: il significato di Scaffold era ormai compromesso, e finché sarebbe rimasta in piedi, avrebbe continuato a evocare quel messaggio traumatico. 

Una volta respinta la proposta iniziale, l’artista acconsentì alla richiesta di smantellare Scaffold. Per Durant questa era l’unica opzione etica possibile date le circostanze, mettendo fine sia alle proteste dei Dakota che alle preoccupazioni delle autorità locali. L’intento di Durant era quello di generare consapevolezza sull’ingiustizia sociale delle esecuzioni capitali, ma quando il messaggio è stato interpretato in un altro modo, l’opera non era più fruibile nei termini sperati.
Come ulteriore riconoscimento del sostanziale errore di metodo, Durant decise di trasferire la proprietà intellettuale di Scaffold alla comunità Dakota Oyate, che poteva così disporne come meglio riteneva opportuno.
Per l’artista questa decisione è forse l’aspetto più significativo della mediazione, sicuramente quello in cui ha avuto più voce in capitolo, mettendo in luce la natura dell’opera non solo come produzione creativa, ma come proprietà in termini legali e asset economico (Durant, 2020). 

La “trasformazione” di Scaffold
Con questo diritto acquisito, i rappresentanti della comunità Dakota hanno deciso di smantellare l’opera. Se inizialmente si pensava di bruciarla, questa soluzione è stata presto scartata. I Dakota attribuiscono al fuoco un potere spirituale e purificatore, che non poteva essere profanato per distruggere il legno che si era fatto portatore di un messaggio così tremendo [5].
Di comune accordo, si è scelto quindi di smontare i pezzi di Scaffold, riciclare le componenti  metalliche e seppellire le parti in legno in un luogo noto solo a poche persone. Lo scopo era infatti quello di evitare di attirare curiosi o saccheggiatori di tesori a caccia di souvenir di uno dei casi più controversi della recente produzione artistica.

I lavori di smantellamento sono iniziati il 2 giugno 2017 e terminati il 5 dello stesso mese [6], preceduti da una cerimonia sacra guidata dalla comunità Dakota Oyate, a cui tutte le persone desiderose di assistere erano invitate, a patto di rispettare lo spazio e il modo dei nativi di processare il loro dolore secondo la loro tradizione. 

Anche la sepoltura è stata descritta come una pratica intensa, a cui hanno preso parte il capo della comunità Dakota e altri leader spirituali della tribù. Non si è trattata quindi di una violenta iconoclastia, ma di un processo di preghiera e consapevolezza, che ha rimosso dalla vista della comunità un’immagine particolarmente traumatica.
Al di là delle voci contrarie, che difendono la libertà dell’artista nella scelta dei temi da affrontare (Diers, 2018), e condannano la censura che lui stesso si è imposto [7], Sam Durant ha scelto consapevolmente di operare in questo modo: «Ho fatto questa scelta liberamente. Il lavoro che avevo realizzato non soddisfaceva più le mie intenzioni originali. Mi auguro sempre che il mio lavoro supporti le battaglie e la giustizia delle persone native. Sapere che invece li stavo danneggiando, mi ha fatto stare male. Dovevo fare qualcosa» (Miranda, 2017). 

Peraltro, Durant non parla mai di “distruzione” dell’opera, quanto di “trasformazione” della stessa, che ora si è resa “invisibile”, ma non per questo meno evocativa. Anzi, a suo avviso, i temi di Scaffold ora sono disponibili in un nuovo contesto e la sepoltura ha aggiunto un ulteriore livello di lettura, seppure involontario (Durant 2020). Anche Olga Viso è della stessa opinione: benché Scaffold non esista più come manifestazione fisica, per lei l’opera vive nei documenti, come anche nella storia orale, nonché nelle vite di tutte le persone che si dicono profondamente cambiate dal processo che ha saputo attivare: «Abbiamo ricreato l’opera insieme, come comunità, affrontando una conversazione davvero complessa» (Eler; Ross, 2017).  

Nella sua tesi di laurea, Shannon Hebert Waldman ha riflettuto su questi temi, proponendo per Scaffold un’interpretazione alternativa, applicandole il concetto di “contro-monumento” così come è stato definito da Young. Se per Young il contro-monumento agisce come aperto invito a farci delle domande sulla nostra memoria, per comprendere il passato come una molteplicità di storie (Young, 1992), allora Scaffold applica alla lettera questa definizione, persino nella sua assenza, laddove anche quest’ultima può essere evocativa quanto la struttura stessa (Waldman, 2020). 

Sempre Waldman, nel ripercorrere la storia dell’opera in seno alle sfide poste dalla produzione di arte pubblica, incontra il pensiero di Harriet Senie. Già negli anni Novanta, Senie introduceva la consapevolezza che la proliferazione di sculture pubbliche fosse sintomo di una cultura in cerca di simboli unificanti (Senie, 1992). Ma questa necessità si scontrava, ora come allora, con il fatto che abbiamo spesso punti di vista conflittuali. Sempre Senie sottolineava come la “buona” arte pubblica non debba essere un monologo inaccessibile, ma un invito al dialogo, un reale spazio di comunicazione, con un ruolo attivo nella vita pubblica. Per Waldman, questa suona decisamente come un’affermazione profetica rispetto alle sorti di Scaffold (Waldman, 2020).

Il ruolo dell’artista e delle istituzioni nello smantellare le politiche coloniali
Come accennato sopra, nel settembre 2020 Sam Durant ha rilasciato un’ulteriore dichiarazione a tre anni dai fatti del Walker Art Center. L’artista ha ritenuto maturi i tempi per condividere la sua prospettiva e sconfessare le notizie imprecise che continuano a circolare intorno all’episodio [8]. Egli non intende sottrarsi alle sue responsabilità [9], ma tiene a sottolineare il coinvolgimento del museo, che a suo avviso si è fatto partecipe del medesimo errore di metodo. Se lui non ha pensato di entrare in contatto con la comunità Dakota, è anche vero che è compito delle istituzioni locali farsi carico della corretta comunicazione delle opere per il proprio pubblico, e questo  aspetto è completamente mancato per Scaffold. Come già all’epoca la direttrice Viso ha riconosciuto (Viso, 2017), non c’è stato un punto di contatto con la comunità Dakota, ma un innocente tentativo di generare consapevolezza rispetto ad aspetti nascosti e dolorosi della storia del Minnesota, senza però prendere in considerazione le parti in causa. Una dichiarazione che smaschera non tanto un’incomprensione momentanea, quanto una lontananza sistemica tra istituzioni locali e comunità native. 

Quando l’opera si trovava in Europa, la distanza geografica della scultura dai luoghi dell’orrore permetteva di concentrarsi sul significato propositivo che Durant ancora attribuisce a Scaffold. Questo spiegherebbe il suo successo dal 2012 al 2014. Una volta che l’opera è stata collocata a Minneapolis, però, questa ha perso il suo valore concettuale, e si è trasformata in un fac-simile di un patibolo, riattivando un trauma generazionale per parte della comunità.

Nello statement, Durant riflette sul suo ruolo nell’affrontare la denuncia al razzismo in quanto artista bianco. Egli ritiene necessario che le persone bianche si attivino per smantellare la supremazia bianca, come alleate per la creazione di una società non razzista. Quello che però è mancato nella produzione di Scaffold, ancor prima di arrivare a Minneapolis, è stato proprio uno spazio di ascolto con le comunità coinvolte. Nonostante Durant non sia nuovo alla collaborazione con attivisti di movimenti di lotta, e per quanto abbia saputo accogliere la voce delle proteste, nel suo tentativo di creare una forma di alleanza con la comunità nativa, è mancata una riflessione sul proprio posizionamento e sulla possibilità di praticare a sua volta oppressione, venendo riconosciuto come fonte di enunciazione autorevole e legittima rispetto a una storia che di fatto non gli appartiene.

Questo ci ricorda come sia necessario mantenere una riflessione costante sul fatto che porsi come alleati all’interno delle lotte, in ambiente di colonialità, sia sempre soggetto al rischio di appropriazione e di colonialità del potere (Borghi, 2020). L’alleanza che Durant voleva costruire, invece di risultare una possibilità di impoteramento [10] per tutte le soggettività coinvolte, è finita per essere un’occasione di visibilità e profitto per lui in quanto artista e di evitabile sofferenza per la comunità Dakota.

Nello statement, l’artista vuole sincerarsi che la “disavventura” di Scaffold non sia controproducente, e non scoraggi artisti e istituzioni dall’affrontare tematiche complesse. Al contrario, spera che questa sia l’occasione per apprendere insieme una lezione fondamentale: pensare a tematiche sociali, anche spinose, prestando ascolto agli input e collaborando con i gruppi coinvolti.
La spinta deve essere quindi quella a riconoscere i rischi che si corrono in quanto persone occidentali bianche privilegiate: appropriazione, estrattivismo culturale, ma anche saturazione dello spazio a disposizione. Prendendone atto, in una pratica continua di coscientizzazione, si può provare a evitarli, ma soprattutto impegnarsi a cortocircuitare dall’interno quei sistemi di produzione di gerarchie e oppressioni contro cui si vuole lottare (Borghi, 2020). 

Per quanto riguarda il Walker Art Center, il museo ha riconosciuto la necessità di attivarsi per modificare la sua struttura istituzionale e le policy di acquisizione e collocazione di opere. Già nel 2017, Olga Viso prendeva l’impegno di riformare le politiche museali, per poter ricostruire la fiducia della comunità Dakota nei confronti dell’istituzione (Viso, 2017). Impegno ribadito dal Walker Art Center Interim Executive Office a gennaio 2018, pubblicando sul loro sito i piani per coinvolgere direttamente la comunità nativa nelle varie attività del museo. Nel 2019 il Walker Art Center ha inoltre indetto un concorso, l’Indigenous Public Art Commission, per l’acquisizione di un’opera d’arte nativa nella collezione permanente del museo [11]

Se questi sono sicuramente dei passi avanti, è chiaro che non sono sufficienti per alterare concretamente lo status quo ed estirpare il pensiero coloniale che ancora impera nelle istituzioni. La politica dell’identità è un tema complesso, da affrontare in maniera critica, ben oltre la promessa di acquisizione di un’opera d’arte. Finché l’istituzione non avrà al suo interno una significativa rappresentanza indigena, per esempio, non sarà possibile immaginare un reale cambiamento. Si fa necessario un processo di decolonizzazione dell’istituzione museale e il Walker Art ha l’opportunità di farsi capofila di questa riforma.  

L’episodio del Walker Art Center riflette nello spazio conchiuso del museo, le sfide che lo Stato dovrebbe affrontare: la costruzione di un processo decisionale che tenga conto di tutte le parti in causa, la narrazione sul genocidio dei Nativi Americani, e la necessità di ascoltare la storia dal punto di vista delle comunità indigene. Se smontare Scaffold si è rivelato un processo relativamente semplice, più complesso sarà smantellare l’iniquità sistemica che ha causato l’episodio (Cournoyer; Russel, 2017). 

Uno spazio di apprendimento che parte dai margini
Scaffold significa anche “impalcatura”, riferendosi a strutture provvisorie destinate a essere smontate alla fine dei lavori. Suona ironico che un’opera con questo titolo sia stata smantellata definitivamente dopo pochi anni di vita. Così come può sembrare paradossale la sorte dell’opera che voleva denunciare la pena di morte, che a sua volta è stata condannata a sparire.
Nonostante tutto ciò, anche attraverso l’inatteso epilogo, Scaffold ha ottenuto più dell’effetto sperato. Durant dichiarava da principio di voler creare una piattaforma di dialogo per generare consapevolezza all’interno di un più ampio processo di revisione sistematica, uno spazio di apprendimento alternativo alle retoriche tradizionali della storia americana.
Spazio di apprendimento che però non è partito dal “centro”, dalle soggettività autorizzate gerarchicamente a innescarlo, ma dal margine. La marginalità uno dei concetti teorici più analizzati e ripresi dalla pensatrice femminista bell hooks non è soltanto uno spazio di osservazione verso l’interno, ma soprattutto uno spazio di resistenza in cui è possibile la produzione di un reale sapere controegemonico. Il margine abitato dagli indigeni del Minnesota è stato oggetto, ed è tuttora, di un’opera di colonizzazione e sottrazione dei territori a fini economici, di repressione e silenziamento. Nello scontro con Durant e il Walker Art, sono state però proprio le voci partite da una condizione di marginalità a farsi miccia di una riflessione su trauma e rappresentazione, che andasse oltre ciò che è già canonizzato. Lo sono state nel momento della protesta, di rivendicazione su una storia e un dolore propri, ma anche nel momento della risoluzione e della cerimonia sacra portata all’interno del giardino museale e aperta a tutti. Citando nuovamente bell hooks infatti: «margine […] è luogo di creatività e potere, spazio inclusivo, in cui ritroviamo noi stessi e agiamo solidarietà, per cancellare la categoria colonizzato/colonizzatore» (hooks, 2020).

La vicenda raccontata, dunque, non è semplicemente la narrazione di una controversia complessa a cui lo smantellamento di Scaffold ha posto fine, quanto l’inizio di uno sperato cambiamento, nel necessario processo di trasformazione delle istituzioni e della responsabilità collettiva nello smantellare il pensiero coloniale.

Note
[1] Una raccolta di questi lavori è presentata nella mostra Dead Labour Day presso la Paula Cooper Gallery di New York (13 marzo-17 aprile 2010).
Tra le opere, era presente la riproduzione di un patibolo per esecuzioni pubbliche, riferito all’uccisione degli “
Haymarket Martyrs”.
[2] Si rimanda alla sitografia per il programma dell’iniziativa.
[3] I dati sono riportati dal «New York Times», citando i verbali del comitato per le acquisizioni del consiglio di amministrazione del Walker Art Center (Eldred, 2017).
[4] Il post di Graci Horne è stato più volte condiviso da pagine legate alle comunità native degli Stati Uniti. Qui si può ancora leggere una delle ricondivisioni delle sue parole dalla pagina facebook di Earth Guardians New York, consultato il 15 ottobre 2020.
[5] Le notizie immediatamente successive alla conferenza stampa riportavano una prima volontà di bruciare l’opera (Cascone, 2017). Tuttavia, il «New York Times» chiarisce che questa volontà non c’è mai stata, perché per i Nativi Americani il fuoco ha un valore sacro (Eldred, 2017). Queste informazioni sono poi ribadite nelle interviste a portavoce nativi realizzate da Shannon Hebert Waldam per la sua tesi di laurea dedicata al caso di Scaffold (Waldman, 2020).
[6] Le varie tappe del processo sono documentate sul magazine del Walker Art Center, sul sito ufficiale.
[7] A giugno 2017 la National Coalition Against Censorship ha rilasciato una dichiarazione in cui si oppone alla scelta di distruggere Scaffold, definendola auto-censura. Per la NCAC, la distruzione di Scaffold costituiva un pericoloso precedente sia per le istituzioni, che ne uscivano indebolite, che per gli artisti, che in caso di eventi controversi come questo penseranno di avere poca scelta sul futuro delle loro opere.
[8] Durant si riferisce alla circolazione di notizie false come che l’opera fosse stata commissionata a lui dal Walker Art Center, o che fosse un memoriale Dakota, o attribuendogli piena responsabilità di tutti gli accadimenti.
[9] «Io ho il grande rimpianto di aver perso l’occasione di incontrare i leader Dakota prima di realizzare l’opera. Sono certo che avrebbe avuto un risultato completamente diverso» (Durant, 2020).
[10] Usiamo la parola impoteramento, come corrispettivo di empowerment, citando Maria Naidotti nella sua traduzione di bell hook (2020).
[11] Il progetto di arte pubblica indigena è stato selezionato a maggio 2019. Una commissione composta da persone esperte d’arte e native, ha scelto l’artista Dakota Angela Two Stars (Eler, 2019). La sua opera doveva essere esposta nel 2020, ma, a causa della situazione pandemica, l’installazione è stata rimandata all 2021 (Regan, 2020).

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Yasmin Riyahi è dottoranda di ricerca in storia dell’arte contemporanea presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Lavora nella redazione di exibart, rivista online e cartacea di arte e cultura contemporanea. Per exibart cura una rubrica podcast su temi controversi dell’attualità culturale, polemichette. Attivista per i diritti umani nel Gruppo Giovani 085 di Amnesty International.

Martina Neglia è attivista femminista all’interno dell’assemblea transfemminista dell’Arci Porco Rosso di Palermo. Collabora con più riviste e progetti online (L’indiependente, Dinamopress) trattando soprattutto tematiche legate a femminismo e letteratura. Cura l’assemblea online Interspazi con l’obiettivo di trovare modi alternativi di fare rete nell’epoca del distanziamento sociale.