§Americhe. Riemergenze, pluriversi e resistenze
Quale America? La permanenza acritica dell’uso dei termini “Amerindio” e “Amazzonia” nei display museali italiani
di Eirene Campagna, Costanza Fusi e Tommaso Casini

Introduzione
di Eirene Campagna 

Le spedizioni europee attraverso l’Atlantico avvenute a partire dal XVI secolo, oltre ad  aver rivelato un mondo del tutto inaspettato, hanno messo in moto il complesso  meccanismo delle esplorazioni e delle conquiste, in cui l’incontro e le relazioni tra  colonizzatori e colonizzati ha assunto varie declinazioni, anche tra loro contraddittorie.  Prima fra tutte il pregiudizio etnocentrico dei vari paesi europei, che si è espresso in un  senso di superiorità culturale e civile, connesso al ripetuto tentativo di imporre la cultura europea in un processo di assimilazione, ma soprattutto alla volontà di sfruttamento delle popolazioni e dei loro spazi. Tutti questi processi hanno generato modi di vedere e  atteggiamenti che hanno prodotto una letteratura sterminata in merito. Durante l’intera  storia delle conquiste in Europa sono stati trasferiti numerosi oggetti provenienti da  territori extraeuropei, con la conseguente nascita dei cosiddetti musei etnografici, inoltre  è stata prodotta una vasta bibliografia riguardante la rappresentazione letteraria e artistica  di matrice europea, rispetto alle culture e alle tradizioni delle popolazioni conquistate, ai  loro comportamenti e reazioni verso i colonizzatori.  

Dei tre contributi qui presentati, due si occupano del primo aspetto, cioè delle modalità e  dei criteri di esposizione di oggetti che offrono testimonianze delle culture extraeuropee,  il terzo contributo invece verte più sull’aspetto dei metodi rappresentativi adottati dagli  scrittori e dagli artisti europei nella narrazione di quelle stesse culture. 

Negli ultimi decenni gli studi sull’arte si sono aperti in modo significativo a prospettive  d’indagine e di ricerca multidisciplinari che fuoriescono dall’ambito tradizionale.  Rientrano, a pieno titolo, nelle questioni artistiche e museografiche, i complessi meccanismi culturali, sociali e politici, che consentono di analizzare e riflettere  criticamente tutti quei movimenti che hanno portato ad una nuova e complessa  definizione dell’arte. Da questi nuovi scenari emerge l’esplorazione sempre più puntuale  e tout court della creatività culturale e dell’affermazione individuale presente in ogni tipo  di società, e di conseguenza in ogni interstizio del vasto mondo dell’arte e, nella presente riflessione, della museologia. In questo rinnovato clima di indagine, viene ridiscussa non  solo la questione relativa alla supremazia culturale occidentale, ma vengono contestate le  pratiche di acquisizione dei musei, fino al delicatissimo problema delle restituzioni degli oggetti esposti o, in alcuni casi, contenuti nei depositi dei musei, che ha dato vita ad  animati dibattiti, i quali a loro volta hanno portato a nuovi e numerosi accordi  internazionali [1].

Inoltre le attuali tendenze nell’ambito delle esposizioni museali dettano dei criteri  secondo cui gli oggetti presentati vengono prima contestualizzati, riferiti ad un’epoca e a  una società, mettendo in atto una progressiva trasformazione dei caratteri dei musei, anche attraverso delle strategie espositive utili a risvegliare nello spettatore l’interesse per  gli artisti e le società di provenienza degli oggetti che egli può osservare, che toccano la  sua sensibilità e lo incitano a saperne di più. 

È stata soprattutto la New Museology a concentrarsi sull’autorità espressa dal museo e  sulla sua efficacia in termini di capacità di rappresentazione. Ciò è avvenuto di pari passo  alla contemporanea evoluzione della disciplina antropologica, grazie anche al contributo  di James Clifford, che già da tempo aveva svolto una approfondita analisi sull’ideologia  del museo antropologico, introducendo il concetto di museo come zona di contatto, come spazio in cui popoli geograficamente e storicamente separati entrano in relazione l’uno  con l’altro (Clifford, 1997). 

Queste considerazioni ci permettono di inserire il presente contributo in un ampio  contesto di studi che comprendono gli heritage studies da un lato e i cultural, postcolonial  e decolonial studies dall’altro, e da cui si riscontra un controverso rapporto degli europei  con il patrimonio culturale di derivazione non classica e post-coloniale.  

Il principale scopo dei musei etnografici è da sempre quello di ricostruire in parte, e  rappresentare, le culture extra-europee, tanto che le collezioni di oggetti appartenenti a  queste culture costituiscono oggi un patrimonio controverso «oggetto di molteplici  richieste che riguardano sia la restituzione ai Paesi e alle comunità di provenienza, sia una  profonda revisione delle narrazioni che il museo ha elaborato su di esse» (Grechi, 2021). Partendo da questa riflessione, il primo interrogativo da sciogliere in questa sede potrebbe  essere quello di ricercare nel museo, e in particolare, in quelli definiti etno-antropologici ˗ attualmente più comunemente chiamati musei delle culture o delle civiltà un’occasione viva e reale di incontro col pubblico, superando, in linea con l’evoluzione degli  studi museali, i limiti dell’idea di una museografia come semplice pratica di allestimento  di carattere ordinatorio, per andare incontro ad una modalità espositiva che si produca in  un rapporto costruttivo tra la teoria museologica e le possibilità espressive degli spazi di  allestimento, nel creare componenti idonee per un’efficacia museale connessa alla ricerca  etnografica. 

Prendendo in considerazione alcuni allestimenti storici di collezioni etnografiche italiane,  ci soffermeremo sulla sezione americana del Museo delle Civiltà di Roma e sulla Sala del  Sud America del Museo Antropologico ed Etnologico dell’Università degli Studi di  Firenze, presentando come case studies due teche appartenenti alle sezioni dell’area  amazzonica. La realtà espositiva di quanto mostrato ci porta ad interrogarci sulle  motivazioni e sulla spinta culturale che ha determinato la presenza degli oggetti in  questione e su quanta rilevanza spetti alla conoscenza delle originarie intenzioni delle  comunità di provenienza degli oggetti esposti.

  1. Per un’ipotesi di rinnovamento dell’identità etnografica: rimozioni e restituzioni  al museo delle Civiltà di Roma «Luigi Pigorini». Il caso della Tsantsa dei Jivaro Shuar
    di Eirene Campagna 

Le origini del Museo «Luigi Pigorini» sono da ricercare, oltre che nel Museo  Kircheriano [2], anche nel Congresso Internazionale di Antropologia e Archeologia di  Bologna del 1871, in cui era stata manifestata l’importanza sempre maggiore che le  discipline preistoriche andavano assumendo nell’orizzonte delle scienze dell’uomo. In seguito a questi eventi, Luigi Pigorini, uno dei padri fondatori della paletnologia italiana,  si fa portavoce della tradizione scientifica del tempo, scrivendo nel 1875 una concreta  proposta all’allora Ministro della Pubblica Istruzione Ruggero Bonghi. 

Il progetto proposto da Pigorini per il Museo Nazionale Preistorico Etnografico di Roma  doveva raccogliere le sculture preistoriche italiane, secondo criteri cronologici e  geografici, ed essere completato con una sezione dedicata alle principali culture  preistoriche europee ed extraeuropee; inoltre egli aveva previsto la creazione di una  sezione etnografica, dedicata alle arti e ai costumi dei popoli indigeni viventi in tutto il  mondo, con l’intenzione di far comprendere la funzione degli oggetti preistorici e la vita  quotidiana di queste popolazioni (Mangani, 2015). Tra le principali funzioni del museo  vi era quella didattica, con la finalità di divulgare la paleontologia attraverso varie  conferenze (Nobili, 1990). 

Dal 1876, anno della sua inaugurazione in poche stanze del Collegio Romano, al 1923  anno in cui Pigorini lascia la direzione, il museo conobbe uno straordinario sviluppo fino  al suo trasferimento, tra il 1975 e il 1977, nel Palazzo delle Scienze all’Eur. In questa sede  conserva la sua originaria organizzazione in due settori: uno dedicato alla Preistoria e uno  all’Etnografia Extraeuropea. È a partire dai primi anni Novanta che il Museo ha avviato  il suo rinnovamento espositivo, che è ancora oggi visibile negli allestimenti attuali. Nel  2016 le collezioni del Museo Preistorico Etnografico, intitolato ora a Luigi Pigorini, sono  confluite nell’attuale Museo delle Civiltà. Il museo conserva una straordinaria varietà di  opere e di documenti di epoche e provenienze diverse: dalla preistoria alla geo paleontologia e lito-mineralogia, dalle arti e culture extraeuropee alle testimonianze della  storia coloniale italiana, fino alle arti e tradizioni popolari italiane. I criteri espositivi messi in atto sembrano comunque mantenere un fondamento ideologico nella cultura  positivista, classificatoria, eurocentrica e coloniale del XIX e XX secolo. 

Una tendenza  che si sta cercando di ribaltare soprattutto grazie alla nuova direzione del museo, affidata  dalla fine del 2022 ad Andrea Viliani, il quale si pone in linea con gli attuali orientamenti  di ricerca, sia teorici che pratici, che interessano i musei antropologici. Questi, come  abbiamo già accennato, stanno diventando un caso-studio nella museologia  contemporanea, in quanto in passato «hanno separato e classificato in modo disuguale  intere culture, attraverso l’invenzione di categorie come quelle del “primitivo” e  dell’“alterità”, funzionali alle narrazioni eurocentriche e, più in generale, occidentali,  divenendo produttori di conoscenze dominanti, fuorvianti ed escludenti» (Intervista ad  Andrea Viliani, Artribune 2022). 

Nella nuova prospettiva, i reperti etnografici esposti saranno presentati come parte di una  storia documentata di civiltà, ribaltando la modalità di esposizione secondo cui degli  oggetti in mostra vengono date delle informazioni principalmente relative alla tecnica, la  società di appartenenza e la religione di origine. Si ampliano così gli spunti di riflessione  verso la definizione della qualità estetica dell’opera/oggetto, ancora oggi dibattuta in  ambito antropologico-museologico in maniera articolata e non sempre condivisa. 

Durante una recente visita al Museo delle Civiltà di Roma – nel ripensare allo stato attuale  dei musei, da sempre considerati come un’istituzione storica di matrice europea, che  organizza lo spazio della fruizione, “gestisce” le sue collezioni e il suo pubblico attraverso  la “messa in mostra” degli oggetti che “raccoglie” al suo interno (Definizione ICOM  2022) – in una conversazione con l’antropologa Loretta Paderni, responsabile delle  collezioni etnografiche del museo, a proposito delle teche amazzoniche della collezione americana, sono emerse delle ipotesi per una serie di azioni da realizzare per il  riallestimento della sezione. Queste comprendono delle pratiche di cura, orientate verso  una progressiva ridefinizione e identificazione degli oggetti esposti, in un’ottica diversa rispetto ai già citati criteri tradizionali di conservazione delle testimonianze etno antropologiche. È evidente che si renderanno altresì necessarie delle pratiche di  restituzione di parte del patrimonio alla comunità originaria di appartenenza:  «probabilmente per molti di questi oggetti non è ancora finito il viaggio, possono ancora  andare altrove, o tornare a casa» (Grechi, 2021).

Una delle prime operazioni concrete già visibili riguarda proprio la teca amazzonica, da  cui è stato rimosso un oggetto definito dall’antropologa «problematico»: si tratta di una delle Tsantsa, le teste mummificate della popolazione dei Jivaro, la tribù dei “cacciatori  di teste” che avevano la singolare abitudine (singolare per noi, ma evidentemente non per  loro) di conservare le teste dei nemici uccisi, e di praticare una cerimonia religiosa in  grado di rimpicciolire e conservare i crani collezionati durante gli scontri. «Le teste erano  realizzate con i crani dei nemici sconfitti sul campo di battaglia», spiega l’antropologa  Loretta Paderni, seguendo una particolare cerimonia, utilizzate a scopo rituale oppure  esibite come trofei. La cerimonia di mummificazione era differente da tribù a tribù, anche  se sostanzialmente simile a livello tecnico. Una particolare procedura riduceva la  dimensione della testa ad un terzo dell’originale, inoltre un certo tipo di lavorazione  consentiva di conservare i lineamenti del volto e indurire la pelle. Si sa che la tribù Jivaro Shuar conservava le teste come portafortuna, indossandole in particolari eventi religiosi.  La cerimonia di preparazione aveva come scopo quello di trattenere l’anima del defunto  nella testa, in modo tale che non potesse reclamare vendetta sul suo assassino o sui  discendenti del guerriero che lo aveva ucciso. 

La teca da cui è stato rimosso l’oggetto in questione conserva ancora altri reperti, tra i  quali dei gioielli, dei copricapi di piume, altri oggetti rituali. La teca Jivaro-Shuar è  collocata nello stesso spazio in cui si trovano altri reperti provenienti dalle diverse  popolazioni amazzoniche (fig. 1). 

In questo caso specifico, così come in altri casi analoghi, la rimozione dell’oggetto e la  sua eventuale restituzione nel luogo di origine, gli conferirebbe un significato diverso,  ricollegandolo al contesto che lo ha generato e da cui si è venuto a configurare.  L’importanza di questa azione rientra nel programma più ampio che coinvolge l’etnografia museale in una serie di interventi mirati, in grado di contemplare in pieno le  possibilità comunicative delle sue “narrazioni” per una comprensione più profonda e consapevole dell’identità contestuale dell’oggetto, nonché delle sue capacità di esprimere relazioni e fenomeni. È possibile sperimentare così la portata scientifica e divulgativa  della descrizione etnografica, fino ad arrivare ad una ragione espositiva che pone al centro  delle proprie attenzioni il pubblico. Proprio a proposito del rapporto dialogico che si  instaura tra pubblico e museo, possiamo riprendere, per concludere, le parole  dell’antropologo Mario Turci: «sia che il museo possa essere interpretato come territorio  disciplinare, che come luogo di sviluppo di scritture capaci di rappresentazione, esso non  può essere compreso se non per colui che ne richiama l’investimento di risorse e ne  sostiene, seppur indirettamente, la presenza: il pubblico, energia del museo, il motivo  della sua esistenza, l’indicatore sociale della sua natura, sia in analisi che in progetto»  (Turci, 1999).

Sezione americana del Museo delle Civiltà di Roma Teca Jivaro-Shuar. Foto: Eirene Campagna.

1.2 La sala del Sud America al Museo di Antropologia ed Etnologia di Firenze: tra  definizioni, toponimi e rappresentazioni.
di Costanza Fusi 

Esattamente come accadeva al suo fondatore, Paolo Mantegazza, il Museo Nazionale di  Antropologia ed Etnologia dell’Università degli Studi di Firenze (MNAE) presenta  un’evidente insofferenza ad essere catalogato univocamente e definito dagli appellativi  che durante il lungo corso della sua vita gli sono stati esplicitamente o implicitamente  attribuiti. Racchiudere in sé una realtà complessa, sfaccettata e multiforme, sicuramente  intrigante, come quella delle sale di Palazzo Nonfinito in Via del Proconsolo, non può  essere compito di un solo sostantivo. D’altronde, anche la “Storia Naturale dell’Uomo”,  ideata dal medico antropologo a metà ‘800, non era ascrivibile ad una sola categoria  scientifica e per il Museo di Firenze, lo strumento di cui Mantegazza si era servito per  spiegare le sue teorie, non potrebbe essere altrimenti. 

L’attenzione nei riguardi dei musei etnologici che negli ultimi anni ha permeato i dibattiti  internazionali e in particolare il senso di necessaria prudenza che richiede l’approccio a  questo tipo di musei e allestimenti storici – che sono rimasti pochissimi nel mondo ˗ ha  portato studiosi e operatori museali a misurarsi con l’impossibilità di definire l’istituzione  fiorentina. Con l’avvio di confronto e discussione che ha visto protagonisti, dai primi anni  Duemila, tutti gli ambiti di lavoro del Museo, sono venute alla luce le difficoltà della sua  analisi e le voci che si sono espresse sul suo ruolo, le sue potenzialità e possibilità per il  futuro non sempre si sono trovate in accordo. 

Sicuramente considerabile un museo-collezione, il MNAE è cresciuto grazie agli oggetti  che provenivano dai rapporti stabiliti con le Missioni, al tempo gli avamposti nel contatto  con i popoli indigeni, e dalle tante donazioni che, facilitate dalla fama e dal carisma di  Mantegazza, arrivavano a Firenze già dagli ultimi decenni del XIX secolo (Bigoni e  Roselli, 2014). Le vastissime collezioni, delle quali oltre 10.000 oggetti sono esposti nelle  sale, rappresentano una risorsa straordinaria per lo studio e la ricerca. 

Tra le molte tentate definizioni del Museo, quella di museo-laboratorio è forse la più  adatta alla sua conformazione. Parte integrante del contesto universitario al quale è  indissolubilmente legato, esso risente di una collocazione che lo vede imbrigliato  all’interno del più ampio contenitore “Museo di Storia Naturale”; una classificazione  ancora ottocentesca, che potrebbe non avere alcun significato per il visitatore, ma che per  gli antropologi risuona invece come un vero e proprio campanello d’allarme.  ‘Laboratorio’ anche per quel suo essere un Museo continuamente in divenire che ha  cambiato forma e prospettive nello spazio e nel tempo; un po’ come una spugna, ha  assorbito stimoli e cambiamenti, restando però immutato nel suo insieme. Seguendo i  diversi orientamenti storici e culturali delle personalità che lo hanno gestito – un  «sovrapporsi di intenti» (Piccardi, 2004:38) che lo ha reso un “museo del museo” – ha  vissuto varie ri-sistematizzazioni e interventi che hanno di volta in volta interpretato e  usato (non sempre in modo lecito) le collezioni per i loro scopi, presentandole all’interno  dei paradigmi vigenti e creando un ibrido difficilmente comprensibile. 

Una domanda fondamentale che si sono posti in molti è proprio se abbia senso oggi  pensare al MNAE come ad un “museo del museo”. L’attuale conformazione  dell’allestimento, imbalsamata sia dal punto di vista teorico e concettuale, che da quello  estetico, presenta grandi vetrine e armadi neoclassici in legno scuro, poco fruibili,  sovraffollati, che presuppongono un solo punto di vista da parte dell’osservatore e che  raccontano una storia non sempre capace di restituire le ragioni dell’importanza del  Museo e delle collezioni che queste sale preservano – con l’aggiunta di notevoli problemi  tecnici di conservazione dovuti proprio al mantenimento delle teche originali. Quello  attraverso il quale il Museo fiorentino si lascia scrutare è uno sguardo che non può che  essere congelante, uno sguardo relitto, che rimane cristallizzato su modalità ormai  sorpassate di rappresentazione. Museo-relitto, quindi, immobile, che necessiterebbe di un  metalinguaggio adeguato a presentarsi e rimettersi in gioco (Piccardi, 2004; Zavattaro,  2014). Ma anche museo-documento. Documento storico-filosofico “da consultare”, che  sorprende e fornisce ogni volta nuovo materiale per la ricerca. Un documento utile a costruire riflessioni sia sulle collezioni che sull’istituzione nel suo insieme – dallo scrigno  architettonico all’importantissimo valore scientifico e storico di testimonianza. Marco Piccardi sulla rivista Antropologia Museale lo ha definito un museo-discorso nel  quale si racconta un viaggio intorno al mondo. Un racconto che non facilmente lascia  percepire l’aspetto temporale e porta, in conseguenza della quasi totale mancanza di  contestualizzazione, ad un appiattimento sullo stesso piano storico (interpretato come un  passato non ben definito dal pubblico) materiali che hanno in realtà origini temporali ben  diverse, che spaziano nell’arco di circa 4 secoli. Nonostante sin dalle sue origini il Museo  abbia avuto una vocazione educativa importante, non esplica davvero la sua funzione  comunicativa e anzi la perde, là dove il corredo informativo povero rende quasi  impossibile comprenderne gli spunti. 

Proprio a partire da questa problematica relazione dell’Istituzione con la comunicazione  del suo percorso/discorso nasce questo contributo, che si propone di analizzare lo spazio  dedicato ai materiali originari dell’America del Sud. 

L’esposizione non risulta di facile lettura; nel cercare di spiegare sensazioni e riflessioni  che scaturiscono da questo ambiente ritornano alla mente le parole di Emanuela Rossi:  «le etnografie, in quanto letteralmente rappresentazioni di un popolo fatte attraverso le  parole, lette in questa prospettiva, diventano finzioni, nel senso di verità culturali e  storiche parziali e incomplete» (Rossi, 2014:13, enfasi dell’autore). 

Al contrario di ciò che avviene all’interno delle esposizioni d’arte contemporanea, nelle  quali vige oggigiorno una regola non scritta secondo la quale le opere non  necessiterebbero di spiegazioni e ai pubblici sarebbe dunque permesso riflettere  criticamente in modo autonomo, è necessario e fondamentale contestualizzare la cultura  materiale esposta in un museo etnografico. Molti fattori influiscono sulle percezioni degli  oggetti nelle vetrine, determinando vari livelli di conoscenza e, conseguentemente, di  comprensione: geografie e biomi, narrazioni individuali e storia, politiche e relazioni  internazionali intervengono con la stessa intensità a determinare la complessità del  materiale. La comprensione dell’importanza della scelta delle parole all’interno del  contesto espositivo etnografico porta ad esplorare come i toponimi geografici utilizzati  nell’esposizione del Museo fiorentino siano in grado di orientare i pensieri del pubblico  sui manufatti e le culture di origine, alimentando classificazioni e comparazioni spesso  erronee, che dovrebbero essere corrette.

Nei primi anni del XXI secolo il percorso di visita del primo piano di Palazzo Nonfinito, che iniziava dalle sale dedicate ai materiali provenienti dalle colonie africane, viene  invertito e la prima sala diviene quella del Sud America. Le collezioni contenute al suo  interno sono le più antiche del Museo: una «documentazione ricchissima sulla vita delle  culture di popoli del Nuovo Mondo, che si sono scontrati in epoca moderna con la  conquista da parte degli imperi europei» come recita il libretto informativo del museo  (AA.VV., 2022:10) della quale fanno parte le curiosità medicee ˗ nucleo di straordinario  valore etnologico e storico ˗ e oggetti provenienti da popolazioni di diverse zone  geografiche del Sud America dei quali l’origine è talvolta meglio documentata, altre volte  rimane più misteriosa (Bigoni e Roselli, 2014). 

«Ornamenti di piume, collane di denti di animali, oggetti rituali, ma anche di uso  quotidiano come armi per caccia, pesca e raids, grattugie e setacci per la preparazione  della manioca, ceste, zucche con varie lavorazioni e amache» (ivi:159) acquistano un  forte significato all’inizio del percorso di visita del museo, presentando il secolare e non  poco problematico sguardo del continente europeo verso il resto del mondo. È proprio  con i popoli indigeni delle terre al di là dell’oceano Atlantico, infatti, che gli Europei  hanno fatto il loro incontro con l’altro per la prima volta (Zavattaro, 2014). 

La sala del Sud America, area geografica con la quale anche Mantegazza aveva un  rapporto molto personale, contribuisce quindi a costruire un nuovo approccio all’alterità  portando alla luce immaginari, percezioni e modalità di rappresentazione delle  popolazioni native che la cultura europea si è creata alla fine del XV secolo e che ha  mantenuto per lo più intatti per circa quattrocento anni (Bigoni e Roselli, 2014). 

L’allestimento è organizzato su base geografica, non più storico nella sua interezza ma  frutto di ripensamenti e ricostruzioni. Come ben puntualizzato da Pietro Clemente nel  2004, «è esso stesso una sorta di “formazione di compromesso” tra vari livelli di storicità  […], vari stili di allestimento […], e scelte e attività gestionali del museo talora  controverse». Gli oggetti antichi provenienti dalle collezioni medicee sono ben  documentati all’interno del catalogo del Museo e occupano una parte della sala, che  assume un fascino particolare grazie anche al contributo di due troni cerimoniali in pietra  dell’VIII secolo. Le vetrine, uniformemente illuminate, accolgono la parte più consistente  dei materiali: una sezione denominata ‘Perù Antico’ che raccoglie testimonianze di tre  culture diverse del Perù Precolombiano, con collezioni di terrecotte e impressionanti  mummie, una sezione con manufatti provenienti dalla regione del Gran Chaco e infine gli oggetti della cultura materiale del popolo Yanomami e le teche ‘amazzoniche’ (suddivise  in ‘Ovest Amazzonia’, ‘Nord Amazzonia’ e ‘Amazzonia Centrale’), (fig. 2). Una sola mappa del continente, non facilmente individuabile nella sala, aiuta il pubblico  a contestualizzare geograficamente e culturalmente i tanti manufatti che lo circondano  (fig. 3). 

Fig. 2 La sala del Sud America del Museo di Antropologia ed Etnologia dell'Università degli Studi di Firenze. Foto: Costanza Fusi.

La sala ha subìto un riallestimento nel 2012, che ha rinnovato l’esposizione  storica in parte, mostrando per la prima volta al pubblico anche gli oggetti della collezione  Yanomami ˗ acquisiti negli anni ’90 e che presentano una narrazione nel percorso  espositivo sostanzialmente differente rispetto al resto delle collezioni. La vetrina che li  accoglie è infatti denominata ‘Yanomami’ ˗ è l’unica quindi a non presentare una dicitura  geografica ma bensì culturale, riferita al gruppo etnico che ha prodotto i manufatti – ed è  frutto di un progetto iniziato nei primi anni 2000 che ha visto una collaborazione tra la  stessa popolazione (che abita tutt’oggi un’area estesa della foresta tropicale amazzonica  al nord del Brasile), Francesca Bigoni, collaboratrice della sezione di Antropologia ed  Etnologia del Museo e i responsabili della Missione Consolata che da anni hanno  sviluppato contatti con la comunità nei suoi territori. L’ottica di cooperazione  interculturale e interdisciplinare che ha sostenuto la ricerca vede gli Yanomami soggetto  con possibilità di auto-rappresentazione e non più mero oggetto della ricerca da parte  dell’istituzione occidentale (Bottesi, 2016). 

Fig. 3 La mappa rappresentante la parte meridionale del continente americano: geografia politica e nomi di alcune specifiche popolazioni indigene. Foto: Costanza Fusi.

Se ci soffermiamo ad analizzare il punto di vista che il Museo propone per le vetrine  ‘amazzoniche’, scopriamo che esso è invece esterno. È uno sguardo che osserva manufatti  prevenienti da una regione del mondo lontanissima dalla nostra, che rappresenta e  definisce secondo categorie occidentali e attraverso l’uso di toponimi geografici non  adeguatamente contestualizzati un territorio vastissimo ˗ quello che chiamiamo  Amazzonia ˗ senza rendere conto dell’incredibile varietà culturale che ne fa parte. In Sud  America vi sono almeno 400 differenti gruppi etnici e i popoli indigeni, che rappresentano  il 95% della diversità culturale, giocano un ruolo chiave nella preservazione della  biodiversità del territorio amazzonico (Bottesi, 2016). 

Nelle vetrine che contengono le collezioni amazzoniche, la dicitura geografica che  sovrasta i visitatori e che utilizza i quattro punti cardinali – riferimenti occidentali – per  direzionarne lo sguardo, non attribuisce correttamente i manufatti ad una cultura  specifica, non rispetta le differenze etniche e lega gli oggetti ad un territorio senza  spiegarne caratteristiche, conseguenze e valori per la loro diversità (fig. 4 e 5). La  denominazione ‘Amazzonia’ risulta così essere per il pubblico un’informazione sensata ma non utile: una classificazione puramente geografica, retaggio di una visione secondo  la quale la conoscenza dei popoli indigeni – che sarebbero presto spariti ˗ era prerogativa  dell’occidente e la loro cultura materiale era una fonte di risorse per i musei e andava  messa in salvo con rapidità (Rossi, 2014). L’immensa diversità culturale che ha radici nel  territorio amazzonico ˗ l’“Amazzonia Legale”, suddivisa in nove stati, presenta  un’estensione maggiore di quella dell’area dell’Unione Europea – non adeguatamente  messa in mostra nella sala si rifà ad un modello museografico ottocentesco e perpetua un  paradigma omogeneizzante che vede le etnie appiattite e ne “esotizza” la cultura  materiale. Questa classificazione, nello sguardo del pubblico generale che si accosta al  Museo, ripropone potenzialmente schemi classificatori-comparativi che hanno un sapore  neocoloniale forte e che andrebbero destrutturati. 

Fig. 4 La vetrina denominata “Nord Amazzonia”. Foto: Costanza Fusi.
Fig. 5 Dettaglio di un copricapo di penne di ara presente nella vetrina “Nord Amazzonia”, con relativa didascalia. Le informazioni contenute nella didascalia riguardano la provenienza dell’oggetto, il nome della collezione, l’anno di acquisizione; non vi è specificata la cultura che lo ha prodotto. Foto: Costanza Fusi.

Questo contributo vorrebbe dare soltanto il “là” per una successiva analisi più ampia e  completa e si inserisce pienamente nel dibattito che vede la necessità di restituire  l’autorialità della propria rappresentazione alle popolazioni indigene di quelle terre ˗ come è successo per la cultura Yanomami. Attraverso lo studio approfondito degli oggetti  e delle loro provenienze, che potrebbe colmare alcune delle lacune presenti nei documenti  di acquisizione e catalogazione originale, e una museografia quando possibile  collaborativa, sarebbe necessario proporre la corretta comprensione del contesto culturale  nel quale sono stati prodotti gli oggetti, con lo scopo primario di aumentare nei visitatori  della sala del Sud America la sensibilità per le differenziazioni etniche ivi presenti. 

Qualche concreto tentativo in questa direzione è stato fatto nei primi anni del XXI secolo:  nelle sale dedicate al Nord America si è intervenuti con progetti di riallestimento che  hanno seguito un criterio basato su una differenziazione etnica delle culture rappresentate  dagli oggetti nelle vetrine, mantenendo comunque l’aspetto estetizzante e le teche  omogenee al resto delle sale. La vetrina sul Meticciato, che espone oggetti non più “puri”  ma prodotti dall’incontro delle culture native con la cultura occidentale, è un risultato di  questa azione (Zavattaro, 2014). 

I paradigmi omogeneizzanti sui quali si è fondata la museografia per molto tempo e il  modo in cui le istituzioni come il Museo fiorentino costruiscono un immaginario dei  popoli indigeni oggi andrebbero decostruiti, smontati e ri-strutturati con i giusti  accorgimenti. Si potrebbe così rendere giustizia allo spessore della storicità del Museo, e  la sua lunga storia, le sue incredibili potenzialità e le straordinarie collezioni potrebbero essere messe in luce, contribuendo quindi a fare di quelle sale uno dei luoghi più  importanti al mondo per la ricerca antropologica.

 

  1. La rappresentazione citazionista e falsificata dell’America e delle sue popolazioni  nel corso del sec. XVI: i casi di de Bry e Thevet
    di Tommaso Casini 

La cospicua attività di artisti e tipografi per far conoscere il Nuovo Mondo nel corso del  secolo XVI si colloca nell’ampio scenario storico, socioculturale che caratterizzò  l’Europa a seguito del rientro di Cristoforo Colombo, influenzando per lungo periodo  l’immaginario sul Continente americano anche nelle forme della musealizzazione delle  testimonianze provenienti dalle culture autoctone d’oltreoceano. La biodiversità, le  differenze antropologiche, l’atipicità culturale dei popoli amerindi, fin da subito  incomprese o mal interpretate dall’uomo europeo, suscitarono però stupore ed equivoci  nella mentalità comune dell’epoca che, nel collocarle in un quadro intelligibile, sfruttò  clichés pregressi basati su chimerici stereotipi immaginifici di mostri e cannibali, diffusi  dai testi medievali sull’Oriente come quelli di Marco Polo e John Mandeville, che  divennero presto topoi dell’immaginario della rappresentazione europea, influenzando  l’iconografia artistica e documentaria sui nativi. In particolare si prendono qui ad esempio  di indagine alcune immagini realizzate per l’Americae Descriptio da Théodore de Bry e  i ritratti eroici del geografo André Thevet di alcuni capi indigeni, editi nell’opera Les  Vrais pourtraits del 1584; raffigurazioni che si inseriscono in quel filone concettuale della  produzione d’immagini sul Nuovo Mondo, collocato sull’impercettibile soglia tra intento  artistico, documentario e simbolico che, riconoscendo ai popoli autoctoni originalità e  fascino, tentava di dare un’immagine esotica della loro identità umana, frutto di una vasta  letteratura. 

L’opera monumentale di de Bry, uno dei più importanti incisori e tipografi del  tardo Cinquecento europeo, fu edita con un apparato illustrativo lussuoso che è stato  opportunamente definito “barocco geografico” negli studi di Francesco Surdich sulla  letteratura geografica sul Nuovo Mondo (Surdich, 2002). L’opera – uscita a partire dal 1590 – consta di venticinque volumi in folio che raccolgono  i testi di scrittori, viaggiatori a partire da Cristoforo Colombo. Diciannove volumi furono  editi dai figli di de Bry entro il 1634 con il titolo Collectiones peregrinatium Indiam  orientalem et occidentalem. Nel primo dei sei libri dell’America (pars prima) al centro di  un’immagine che apre il volume vediamo un Cristoforo Colombo (fig. 6 – 7) finemente  vestito con due soldati al fianco. Colombo si erge fiducioso, il piede sinistro in avanti con  la sua picca piantata saldamente nel terreno, segnalando la sua rivendicazione sulla  terra. Dietro di lui a sinistra, tre spagnoli innalzano una croce nel paesaggio, a  simboleggiare una dichiarazione di appropriazione della terra sia per i monarchi spagnoli  che per il dio cristiano. 

I Taínos nudi, i popoli indigeni dell’isola di Ayiti (meglio conosciuta con il successivo  nome spagnolo, Hispaniola), camminano verso Colombo portando in dono collane e altri  oggetti preziosi (fig. 8). In secondo piano, sul lato destro della stampa, altri Taínos, con  le braccia alzate e i corpi contorti, fuggono impauriti dalle navi spagnole ancorate al largo. 

Fig. 6 – 7 – 8 | Theodore de Bry, Cristoforo Colombo arriva in America, 1594, da Collectiones peregrinationum in Indiam occidentalem), vol. 4: Girolamo Benzoni, Americae pars quarta. Sive, Insignis & admiranda historia de primera occidentali India à Christophoro Columbo (Frankfurt am Main: T. de Bry, 1594)

Questa celebre stampa del 1592, presenta Colombo e i suoi uomini come i precursori della  civiltà e della fede europea, e li giustappone ai Tainos, presentati come incivili, nudi e  pagani (Todorov, 1984). Questa stampa, insieme a centinaia di altre realizzate da de Bry  nella serie dei 25 volumi, pubblicata in più di quarant’anni, è uno dei monumenti al senso  di superiorità europea, nonché uno dei principali motori dello stereotipo di invenzione per  la mentalità del Vecchio Continente dell’immagine delle popolazioni amerinde. Sebbene  de Bry sia famoso soprattutto per le sue incisioni sui viaggi nelle Americhe (e in Africa e  in Asia), in realtà non aveva mai attraversato l’Atlantico. Non sorprende quindi che la  rappresentazione di de Bry dei popoli indigeni delle Americhe fosse una combinazione  del lavoro di altri artisti che avevano accompagnato gli europei nelle Americhe, gli artisti  venivano spesso portati in viaggio per documentare le terre e i popoli indigeni per darne  conto al pubblico europeo. L’opera è quindi un adattamento, senza darne menzione, di  alcune delle immagini create tra gli altri da Johannes Stradanus, noto illustratore – stabilitosi a Firenze ˗ tra i primi a creare nell’ambiente Mediceo le immagini delle  Americhe. 

La raccolta delle 600 incisioni per illustrare i volumi antologici sono quindi una summa  iconotestuale dei viaggi nelle Indie orientali e nelle Indie occidentali dalla fine del ‘400  alla fine del ‘500. Le incisioni di de Bry – diffuse anche in fogli singoli ˗ furono tra le  prime immagini a raccontare come gli europei avevano preso contatto con i popoli  indigeni quasi un secolo dopo il viaggio iniziale di Colombo. Apparentemente de Bry non  aveva alcun interesse a documentare l’aspetto reale dei Taínos, come dimostra il fatto che  essi assomigliano nell’aspetto fisico a sculture greco-romane, soprattutto per le pose e la  muscolatura. È interessante notare che diverse versioni dei Grands Voyages si rivolse a  diversi gruppi confessionali cristiani. I volumi in tedesco erano rivolti ai protestanti,  mentre quelli in latino si rivolgevano ai cattolici. De Bry creò una precisa strategia  editoriale in modo che le immagini potessero essere commercializzate apportando delle  modifiche ai testi per attrarre maggiormente sia cattolici che protestanti.

Mentre alcune delle stampe di de Bry nei Grands Voyages si concentrano sulle gesta di  famosi navigatori europei, altre mostrano gruppi indigeni e le loro usanze. Alcune di  queste immagini mostrano le atrocità che si sono verificate in seguito all’arrivo degli  europei, alla conquista violenta e alla colonizzazione. Gli indigeni vengono dati in pasto  ai cani, impiccati o massacrati. Altre immagini per contro descrivono la reazione indigena  all’invasione europea, come l’annegamento degli spagnoli nell’oceano o forme di tortura  come la colatura di oro liquido nelle bocche degli invasori (fig. 9). 

‘QVONIAMBEC’. Thevet, Les vrais pourtraits, 1584.

Nel terzo volume veniva pubblicato l’importante racconto di Hans Staden circa le sue  esperienze in Brasile. Staden era un soldato tedesco che si era recato in America del sud  dove era stato catturato nel 1553 dai Tupinambá, gruppo indigeno del Brasile. Dopo il  suo ritorno in Europa nel 1557, scrisse delle usanze, della vita familiare e del  cannibalismo dei Tupinambá, descrivendo come i Tupinambá lo praticassero  cerimonialmente, specialmente mangiando i loro nemici. Il libro iniziale di Staden  includeva semplici xilografie, ma le incisioni aggiornate di de Bry si dimostrarono molto  più popolari e durature nell’immaginario culturale europeo. Le percezioni degli indigeni  brasiliani sono state modellate da queste immagini e hanno rafforzato l’idea che i  Tupinambá, e altre etnie, fossero depravati, primitivi e peccatori. 

Una delle sue immagini ritrae adulti e bambini nudi che bevono un brodo ricavato da una  testa e intestini umani, visibili sui piatti in mezzo al raduno di persone. Un’altra  rappresentazione del Tupinamba mostra un fuoco sotto una griglia, su cui vengono  arrostite parti del corpo. Le versioni colorate a mano delle stampe di de Bry enfatizzano  ancora di più il soggetto inquietante delle immagini. 

Il cannibalismo da quel momento sarebbe diventato strettamente associato ai popoli delle  Americhe. De Bry utilizzò le immagini di cannibali anche come frontespizio del terzo  volume. Mostrare i Tupinambá che mangiano carne umana li rendeva pericolosi e  giustificava il controllo europeo che sfociò nella loro estinzione. Il cannibalismo rimase comunemente associato a certi popoli indigeni delle  Americhe. Le incisioni di de Bry per questo volume divennero le più note tra la fine del  XVI e l’inizio del XVII secolo, in gran parte a causa del loro carattere raccapricciante e  sensazionalistico. 

Il quarto, quinto e sesto volume si concentrano sui racconti dell’esploratore e mercante  Girolamo Benzoni, come Historia Mondo Nuovo, con la parte 6 che discute in chiave  fortemente antispagnola le atrocità commesse contro la popolazione indigena del Perù. Le  parti da 7 a 12 includevano i resoconti di viaggio di Ulricus Faber, Sir Francis Drake e Walter Raleigh, José de Acosta, Amerigo Vespucci, John Smith e Antonio de Herrera tra  gli altri. Come i precedenti de Bry fornì numerose immagini per aumentare la  comprensione dei lettori delle narrazioni. 

I Grands Voyages sono strettamente legati alle forme di conoscenza e collezionismo  popolari dell’epoca. Come in una Wunderkammer, il progetto di de Bry strutturò le  informazioni in testo e immagini con l’ambizione che i lettori potessero fornire una  conoscenza enciclopedica sulle Americhe, proprio come facevano gli oggetti in un  cabinet delle curiosità. Le numerose stampe di de Bry con evidenti travisamenti della  realtà da un lato hanno permesso ai lettori di impossessarsi visivamente di queste terre e  popoli lontani partecipando ai progetti coloniali allora in corso, ma permettevano anche  di provare un senso di dominio sui popoli e sulle terre al di là dell’Atlantico, terre che  molti in Europa non avrebbero mai visto di persona. 

Les Vrais Pourtraits fu il culmine di una carriera alquanto travagliata di André Thevet  che aveva riscosso un ampio successo con la sua prima pubblicazione scritta dopo un  viaggio in Medio Oriente nel 1549-1552. Il suo viaggio nelle Americhe del 1555 produsse  un resoconto sul Brasile che ebbe ampia diffusione e incluse le presunte esperienze in  Messico, Florida, Terranova e Canada. Il suo successo gli valse una serie di titoli illustri,  tra cui quello di ciambellano di Caterina de Medici e Cosmografo reale, ma anche una  schiera di nemici e detrattori che misero in dubbio la veridicità dei suoi racconti. Thevet,  a sostegno degli sforzi spagnoli per cristianizzare il Nuovo Mondo, improntò l’opera per  una ferma conversione degli amerindi. Rispetto ad altri autori di racconti ed immagini del  Nuovo Mondo egli sottolineò il suo status di testimone oculare utilizzando diversi  espedienti visivi per evitare problemi di credibilità. Spesso i critici e i detrattori di Thevet  non si erano mai avventurati nei luoghi di cui è stato personalmente testimone. Quando  egli riproduce un’immagine del truculento re tamoio Quoniambec (dell’odierna zona di  Rio, in Brasile) afferma di raccontare la sua esperienza personale (fig. 10).  

Per le immagini più difficili da ottenere, l’autore comunica al lettore che si basa su  immagini della propria collezione personale. Per esempio, il ritratto del re inca Atahualpa,  di cui oggi non si conosce alcun prototipo visivo, era stato apparentemente riprodotto da  un’immagine che egli teneva nella sua collezione privata (fig. 11). Il ritratto di Paracoussi,  re delle pianure della Patagonia, era stato tratto da un disegno fornitogli da un marinaio  (fig. 12). 

Fig. 10 ‘ATABALIPA, ROY DV PERV’. Thevet, Les vrais pourtraits, 1584.
Fig. 12 ‘MOTZVME, ROY DE MEXIQVE’. Andre Thevet, Les vrais pourtraits et vies des hommes illustres, 1584.
Fig. 10 ‘ATABALIPA, ROY DV PERV’. Thevet, Les vrais pourtraits, 1584.

Thevet insiste quindi nel suo testo sulle fonti probatorie, tra cui alcuni testimoni oculari  spagnoli pubblicati, mentre per Moctezuma la fonte principale è il manoscritto indigeno messicano oggi noto come Codice Mendoza (1543 circa). Per accentuare l’accuratezza  del ritratto, Thevet si servì dell’incisione su rame anziché della xilografia, che aveva  accompagnato le sue pubblicazioni precedenti. La nuova tecnologia era ampiamente  ritenuta in grado di catturare un’immagine vivente meglio di qualsiasi altra. 

Già nel 1550, il prolifico autore veneziano Francesco Sansovino sosteneva l’efficacia del  ritratto stampato nel riprodurre la fama di una persona, sia nel senso albertiano che  vasariano di “rendere presente l’assente”, per i personaggi storici.
Il processo che ha dato forma visiva ai ritratti dei capi indigeni di Thevet è avvenuto  ancora una volta in termini puramente di sguardo europeo, traendo origine dalle modalità  di rappresentazione della cultura del ritratto memoriale ed eroico coevo. Il tema della  fedeltà all’originale vera lente di osservazione individua l’etnicità in oggetti presenti nel  Codex Mendoza, ma non aderisce alle convenzioni praticate dagli artisti aztechi da cui  copia. Allo stesso modo, le qualità che si concentrano ad esempio sulla fama di  Moctezuma – incarnata nell’immagine di un condottiero in catene, non hanno nulla a che  fare con il pubblico azteco. Molte parti dell’interpretazione dei testi da parte di Thevet  dovevano essere di difficile comunicazione attraverso le frontiere culturali. Secondo  Richard Brilliant le tipologie ritrattistiche esotiche, come in questo caso, hanno una storia  deformata perché le nozioni di personalità dell’altro si piegano all’idea di personalità più  facilmente riconoscibile in un ritratto verbale che in uno visivo. Dire che «il ritratto è la  rappresentazione dell’individuo nel suo carattere» (Brilliant, 1991:32) è ignorare la  difficoltà ancora più grande di descrivere la personalità di un individuo soprattutto quando  la definizione stessa di personalità o carattere è di per sé così socialmente e culturalmente  determinata ma poco conosciuta.

Note
[1] Nel 2017 il Presidente francese Emmanuel Macron di è dichiarato disponibile alla restituzione all’Africa,  da parte della Francia, degli oggetti sottratti. In seguito, è stata creata una prima commissione per mappare la  parte di patrimonio francese oggetto di restituzione.
[2] I più antichi oggetti etnografici oggi conservati nel Museo «Luigi Pigorini» di Roma provengono dalla raccolta messa  insieme, fin dal 1651, presso il Collegio Romano, dal padre gesuita Athanasius Kircher. Cfr: Casciato, Ianniello e Vitale, 1986.
 

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Eirene Campagna nel 2021 ha ottenuto il PhD in Visual and Media Studies presso  l’Università IULM. La sua tesi Per una rappresentazione critica della Shoah: quale  memoria è ancora possibile ha approfondito gli aspetti della memoria analizzando e  comparando film e spettacoli, fenomeni sociali e vari aspetti della museologia della  Shoah. Nel 2019 ha pubblicato la sua prima opera Racconti che sopravvivono. Le storie  dei testimoni e del campo. Dal 2020 al 2022 è stata borsista presso l’Università  Gregoriana di Roma dove ha conseguito una Licenza in Studi Giudaici con votazione  summa cum laude. 

Tommaso Casini è Professore Associato di Museologia e Storia della critica d’arte presso  l’Università IULM di Milano. Ha studiato presso l’Università “La Sapienza” di Roma  conseguendo poi nel 1999 il perfezionamento presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.  Dal 2016 è nel board del comitato italiano C.I.H.A Comité International Histoire de l’Art,  di cui è vicepresidente riconfermato nel 2021. Dal 2018 è membro del comitato scientifico  della rivista (fascia A) Storia della Critica d’Arte – Annuario della SISCA e nel direttivo  della Società italiana di Storia della Critica d’Arte. 

Costanza Fusi è PhD Student in Visual & Media Studies all’Università IULM. È laureata  con lode in Arte Valorizzazione e Mercato (IULM). Ha discusso una tesi sulle pratiche  partecipative nei musei etnografici, per la quale ha fatto ricerca in Italia e all’estero. La  sua tesi di dottorato adotta un approccio multidisciplinare e si focalizza sulle nuove  strategie di esposizione del patrimonio indigeno sacro, affrontando un’analisi delle  percezioni dei pubblici in questi contesti di rappresentazione.