§Cura: care - cure - curate
Ri-creare futuri possibili:
agentività della materia, materialità delle lotte
di Ilenia Caleo

[percezioni] Abitiamo presenti esausti ma forse carichi di futuri possibili.

Affondare nel presente per immaginare futuri possibili, rivolgerci all’esperienza (corporea, emotiva) che abbiamo appena vissuto, i cui segni sono ancora sulla nostra pelle: quella della crisi pandemica, che è stata una crisi sanitaria, ma anche – come messo a fuoco dai movimenti femministi – una “crisi della cura”. Un’esperienza che ha investito i nostri corpi e insieme ha messo a fuoco i sistemi complessi con cui si costituiscono e si consolidano le diseguaglianze: in questo contesto specifico, differenti fattori legati ai corpi, alla sessualità, all’identità, alla razzializzazione si sono combinati creando nuovi composti violenti. Eppure, proprio in questo quadro di crisi e di indebolimento dei nessi sociali e anche relazionali, sono emerse e stanno emergendo nuove lotte sul reddito, spesso affiorando proprio dalle condizioni di estrema precarietà e invisibilità.

Ecco, tenere insieme lotte sul reddito e rivendicazioni transfemministe e decoloniali è un’indicazione che ci arriva dal futuro, e ci parla di una nuova articolazione politica e affettiva della materialità. La cura come riconoscimento dell’interdipendenza reciproca, come capacità trasformativa di ri-creare mondi nelle forme di conflitto, come autodifesa dalla violenza sessista ed economica.

[strumento uno] La materialità di cui / dentro cui siamo ci suggerisce strategie.

Partirei da qui, da questa rinnovata attenzione alla materialità, che in forme e temperature diverse arriva dal pensiero femminista più recente – perché mi sembra che qui possiamo raccogliere gli elementi/i nodi per leggere e reimmaginare gli scenari attuali.

Un primo concetto-strumento utile è quello di materia attiva, agente. Un testo per me di riferimento è Vibrant Matter. A Political Ecology of Things di Jane Bennett, in cui la filosofa propone l’idea di una materia attiva per sciogliere la materialità dal vincolo con l’inerzia di una sostanza considerata passiva, non formata, greve, opaca, meccanica, che ha bisogno di un principio attivo esterno che la animi e contemporaneamente le dia forma e la renda intellegibile.

Ma a cosa ci serve difendere la vitalità della materia? Perché non è un affondo di interesse puramente teorico? Tutt’altro, è a mio avviso uno spostamento che ci dà indicazioni molto precise in termini di politiche femministe e apre alla prospettiva di nuove ecologie queer. Perché l’idea di una materia morta, inerte, passiva nutre e rafforza fantasie di conquista e di dominazione. L’idea che vi siano risorse disponibili gratuitamente si riversa in maniera speculare: (a) sui territori e sulle risorse naturali – la natura è pensata e descritta come fuori dalla storia, un enorme bacino di ricchezze e materie, che sono lì, in attesa; (b) sui corpi e sul lavoro gratuito di riproduzione svolto dalle donne – naturalizzato, diventa una risorsa a disposizione, una scorta inesauribile di manodopera a costo zero. In questi termini, l’attività di cura e di riproduzione della vita che le donne (e i soggetti femminilizzati) compiono non è che una proiezione d’amore, una disposizione, una tendenza innata della stessa qualità di un gesto automatico, che non ha bisogno di altre motivazioni. Una narrazione che legittima una svalutazione su entrambi i fronti, che dobbiamo leggere in parallelo (Federici, 2015; Gago, 2022) [2]. Il modello estrattivista è anche costitutivamente un paradigma di dominio e di consumo, di sfruttamento e di violenza, intimamente connesso al sistema della colonia e alla divisione del lavoro sessuale.

Scrive Gago che nei contesti coloniali i lavori di produzione e di riproduzione vengono riconfigurati: «non si riferiscono più a spazi specifici, ma piuttosto ad assemblaggi sotto una specifica relazione di subordinazione. […] L’addomesticamento e la colonizzazione sono inseparabili, poiché costituiscono una specifica relazione sia come forme di sfruttamento della forza lavorativa sia di subordinazione del territorio». No se puede descolonizar sin despatriarcalizar (Gago, 2022, pp.107-108).

Ci servono strumenti dunque per rompere con questa narrazione della natura e della materia come inerti, passive, in attesa dell’intervento umano che estragga valore e significato. Per dire la capacità diffusa di agire, di scrittura, di significazione, di storicità, non monopolio esclusivo dell’umano. Con Haraway (2019), Bennett (2010), Barad (2017), e altre pensatrici dei new materialisms tra cui Alaimo (2008), Hird (2004) e Frost (2011), è possibile riconoscere altre forze oltre quelle umane, altre potenze: forze non di sola resistenza, negative, di attrito ma pienamente produttive, che agiscono nello spazio condiviso, nello spazio pubblico. Imparare a immaginarle.

[spiraglio] Anche i fantasmi che ci infestano sono materiali.

L’arte, e la scena in particolare, è il luogo in cui si possono rendere visibili forze invisibili? Può essere agita da altri corpi oltre quelli umani? Quali sono i corpi che agiscono sulla scena artistica e sulla scena pubblica? Quali drammaturgie e coreografie per corpi e affetti non solo umani? Per dare corpo e futurità a queste aperture c’è bisogno di nuove figurazioni / immaginazioni / di nuove estetiche, nel senso di nuove articolazioni del sensibile.

[strumento due] Vogliamo pensare mondo–natura senza produrre scenari pacificati.
Conflitto.

Nel ripensare naturacultura, è politicamente necessario produrre una versione non pacificata: l’idea di una materia attiva e agente è da pensarsi come continua produzione di differenza, non di omogeneità. Il vitalismo e il monismo di matrice spinoziana non vanno verso l’indifferenziato, ma equivalgono piuttosto alla continua produzione di differenze, di modi, di forme, di intensità; e quindi di movimento, di collisioni, di turbamenti e perturbazioni [3] (Spinoza, 1988; Deleuze, 2007; Serres, 2000), di forze che appunto sono in gioco; di rapporti di forze e quindi – anche – di asimmetrie.

Ecco che lo sguardo sulla materialità così mette a fuoco la dimensione del conflitto – e deve servirci a individuare nuovi e specifici siti di conflitto, nuove mappe per l’azione politica. Non basta un generico statement post-antropocentrico, ma un’articolazione complessa della materialità, delle economie di scambio, delle interrelazioni che generano le condizioni materiali di vita / delle molte vite in gioco.

[variazione] Fuori-controllo.

Questa attività vibratile della materia – o, potremmo dire, questa indipendenza produttiva – ha un’altra caratteristica, ossia che sfugge al nostro controllo. Vale per le forze naturali, geologiche, meteorologiche, ma anche per gli assemblaggi tra oggetti umani e oggetti non umani: gli uragani, i disastri ecologici, la spazzatura e gli scarti, le sostanze tossiche e radioattive, gli agenti inquinanti, i prodotti farmaceutici.

Due esempi: i corpi tossici (a), l’uragano (b).

(a) Corpi Tossici. Nella prospettiva di una ecologia politica delle cose, corpi e ambiente sono mescolati in maniera irreversibile, e le azioni che si producono nelle interazioni/intra-azioni non sono mappabili né controllabili in maniera definitiva. Sulla capacità proliferativa delle materie, scrive la teorica turca Serpil Opperman: «L’intreccio tossico di nature umane e non umane ci racconta in maniera eloquente che il mondo in cui viviamo è attraversato dagli agenti devianti che popolano la biosfera insieme alla flora, la fauna e gli elementi originali della terra. Poiché queste forze e sostanze xenobiotiche hanno il potere di riconfigurare i corpi e distruggere gli ambienti fisici, occorre fare attenzione alla loro spesso imprevedibile dimensione di attività. La forza della materia si manifesta in molti modi e luoghi, persino nell’immondizia» (Oppermann, 2015, p. 128).

(b) L’Uragano. In Political Affect. Connecting the Social and the Somatic, John Protevi analizza Katrina in quanto assemblaggio distruttivo di forze umane e non umane, e mostra quanto una serie di fattori interrelati abbia potenziato gli effetti disastrosi dell’uragano (preso come fenomeno naturale) in maniera esponenziale: fattori meteorologici e geologici, l’erosione della costa negli ultimi vent’anni, l’abbattimento della flora costiera, lo sfruttamento intensivo del bacino idrico del Mississipi e la conseguente perturbazione degli ecosistemi di prossimità, ma anche la storia coloniale e schiavista della città, che ancora dà l’impronta all’assetto urbanistico di New Orleans, la speculazione edilizia ai danni del social housing, l’organizzazione delle operazioni di salvataggio e la paura di rivolte nere, a memoria dei molti episodi di resistenza – spesso obliterati – anche nel passato coloniale (Protevi, 2009).

La componente razziale (e razzista) – scrive Protevi – ha giocato un ruolo determinante nella gestione dell’emergenza, dal momento che la pesante militarizzazione dei soccorsi è stata dettata dal timore di rivolte dei gruppi afroamericani più violentemente colpiti dall’uragano e ha di fatto bloccato le risorse di autorganizzazione e di solidarietà che si erano già autonomamente attivate da parte della popolazione locale, prima dell’arrivo dei soccorsi.

{Una visione: il film-documentario di Spike Lee When the leeves broke (2006)}.

Un evento che è «insieme degli elementi e sociale», una drammaturgia di forze che convoca differenti dramatis personae: il Fiume, il Vento, il Sole, il Mare, la Costa, le Coltivazione intensive, la Popolazione razzializzata di New Orleans, le Rivolte, il Lavoro, il Commercio di schiavi/e, la Città, il Ghetto, la Paura, la Piantagione. Protevi restituisce la dimensione ecologica del corpo politico.

È una lettura ecosistemica, affettiva, materialista: non basta – a spiegare l’evento – il richiamo a una partecipazione di concause lineari, ma è necessario addensare un entanglement multidimensionale, che si muove simultaneamente su diversi livelli temporali, su temporalità attive. Dal tempo lunghissimo e più-che-umano delle trasformazioni geologiche che si misura in ere, al tempo storico della colonia – Anna L. Tsing (2021) ad esempio fa di questo modello una vera e propria era, il Piantagionocene, che è un entanglement di: modello intensivo della monocultura / sfruttamento della manodopera / dal XVI sec. interscambiabilità di manodopera e di coltivazioni / scalabilità / modello segmentato e frammentato dell’appezzamento. Dal tempo di sedimentazione degli affetti che presiedono all’identità di comunità, al tempo istantaneo del governo militare dell’emergenza. Tutte queste temporalità diffratte reagiscono su una mappa urbanistica stratificata fatta di ghetti ed enclave. Una lettura che impatta anche le metodologie con cui guardiamo alla storia e al cambiamento, considerando appunto le diverse forze in gioco.

L’oggetto-uragano è questo groviglio spazio-temporale, un oggetto i cui bordi non sono nettamente delimitabili, bensì sfuocati e fluttuanti. Un nuovo tipo di oggetto (Morton, 2018). Se parliamo di materialità che collidono, che entrano in conflitto, si ravviva la relazione con la filosofia di Spinoza, ripreso da Deleuze e dal pensiero femminista. Anche Spinoza ci invita a pensare che le combinazioni tra corpi non sono sempre positive, “gioiose”.

Ci sono assemblaggi positivi (i batteri nel nostro intestino) e assemblaggi negativi (se mangiamo un fungo velenoso). Ma anche: il virus, la pandemia, le catastrofi sono tutti assemblaggi umano/non umano non felici.

[spiraglio] Il virus è un corpo-tra-i-corpi, un “soggetto imprevisto”.

Si tratta di rifiutare le metafore della guerra, del nemico, dell’immunità come difesa militare dei corpi per nominare e quindi affrontare le conseguenze socio sanitarie del virus. Sono queste parole, queste retoriche che sul piano simbolico hanno preparato la guerra materiale in Ucraina, l’hanno resa accettabile. Adottando al contrario uno sguardo transfemminista, nel corso dei mesi di pandemia abbiamo iniziato a sentire in maniera molto concreta e a mettere a fuoco una condizione diffusa, ossia l’interdipendenza – dei corpi, dei soggetti, delle cause tra loro. Un altro nome per dirlo: transcorporeità (Alaimo, 2008). Sembrerebbe così intuitivo e autoevidente riconoscere dove finisce un corpo e dove ne inizia un altro, il dentro e il fuori dei viventi, che sia la pelle, la superficie o l’esoscheletro. Eppure il virus del Covid-19 ha messo in crisi il concetto di corpo ermetico e autosufficiente – esso è corpo tra i corpi; è minuscolo, invisibile, eppure agente. Ci ha invitate (ci ha costrette) a pensare non per corpi individuati, ma per transcorporeità, sistemi complessi e interrelati. I corpi non sono sigillati, separati – siamo sempre corpi composti fatti di molti corpi. Siamo già abitate da altri corpi estranei, alieni, che transitano attraverso (Hird, 2004). Quello della transcorporeità diventa quindi un concetto-laboratorio che ci aiuta a immaginare nuovi sistemi di alleanze/mescolanze, anche tra i corpi sociali.

In questo contesto fortemente interrelato, in cui la reciprocità di traffici e scambi è stata resa così concreta (perchè rischiosa) dalla pandemia, come piccolo gruppo di artistx/lavorat^ dello spettacolo, insieme ad altrx, abbiamo iniziato a visualizzare che nessuna difesa corporativa, nessuna rivendicazione di una presunta eccezionalità del lavoro artistico può essere efficace. Sono state molto di ispirazione le lotte che si sono attivate in altri settori: della logistica, della cura, del sex work. Non per noi ma per tuttx è lo slogan dellx riders che abbiamo fatto nostro, per contrastare le rivendicazioni corporative di statuti separati e di consolidamento di privilegi, posizioni che rischiano sempre di diventare dominanti nel lavoro artistico e culturale, soprattutto in una condizione di povertà di diritti e di riconoscimento, aggravata nella pandemia. Ma anche per segnalare che non c’è opposizione tra lotte sul salario e lotte per il reddito incondizionato. L’interdipendenza è dunque una traccia che segnala possibili pratiche politiche, riattivando genealogie sommerse e intrecciando lotte differenti.

[percezioni] Non siamo tuttx uguali di fronte al virus.

Ci sono corpi già compromessi, più vulnerabili, più esposti. Corpi più stanchi, più esausti, soggetti più invisibilizzati di altri (Fragnito, Tola, 2021). Improvvisamente la qualità delle case e dell’abitare, dell’alimentazione, il reddito, l’accesso alla piena cittadinanza (da cui dipende l’accesso alle cure e al sistema sanitario) sono diventati elementi visibili, e hanno preso centralità nel discorso pubblico, come non accadeva da anni in Italia. Anche i lavori (e i soggetti) coinvolti in questi ambiti e connessi alle attività di cura e di riproduzione sociale sono diventati più visibili.

Il virus è piuttosto egualitario, ma non ci coglie tuttx nelle medesime condizioni. Il grado di salute e di benessere dei corpi, di esposizione e di vulnerabilità è fortemente influenzato dai determinanti sociali. Un dato che emerge nella pandemia, così come nelle catastrofi naturali, negli effetti della crisi ambientale; abbiamo visto come l’uragano Katrina abbia colpito in maniera particolare dura proprio la popolazione nera di New Orleans, ma l’abbiamo anche imparato nella pandemia dell’AIDS. O ancora, come le politiche sanitarie di Bolsonaro si siano trasformate in un genocidio selettivo delle persone nere, indigene, e povere.

Il virus quindi ha disegnato una mappa delle vulnerabilità che restituisce tutta la violenza delle disuguaglianze prodotte da diversi fattori in gioco. Ma al tempo stesso questa mappa ci indica anche le possibili alleanze impreviste, le reti, le interdipendenze tra soggetti che possono diventare politiche. Interdipendenze che – se riconosciute, nominate e consolidate –  possono aiutarci a tracciare i contorni di infrastrutture di welfare dal basso e di mutualismo sociale.

[una pratica] Re-create the Globe.

Quindi, come si reagisce? Abbiamo due possibilità: o affermare l’eccezionalità del lavoro artistico rivendicando uno statuto a parte, e riaffermando così il mito patriarcale dell’artista separato dal mondo; o sentirci pienamente dentro questo mondo interrelato, e tradurre questa percezione in termini politici e sociali. E anzi pensare il settore artistico come uno spazio di sperimentazione di nuovi modelli e prototipi estendibili / non per noi ma per tuttx. Del resto il lavoro contemporaneo sempre più assume tratti e caratteristiche che erano stati peculiari dell’attività artistica, infiltrato com’è dalla dimensione linguistica, relazionale, affettiva.

Campagna dei NO del collettivo Il Campo Innocente.
Campagna dei NO del collettivo Il Campo Innocente.

Ma c’è di più. Gli ambiti sono tutt’altro che puri. Il lavoro culturale nel suo complesso è fortemente frammentato, e il reddito di ciascunx è il risultato di un insieme di economie composite: lavorare al bar o al ristorante, fare formazione in vari ambiti (scuola o laboratorio informali), fare lx tecnicx, lx rider, lx dj, le pulizie, lavorare nei club e nelle economie della notte, dare ripetizioni, tradurre, insegnare joga, coniugare con diversi lavori di ricerca, in definitiva: sommare un’infinita quantità di lavoretti di merda tutti precari che anche messi assieme non fanno un intero. Solo pochx – per circostanze fortunate o per privilegio di classe – possono dedicarsi interamente al lavoro culturale e vivere di questo. Definirsi “artista” è spesso il frutto dell’occultamento di queste identità spurie che attraversiamo. Che senso avrebbe allora rivendicare un albo professionale o un’eccezionalità che non esiste nei fatti? Ciascunx già incarna e attraversa differenti sistemi relazionali e lavorativi, differenti saperi specifici, differenti “identità” professionali, differenti condizioni precarie, forse non così dissimili. Tradurre politicamente questi sistemi di co-dipendenza e insieme fare uno sforzo di disidentificazione da ogni identità professionale “pura”, che rende invisibili meccanismi di autosfruttamento e ricatto, è uno dei piani che abbiamo affrontato all’interno de Il Campo Innocente, un collettivo informale / un assemblaggio di artistx e lavoratx della cultura frocie, non binarix, lesbiche, queer, *donne, trans che nasce nel 2019 dentro l’onda dei movimenti transfemministi queer e di NUDM.

Il nome che abbiamo scelto è già uno statement: L’Arte Non È Un Campo Innocente. Ossia, non è uno spazio neutro, non è uno spazio salvo, c’è sessismo, violenza, machismo, razzismo, omolesbobitransfobia, discriminazione anche nel mondo dell’arte – così come c’è all’interno dei movimenti sociali e delle lotte. L’arte non è un mondo a parte; si tratta di deromanticizzare, oltre che depatriarcalizzare. Nell’aprile del 2021 in piena pandemia abbiamo occupato per cinque giorni il Globe Theatre a Roma insieme alle reti di sindacalismo autorganizzato di RISP (Rete Intersindacale Professionist_ dello Spettacolo) [4], ASR (Autorganizzat^ Spettacolo Roma) e altrx lavorat^ dell’arte dal vivo convergendo su una richiesta di reddito senza condizioni e sul riconoscimento delle intermittenze. In questo teatro senza tetto, a cielo aperto, sono nate comunanze con riders, lavorat^ della scuola, movimento dei/delle braccianti. Qui si sono riversati il lavoro e le discussioni fatte per la scrittura del Manifesto di Art for UBI (Universal Basic Income) [5].

E abbiamo aperto un laboratorio a partire dalle nostre esperienze dirette sulla relazione tra sessismo e precarietà.

Occupazione del Globe Theatre a Roma nell’aprile del 2021 da parte di lavorat^ dello spettacolo.

In quanto donne*/persone non binarie/frocie/trans/queer che mettiamo in gioco (mettiamo al lavoro) il nostro corpo, tutta la sfera emotiva, tutta l’immaginazione siamo più spesso esposte a situazioni ambigue, problematiche, violente. Le dinamiche di potere, i contesti tossici e abusanti sono connessi a, e rafforzati dalla precarietà. Più siamo precari^ più siamo espost^, fragili, ricattabili. Autonomia e autodeterminazione sono legate.

Ci siamo interrogate molto su come renderci collettivamente capaci di dire dei NO [6]. Per questo, ci siamo dettx, è solo avendo la possibilità di rifiutare / di dire no / che possiamo sottrarci al ricatto.

«Posso rifiutare un lavoro se il contesto è tossico? Se c’è una richiesta di eccessiva performatività? Se mi viene chiesto di portare il mio corpo al limite, di lavorare sempre? L’abuso è legittimato in nome dell’arte? La violenza è sempre evidente? Perché devo sempre stare sul piede di guerra? Quanta energia e fatica mi costa? Il disagio è un sintomo? Quali sono i confini del luogo del lavoro? Ti è capitato di sentirti (o sentirti dire che sei) troppo magro, troppo grassa? Ma anche: troppo “femminile” troppo poco “femminile”? Troppo giovane, troppo vecchia? Puoi toccarmi il culo in nome della libertà artistica o della contact improvisation?» [7].

Sono queste alcune delle domande emerse nel corso dei mesi e che hanno via via composto campagne, prese di parola, momenti di scambio e di autoformazione, moduli informali di autoinchiesta. In questo quadro il reddito – senza condizionalità, e fuori da una matrice familista e patriarcale – costituisce non solo una risposta alla precarietà, ma più profondamente una forma di uscita dalla violenza. Il reddito ci toglie dal ricatto del lavoro a tutti i costi – dove i costi sono la vita, la salute, il benessere psico-fisico e sessuale, la felicità. Le lotte sul reddito, per l’abitare, per il riconoscimento dell’interdipendenza sono una forma di autodifesa. Questa prospettiva ci immette in un doppio movimento, un transito instabile e tuttavia necessario per dare corpo alle lotte del futuro.

La messa a fuoco sul reddito e sulle condizioni materiali di esistenza è necessaria alle lotte transfemministe, anche per evitare una deriva che abbiamo visto negli ultimi anni – nei nostri collettivi femministi, negli spazi queer –, ossia una svolta emotiva delle lotte (Dorlin, 2020), un ripiegamento impolitico sui fronti di conflitto interno, una feticizzazione del trauma e insieme l’occultamento della dimensione di classe dentro le politiche di identità.

Al tempo stesso, dagli avanzamenti prodotti dai più recenti movimenti transfemministi non si torna indietro: parlare di reddito e di condizioni materiali in maniera disincarnata senza tener conto della violenza e delle asimmetrie legate ai corpi, al genere, alle sessualità, ai processi di razzializzazione diventa un’astrazione, che riproduce un modello patriarcale e coloniale. La precarietà non è un universale neutro – e nelle comunità queer e femministe le reti relazionali e di nuove intimità sono spesso già forme di mutualismo sperimentali e avanzate da cui prendere ispirazione.

Note

[1] Ho lavorato su questi materiali per una precedente versione nel saggio SMASH THE PATRIARCHY: social reproduction and the invisibility of essential labor, in Marco Baravalle, Emanuele Braga, Gabriella Riccio (eds.), Art for UBI (manifesto), bruno, Venezia 2022.
[2] In particolare Gago sull’articolazione del nesso corpo-territorio messo a fuoco dai movimenti di Ni Una Menos in Argentina e Latino America.
[3] Il riferimento è al concetto di Spinoza di affectus, che Deleuze legge come variazione di intensità.
[4] RISP fa parte di CLAP Camere del Lavoro Precario; ASR Autorganizzat_ Spettacolo Roma.
[5] Il Manifesto è stato scritto collettivamente nel corso di alcuni mesi tra il 2020 e il 2021 di incontri coordinati da IRI Institute of Radical Imagination, un Gruppo di curat^, attivist^, studios^ e lavorat^ culturali interessat^ a co-produrre ricerca, saperi, interventi artistici e politici che potenzino forme di vita postcapitaliste. Qui il Manifesto.
[6] La campagna dei NO del Campo Innocente, “COME STIAMO | Kit di pronta emergenza da portare con sé in caso di improvvisa ripartenza del sistema arte e spettacolo in era post-pandemica” (giugno 2020): Facebook. Sito del collettivo.
[7] Materiali usciti dal tavolo su sessismo/precarietà, e ricomposti in una scrittura collettiva.

Bibliografia

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Barad K., Performatività della natura. Quanto e queer, ETS, Pisa, 2017.
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Oppermann S., Il corpo tossico dell’altro. Contaminazioni ambientali e alterità ecologiche, in D. Fargione, S. Iovino (a cura di), ContaminAzioni ecologiche. Cibi, nature e culture, LED Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano, 2015.
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Tsing A. L., Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo (2015), Keller, Rovereto, 2021.

Ilenia Caleo è performer, attivista e ricercatrice. Dal 2000 lavora come attrice, performer e dramaturg nella scena contemporanea, collaborando con diverse compagnie e registe/i. Con Silvia Calderoni ha dato vita ad atelier nomadi e progetti di ricerca. Creano la performance KISS (2018) con 23 performer, prodotta da Santarcangelo Festival e CSS Udine. Per la Queering Platform del Freespace West Kowloon di Hong Kong hanno ideato il progetto SO IT IS. Fanno parte di Flu水o, progetto crossdisciplinare (Italian Council 9° Edizione 2020), presentato a Milano, Seoul, Shangai. A gennaio 2023 ha debuttato ad Amburgo The present is not enough, il loro nuovo lavoro.
Filosofa di formazione, si occupa di corporeità, epistemologie femministe, sperimentazioni nelle performing arts, nuove istituzioni e forme del lavoro culturale. Insegna allo IUAV di Venezia ed è cofondatrice del Master Studi e Politiche di Genere di Roma Tre; collabora con il gruppo di ricerca “INCOMMON. In praise of community. Shared creativity in arts and politics in Italy (1959-1979)”. Ha pubblicato Performance, materia, affetti. Una cartografia femminista, Bulzoni 2021 e co-curato In fiamme. La performance nello spazio delle lotte 1967/1979, b-r-u-n-o 2021. Attivista del Teatro Valle Occupato e nei movimenti dei commons e queer-femministi, è cresciuta politicamente e artisticamente nella scena delle controculture underground e dei centri sociali.