+ Fluid Heritage
Spazi di conflitto. L’istituzione come corpo queer
di Stefano Volpato

1. Istituzioni culturali e comunità plurali
Una prestigiosa categoria di istituzioni culturali, raggruppate nell’ICOM – International Council of Museums, è impegnata a livello globale in un’importante discussione, dal 2016: quella per una nuova definizione di museo. Non è solo una questione lessicale, perché in base a cosa possa essere o meno un museo dipendono scelte importanti come, ad esempio, l’accesso ai fondi pubblici. La definizione in discussione li descrive come «spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro», che «lavorano in partnership attiva con e per le diverse comunità al fine di raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esporre e migliorare la comprensione del mondo» (Executive Board of ICOM, 139th session, 2019).
L’accento sulla relazione con le comunità, in senso plurale e inclusivo, era assente nella precedente definizione, che invece sottolineava le funzioni di conservazione e valorizzazione. Da contenitori di oggetti, informazioni ed esperienze, a crocevia di relazioni, luoghi di incontro, comprensione e reciprocità: i musei, e più in generale le istituzioni culturali (archivi, biblioteche, ma anche format diffusisi in tempi più recenti, come i festival) sono al centro di un dibattito sul loro ruolo pubblico, oscillante tra questi poli[1]. Se da un lato cresce la consapevolezza che esse non possono sottrarsi alle questioni urgenti del presente come disuguaglianza e discriminazione, dall’altro è significativo che la necessità di un riposizionamento forte e chiaro si accompagni alla percezione della loro precarietà, che la crisi sanitaria del 2020 ha evidenziato in modo innegabile.
Anche nel documento conclusivo del Forum dell’arte contemporanea italiana – autorevole organizzazione informale di operatori del settore, riunitasi a maggio 2020 – si sottolinea la necessità da parte delle istituzioni culturali di «rivedere la propria funzione pubblica, in relazione a una sempre maggiore connessione con le comunità e i territori di riferimento», uscendo da una «logica dell’incasso» e della «catena di eventi» (Documento conclusivo Forum, 2020). Il forum ha preso le mosse precisamente da un’accresciuta percezione della fragilità sistemica in cui i soggetti portatori di interesse – musei, ma anche artisti e professionisti – si trovano a operare. E anche in questo caso, lo stimolo a riposizionarsi nel discorso pubblico viene dalla volontà e necessità di attivare un dialogo con le comunità e i territori di riferimento, contrastando una prospettiva sbilanciata in una direzione economicistica. Il problema quindi, utilizzando un lessico aziendale, è rivedere vision e mission dell’istituzione, di cui viene messa in discussione la relazione fondativa con il proprio core business.

2. Spazi di esclusione e di rappresentazione
Di nuovo, i musei possono essere considerati casi emblematici. Essi nascono come spazi di narrazione che producono esclusione, finalizzati a promuovere una narrazione occidentalocentrica, attraverso il fondamentale ruolo che hanno avuto nella formazione degli stati coloniali, nel rappresentarne retroattivamente il passato e la fondazione nazionale. Depositari del sapere al servizio della società, la loro storia è legata a doppio filo all’impulso di collezionare oggetti e, con essi, conoscenza culturale. Le condizioni di questa raccolta non possono essere scisse da quelle di violenza e dominio nei confronti dell’alterità (Umolu, 2020). Tuttavia, i musei hanno spesso nascosto questi aspetti nelle loro narrazioni, a partire da un assunto ancora oggi incrollabile: la finzione del potere emancipatorio dell’oggetto culturale e artistico. Essi sono considerati quindi spazi pacificati, di tregua, separati dall’arena politica (nascondendo quindi anche la loro prossimità al potere) e dalle ingiustizie sistemiche. In questo modo, queste istituzioni si sono poste un doppio vincolo: da una parte, essere al servizio della società civile; dall’altra, distinguersi da essa, standone al di fuori. Un riposizionamento delle istituzioni culturali attraverso una nuova alleanza con le comunità in senso non esclusivo non può che avvenire oggi in una prospettiva di decolonizzazione, a partire da un’attitudine autoriflessiva e critica da parte delle istituzioni. Anche questo non è un dibattito recente; oggi, di fronte alle tensioni e alla precarietà cui esse sono ancora sottoposte, ritorna in tutta la sua urgenza.
Già le esperienze etichettate sotto il termine new institutionalism dai primi anni Duemila, vedono il tentativo di riposizionamento dell’azione culturale contemporanea attraverso un approccio curatoriale che produca uno «spazio attivo, […]  a metà tra centro di comunità, laboratorio e luogo di formazione» (Ekberg, 2003). L’istituzione opera come uno spazio di produzione, ricerca e dibattito, che l’artista – ma anche il pubblico – possono utilizzare: uno spazio capace pertanto di includere frizioni e conflitti, ammettere l’alterità costruendo una narrazione plurale. Un’esperienza in corso mentre scrivo come quella del Nuovo Forno del Pane, promossa dal Mambo di Bologna, sembra rifarsi proprio questo tipo di strategie – che appaiono decisamente minoritarie nel contesto attuale.
Semplificando un arco temporale lungo e complesso, attraverso le pratiche di critica istituzionale negli anni Sessanta e Settanta alcuni artisti iniziano a mettere in discussione il ruolo autoritario delle istituzioni culturali soprattutto occidentali, a partire dal loro ruolo nella formazione degli stati-nazione coloniali. Durante quella che viene definita “seconda ondata”, negli anni Novanta, queste strategie sono assunte a livello istituzionale, informando ed espandendo la ricerca e la prassi curatoriale. Alla base, vi è l’identificazione del proprio mandato con quello di tipo democratico rappresentativo, derivante dall’interpretazione dell’istituzione stessa come di una sotto-sfera pubblica.
Non tutto però fila liscio: lo sviluppo di un’attitudine autoriflessiva e critica in quello che viene definito curatorial turn (O’Neill, 2007) si intreccia con un’altra tendenza, che viene invece definita corporate turn (Möntmann, 2009). Se quindi da un lato la critica entra strutturalmente in alcune esperienze istituzionali, dall’altro si afferma quella logica neoliberale economicistica, legata “all’evento” e “all’incasso”, non solo nelle grandi istituzioni gestite come brand globali (di cui il caso più famoso è il Guggenheim). Questo approccio infatti si applica sempre più anche a soggetti di media o piccola dimensione, costretti a puntare su programmi curatoriali simili a quelli delle istituzioni-brand.
L’artista e teorica Hito Steyerl evidenzia come questo accada, all’interno di un quadro politico attraversato da tensioni e forza transnazionali dove lo stato-nazione non è più l’unica cornice di riferimento, quando anche l’istituzione culturale evolve in un soggetto principalmente economico, sottoposto alle leggi del mercato. Si tratta dell’inesorabilità che Mark Fisher descrive come segue in Realismo capitalista (2009): «Negli anni Ottanta al capitalismo c’erano ancora delle alternative, almeno a parole […] Quello che invece stiamo affrontando adesso è un più profondo e pervasivo senso di esaurimento, di sterilità culturale e politica». Da un punto di vista culturale, questo si riflette in un’integrazione dell’istanza critica e dell’impegno sociale di tipo rappresentativo piuttosto che fattuale (ovvero senza alcuna conseguenza materiale) da parte dell’istituzione. Non più impegnata nella formulazione di una narrazione nazionale di unità e coesione, essa produce moneta spendibile in un’economia culturale sempre più globale. Uno “spettacolo della differenza”, da cui è eliminato il conflitto; parallelamente, a livello socio-politico, un processo simile è quello che promuove un’integrazione simbolica nei confronti delle minoranze, tuttavia mantenendo allo stesso tempo disuguaglianze e ingiustizie sistemiche. Il risultato odierno, per Steyerl, è un soggetto ibrido e dislocato: «Se la prima ondata di critica istituzionale ha prodotto un’integrazione nell’istituzione, la seconda ha ottenuto un’integrazione della sua rappresentazione. Ma nella terza fase l’unica integrazione che sembra possibile è quella nella precarietà […] mentre le istituzioni critiche vengono smantellate dalla critica istituzionale neoliberale, si produce un soggetto ambivalente, che sviluppa strategie multiple per gestire la propria dislocazione. E, da un lato, si trova ad adattarsi a bisogni e condizioni di vita ancora più precari» (Steyerl, 2006).

3. Un esempio: la Biennale di Venezia e la permanenza radicale
Un esempio lampante delle contraddizioni sviluppatesi dall’intreccio curatorial-corporate e della precarietà che esso produce, è incarnato da Venezia e dalla sua Biennale. Come evidenzia in un recente articolo l’attivista Marco Baravalle, nonostante il suo carattere e prestigio culturale che ne fa una delle manifestazioni più importanti per l’arte contemporanea in Italia e al mondo, le logiche sottostanti alla rassegna veneziana rappresentano opportunità molto più grandi per il real estate, piuttosto che per la produzione, il lavoro e la critica. Se la Biennale di Venezia può da un lato vantare una crescita da capogiro negli ultimi vent’anni, dall’altro è indubbio che essa abbia contribuito ad alimentare processi di turistificazione e mercificazione della città e del suo capitale culturale attraverso un’intensa stagionalizzazione e brandizzazione, evidente nella proliferazione di partecipazioni nazionali in nuovi padiglioni in tutta la città[2]: anche in questo caso, la narrazione nazionale si presta alla capitalizzazione culturale simbolica.
Secondo Baravalle si rende necessario un nuovo paradigma di “permanenza radicale”, che sposti l’attenzione da una prospettiva del mostrare ad una dell’abitare, sfidando l’istituzione culturale a mettere a disposizione degli vari soggetti – artisti, curatori, ricercatori ma anche del pubblico – una diversa dimensione spazio-temporale per operare. Il fine è superare un approccio che altrimenti rischia di caratterizzare l’azione culturale in modo paternalistico ed estrattivista, impegnato a mediare il conflitto (o peggio ancora a placarlo), piuttosto che a prendervi parte. «Sentiamo la tensione nei confronti della società […] e dobbiamo ripensare permanenza, durata, mobilità». Costruire relazioni di abitabilità in un territorio implica accogliere e partecipare ai suoi conflitti, prendervi posizione come modalità per aprirsi alle sue comunità; in ultima istanza, «ripensare il coinvolgimento e l’impegno con il nostro contesto in termini politici» (Baravalle, 2020). Su quale base comune sviluppare questo coinvolgimento e impegno?

4. L’istituzione come corpo queer
L’ipotesi che vorrei prendere in considerazione è che questo terreno comune sia rappresentato dalla condizione di precarietà, che accomuna le istituzioni culturali e le comunità marginalizzate. All’interno di questo scenario, il caso-studio  una piccola istituzione, Piattaforma Lago (Revine-Lago, Treviso) e del video X dell’artista Daniele Costa prodotto in quello specifico contesto, hanno rappresentato uno stimolo prezioso per questa riflessione e un termine di confronto. La scelta di permanenza radicale da parte di un’istituzione può trovare reciprocità con la prospettiva dell’identità di genere intesa come fatto discorsivo e performativo, mettendo in luce spazi di convergenza e alleanza tra l’istituzione intesa come corpo precario e il corpo queer.
Da una prospettiva politica, è Judith Butler a collegare strettamente la performatività di genere. Nel suo recente L’alleanza dei corpi (2017), la filosofa riparte dalle riflessioni di Gender Trouble (1989). L’identità di genere è un fatto discorsivo, un insieme di norme e aspettative che ci circondano e delle modalità in cui le incorporiamo. Nonostante noi tutti non siamo in condizione di sottrarci a questo processo, può accadere una deviazione dal percorso, che apre degli interstizi fra le categorie prestabilite. Il genere è qualcosa che si riceve, ma non è iscritto sui nostri corpi, bensì è un certo tipo di attuazione di questo qualcosa; in questo senso è performativo, ed è una negoziazione con il potere.
«L’aspirazione politica di questa analisi, e forse proprio il suo obiettivo normativo, è contribuire a rendere le vite delle minoranze sessuali più vivibili, perché i corpi non conformi alle norme di genere, al pari di quelli fin troppo conformi (e ad alto prezzo), siano in grado di respirare e muoversi liberamente […] il punto era quello di allentare la morsa coercitiva delle norme di genere […] il mondo come dovrebbe essere, infatti, tutelerebbe la possibilità di sovvertire la norma, e offrirebbe supporto e conferma a quanti si trovassero a realizzare tali sovversioni» (Butler, 2017).
Il mondo com’è, al contrario, obbliga corpi conformi e specialmente corpi non conformi a pagare un altissimo prezzo, in termini di precarietà. Per Butler, la precarietà è una distribuzione differenziale politicamente indotta di vulnerabilità – esposizione alla violenza, alla fame, agli spostamenti indesiderati – il cui contrasto attraversa diagonalmente una grande numero di gruppi marginalizzati. Il problema è di tipo etico: affonda le radici in una «elevazione dell’autosufficienza a ideale morale, nel momento stesso in cui le forme di potere neoliberista operano in direzione della distruzione di ogni sua possibilità concreta». Il tutto assecondato da un «libertarianismo economico che ha contribuito a sostituire ogni senso di responsabilità sociale comune con parametri di giudizio freddi e calcolatori», misconoscendo una fondamentale obbligazione reciproca. Possono quindi esistere vite indispensabili a fronte di vite dispensabili, non degne di apparizione nella sfera pubblica. La riflessione sviluppata in L’alleanza dei corpi è stimolata proprio dall’apparizione, a cavallo degli anni Dieci del Duemila, di un grande numero di corpi sulla scena pubblica in diverse parti del mondo: dalle Primavere Arabe al movimento Occupy Wall Street, manifestazioni da riannodare ad esperienze precedenti e, a volte, brutalmente interrotte (pensiamo al G8 di Genova) fino ai recenti movimenti contro la discriminazione LGBTQ+ in Polonia o antirazzisti negli Stati Uniti. «Nonostante le lotte di genere non possano funzionare da paradigma per tutte quelle vite che lottano contro la costruzione normativa dell’umano, esse tuttavia potrebbero porsi quale punto di partenza per una riflessione sul potere, sull’agency e sulla resistenza. Se concordiamo sul fatto che esistono norme di genere e sessuali dalle quali dipendono la riconoscibilità e la ‘leggibilità’ di alcuni e non di altri, allora possiamo anche osservare come coloro che sono ‘illeggibili’ si aggreghino per sviluppare forme reciproche di leggibilità; come essi siano esposti a forme differenziali di violenza; e come questa comune esposizione possa diventare la base della loro resistenza» (Butler, 2015).
Ora, assumiamo che l’istituzione, in quanto oggetto di precarizzazione, possa essere letta come un corpo queer, ovvero che la sua identità sia non data ma discorsiva e performata. Ripercorrendo sinteticamente le tappe del ragionamento di Butler, essa potrà deviare dalla norma e negoziare con il potere, sviluppare una reciprocità leggibile. Sul terreno della precarietà e del conflitto, potrà quindi trovare scambio e reciprocità con le comunità in senso inclusivo e plurale, non elitario ed escludente.

Daniele Costa, 00.02.11.14 (still video da X), 2020. 
Courtesy l’artista 
Daniele Costa, 00.08.47.12 (still video da X), 2020. 
Courtesy l’artista 
Daniele Costa, 00.03.38.18 (still video da X), 2020. 
Courtesy l’artista 

5. Un caso-studio: Piattaforma Lago e X di Daniele Costa
Lago film fest è un festival dedicato all’immagine in movimento, che si svolge dal 2005 ogni luglio a Revine-Lago, in provincia di Treviso. La rassegna si tiene sulle sponde di un lago che, curiosamente, ha il nome di Lago. Divenuto un solido riferimento internazionale per la produzione indipendente, da qualche anno l’istituzione sta compiendo un processo di transizione da festival a piattaforma. Dal carattere ricorrente ma saltuario di evento a base stabile e continuativa, l’obiettivo dichiarato è dare più tempo e spazio alla grande quantità di stimoli ed energie che i nove giorni di rassegna attirano e producono.
Uno step di questo processo è la riattivazione di un progetto di residenza e produzione chiamato Brodo, «la miscela bollente dei progetti artistici di Piattaforma Lago». Nelle parole del curatore dell’edizione 2019, Alfred Agostinelli[3], si tratta di un percorso di ricerca volto a promuovere «interazioni tra vecchie e nuove comunità che abitano la scena lacustre, il luogo centrale di questa riflessione critica e progettuale». La residenza-produzione si configura quindi come modalità attraverso la quale performare una diversa relazione con il territorio e perseguire una maggiore efficacia nella capacità di produrre cultura e cambiamento, tra gli obiettivi dichiarati dell’istituzione Piattaforma Lago.
Al di fuori della cornice di proiezioni, incontri, performance e mostre, il contesto di Lago può definirsi infatti un ambiente tutt’altro che facile: un territorio profondamente conservatore e non pacificato[4]. Alcune scelte curatoriali del progetto sono anche scelte di attivismo che accolgono, non placano il conflitto – l’incontro dell’ignoto come cornice tematica, l’estensione temporale del progetto al di fuori del festival, il coinvolgimento di mentori LGBTQ+.

La ricerca che Daniele Costa ha sviluppato durante la residenza curata da Agostinelli prende avvio da questo conflitto. Accanto all’immagine da cartolina, patinata e romantica, il lago ne manifesta una diversa, sommersa e inquietante: quella di una provincia cupa e chiusa, che si apre con diffidenza alla diversità. Si tratta di un paesaggio che l’artista ha esplorato, seppure in modi diversi, in alcuni dei suoi lavori precedenti come Spazio morto (2016) e Harmony (2019).
X (2020), il video prodotto in occasione di Brodo, si muove nel campo delle politiche dell’identità, raccontando storie che si abitano a vicenda pur non conoscendosi. Deus ex machina è il protagonista Doriano, nato e cresciuto a Lago, unico tra i suoi abitanti a vivere una dimensione di diversità nell’espressione della propria identità di genere, sessuale e affettiva. La sua narrazione si scioglie con quella del paesaggio che lo circonda, intrecciando tensioni, scontri e possibilità di riscatto, “incuneandosi all’interno del concetto di non appartenenza ad un luogo”:
«X si districa e affronta lo spazio fisico, paesaggistico e relazionale di una piccola comunità, restituendone una versione più reale, articolata tra contrasti, narrazioni sfuocate, luci ed ombre. Il lago che si affaccia al paese di Lago – mille abitanti nel cuore della pedemontana veneta – è sfondo e assieme soggetto, mentre fa da contrappunto e al contempo accompagna Doriano, il protagonista del lavoro, nel suo narrarsi. Le x sono gli amori giovanili consumati fugacemente sulle rive del lago da Doriano, ma sono anche la volontà di non appartenere, in tutte le sue accezioni»[5].
Costa apre al potenziale performativo di una “marginalità paragonabile a quella dell’immigrazione”[6], affermando la non appartenenza come strumento di apertura. Attraverso lo strumento del dialogo, attorno al quale è costruito l’intero video, così come il trattamento non mimetico del suono, l’utilizzo del fuori fuoco e del posizionamento sghembo degli strumenti di ripresa, esplora in modo critico i concetti di visibilità e leggibilità, in termini che si potrebbero definire butleriani. In quest’accezione, X costruisce la narrazione di una comunità al plurale, evidenziandone, nei margini, le potenzialità di arricchimento e inclusione.

Note
[1] Il fatto stesso che la discussione in seno all’ICOM sia stata approfondita sulle pagine di molta stampa generalista, anche in Italia, evidenzia come questo processo di negoziazione di senso non sia un fatto tecnico, per pochi addetti ai lavori, ma compiutamente politico.
[2] Anche l’ultima edizione della Biennale d’arte (2019), ha prodotto risultati spettacolari dal punto di vista della logica dell’incasso e dell’evento, ma il suo potenziale critico. Specie quello del percorso affidato al curatore Ralph Rugoff che, nei fatti, è andato non oltre l’enigmatico titolo May you live in interesting times. Un esempio su tutti è l’infelice collocazione all’Arsenale del relitto naufragato il 18 aprile 2015 nel Mediterraneo, con il titolo Barca Nostra, da parte di Christoph Büchel. In quell’occasione, persero la vita circa 700 migranti. Nel saggio del 2006 On the Conditions of Anti-Capitalist Art, Gene Ray evidenzia il rischio che la pratica artistica corre quando il contesto sistemico sortisce l’effetto di neutralizzarne le istanze critiche. Semplificando: ciò che nello spazio pubblico, nella vita reale sarebbe causa di indignazione e discussione, diventa nell’ambito dell’opera e della mostra un fatto normale. In un contesto di scontro politico rispetto al tema della migrazione – collegato ad altri altrettanto urgenti quali clima, nazionalismo, razzismo, disuguaglianza – viene da chiedersi se il monumentale ready-made di Büchel e, più in generale, la mostra di Rugoff, hanno avuto la forza di suscitare qualcosa di più di alcune foto-ricordo.
[3] Che desidero ringraziare per la disponibilità con cui si è prestato al dialogo sulla sua ricerca.
[4] Una convincente argomentazione di questo punto richiederebbe uno spazio troppo esteso, almeno in questa sede. A titolo esemplificativo e non esaustivo, si condieri che il luogo dove si svolge Lago Film Fest è lo stesso che per anni ha ospitato – senza grandi alzate di scudi – il raduno neonazista internazionale organizzato da Veneto Fronte Skinheads; si rimanda al servizio di un’emittente locale disponibile tra i link in fondo alla bibliografia/sitografia.
[5] Questo passo è tratto dalla sinossi del video X di Daniele Costa, gentilmente fornita dall’artista stesso insieme alle immagini che corredano l’articolo.
[6] Per un approfondimento sul lavoro di Costa, si rimanda – oltre alla visione del video X – al dialogo tra l’artista e Stefano Mudu, disponibile tra i link in sitografia.

 

Bibliografia
Baravalle M., On the Biennale’s ruin. Inhabiting the void, covering the distance, in «Institute of Radical Imagination», maggio 2020. Disponibile QUI ultimo accesso 25/08/2020.
Butler J., Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York-Londra 1989.
Butler J., Notes toward a performative theory of assembly, 2015 trad. it. L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva, Nottetempo, Milano 2017.
Fisher M., Capitalist Realism. Is There No Alternative?, O Books, UK 2009.
Ekeberg J. (a cura di), New Institutionalism. Versted#1, Office for Contemporary Art, Oslo 2003.
Kolb L., Flückiger G., (New) Institution(alism), in «On-curating» n°21, dicembre 2013. Disponibile QUI ultimo accesso 25/08/2020.
Möntmann N., The Rise and Fall of New Institutionalism: Perspectives on a possible future, in Raunig G. e Ray G. (a cura di), Art and Contemporary Critical Practice, MayFlyBooks, Londra 2009.
O’Neill P., The Curatorial Turn: From Practice to Discourse, in Rugg J. e SedgwickIssues M, Curating Contemporary Art and Performance, Intellect, Chicago 2007.
Steyerl H., The Institution of Critique, in «EIPCP – European Institute for Progressive Cultural Policies», gennaio 2006. Disponibile QUI ultimo accesso 25/08/2020.
Umolu Y., On the Limits of Care and Knowledge: 15 Points Museums Must Understand to Dismantle Structural Injustice, in «Artnet», giugno 2020. Disponibile QUI ultimo accesso 25/08/2020.

Sitografia
Executive Board of ICOM 139th session, Paris on 21-22 July 2019, ultimo accesso 25/08/2020.
Forum Arte Contemporanea, Chiamata alle Arti ultimo accesso 25/08/2020.
Lago Fest ultimo accesso 25/08/2020.
B-R-O-D-O ultimo accesso 25/08/2020.
TG TREVISO (01/09/2016) – REVINE BLINDATA PER IL “RITORNO A CAMELOT ultimo accesso 25/08/2020.

Stefano Volpato (Treviso, 1988) è curatore indipendente. Laureato in Arti Visive presso l’Università di Bologna, ha frequentato Campo, corso per curatori della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Ha curato per istituzioni pubbliche e private diversi progetti, espositivi e non, dedicati all’arte contemporanea e alla valorizzazione di beni culturali. È membro fondatore del collettivo curatoriale CampoBase.