§De Senectute Feminarum - invecchiare come donne
Vergogna! All’origine del mito negativo
della vecchiaia femminile in Europa
di Viviana Gravano

La vecchiaia era un privilegio di alberi e pietre.
(Wisława Szymborska, La breve vita dei nostri antenati)

Dedicato a Margherita, mia madre, che quest’anno compie 100 anni
e ha portato ogni sua età con la forza e la dignità delle donne
che hanno attraversato per intero il secolo breve
e hanno preparato la strada a tutte noi che a volte ce ne dimentichiamo.

Tra i mesi di marzo e giugno 2023 la National Gallery di Londra ha ospitato una mostra dal titolo The Ugly Duchess: Beauty and Satire in the Renaissance, curata da Emma Capron (Capron, 2023), che aveva al centro la tela del pittore rinascimentale fiammingo Quentin Massys The Ugly Duchesse, realizzato nel 1513, ispirata ad un disegno molto simile di Leonardo da Vinci della serie dei Ritratti Grotteschi. L’immagine raffigura una donna piuttosto anziana, che indossa un vistoso copricapo a due corni, quasi demoniaco, ha un decolté scoperto da cui emergono seni strizzati da un corpetto, e un collo pieno di rughe. Il volto è altrettanto rugoso, gli occhi infossati, la distanza tra le labbra rattrappite e il naso le dà un aspetto quasi scimmiesco. Gli anelli alle mani, così come i preziosi tessuti che la vestono fanno ben intendere che si tratta di una persona di alto rango: una Duchessa brutta. Nella mano sinistra tiene un bocciolo di rosa ancora chiuso che sembra offrire a qualcuno. Nella mostra la tela è stata affiancata da un altro ritratto di uomo anziano, Portrait of an old man, [1] dello stesso autore, che fa un gesto di rifiuto, qui riferibile al fiore della duchessa. La ‘brutta vecchia’ non solo si mostra con il seno in bella vista e si abbiglia alla moda nonostante l’età, ma porge all’amato un bocciolo che ancora deve fiorire, come simbolo di qualcosa di là da venire, da sbocciare. Massys, noto per essere un pittore che potremmo definire con Eugenio Battisti (Battisti, 1962) antirinascimentale, realizza una pittura realista così schietta da apparire persino grottesca, ironica, e senza dubbio impietosa. Questa immagine della vecchiaia femminile manifesta in maniera spietata, ma anche limpida, lo stereotipo potente e ancora più che vivo, che la cultura occidentale, fin dalla sua origine in epoca greco-latina ha costruito sull’immagine della donna anziana. Il primo attributo essenziale è: la bruttezza. Per l’uomo invecchiare, se non in minima parte, non ha a che vedere con la perdita della bellezza, anzi addirittura può generare nuovo fascino, per la donna è sempre segno di decadenza fisica estrema, “rinsecchimento”, pelle che cade, corpo che si disfa e si trasforma sempre in senso negativo. La vecchiaia femminile è indelebilmente legata alla bruttezza, chi che sia il soggetto di cui si parla.

Quentin Massys, The Ugly Duchesse, 1513

Numerose rappresentazioni di donne anziane nel XVI e XVII secolo sfociano nel ridicolo, e sono volutamente usate per irridere e denigrare le donne che, data la loro sopravvenuta “bruttezza”, non meritano più il rispetto dovuto loro da giovani. La storia del disprezzo e della derisione per le “vecchie” ha origini antiche nella cultura europea: la leggenda vuole che Zeusi, pittore greco del V sec. A.C., morì per le risate smodate che gli suscitò vedere un suo stesso dipinto che ritraeva una donna vecchia, che aveva commissionato lei stessa l’opera, che la ritraeva come Venere. La risata è così violenta che lo soffoca e lo uccide. L’iconografia della bruttezza delle donne in età avanzata, che però si credono belle, è un tema ripetuto più volte: dunque non solo esteticamente sgradevoli, ma anche così sciocche e presuntuose da non accorgersi della propria decadenza. Una posizione che toglie loro così anche l’aura di sapienza e moderazione che avvolge gli uomini anziani, che seppure raffigurati realisticamente come segnati dall’età, mantengono una intoccabile dignità in quanto sapienti.

Persino Leonardo da Vinci, nel suo trattato De Pictura, scrive per gli uomini: «I vecchi debbono essere fatti con pigri e lenti movimenti, e le gambe piegate sulle ginocchie quando stanno fermi, e i piedi pari e distanti l’un l’altro siano declinati in basso, la testa innanzi chinata e le braccia non troppo distese»; mentre per le donne vecchie: «si debbon figurare ardite e pronte, con rabbiosi movimenti a guisa di furie infernali, ed i movimenti debbono parere più pronti nelle braccie e teste che nelle gambe» (Leonardo da Vinci ed. 1995, parte seconda, n. 140, 89-90) Le donne anziane sono infernali, erinni rabbiose, perché andando avanti con gli anni, a confronto con le altre giovani e quindi belle, si inacidiscono, divengono aspre e quindi vendicative e violente. Il canone essenziale patriarcale che propone un solo parametro di “giudizio” per le donne, cioè la bellezza, impone che persino i loro stessi corpi e quindi anche le mani incarnino quel modello. Una donna anziana aderisce suo malgrado al disegno che fanno di lei gli uomini, e quindi quando si accorge di stare perdendo l’unica caratteristica che la rende importante ai loro occhi, diviene crudele e feroce contro le giovani. Basti pensare, molto più semplicemente alla maggior parte delle favole della cultura europea, che vedono sempre nelle matrigne, nelle streghe, nelle maghe crudeli, delle vecchie, un tempo quasi sempre bellissime, e ora divenute aspre contro le giovani per pura invidia.

Un quadro più che noto, forse uno dei più noti su tema, attribuito a Giorgione, ma con un’ampia discussione sull’attribuzione certa a lui data la scarsezza di ritratti nella sua produzione, è Vecchia [2]. La donna, ritratta con un abbigliamento sciatto e malmesso, che ne denota la classe sociale bassa, è messa di tre quarti alla maniera della ritrattistica rinascimentale a Venezia, ma la cosa importante è che tiene in mano un cartiglio con su scritto col tempo. Un’immagine terribile e emblematica che trova nell’iscrizione due significati possibili: da un lato banalmente la constatazione che con il tempo si diviene così inesorabilmente; dall’altra appare come un monito più che una constatazione, cioè un voler dire alle donne segnate dalla vanitas che il tempo sarà inesorabile con tutte loro. La vanità è un attributo molto raro in pittura per gli uomini, ed è invece un attributo delle donne anche da giovani. Appare come il grande vizio femminile, inteso non solo come essere vanitose, ma come dare importanza a cose vane. Dunque, la donna di Giorgione nel suo esser brutta, straccione e povera, diviene un monito feroce verso le giovani che già devono sapere cose diventeranno e che, se si occuperanno troppo della loro vanità, faranno una fine ancora peggiore.

Il museo Puskin di Mosca ospita una tela di Bernardo Strozzi del 1644 dal titolo Vanitas [3] che raffigura una donna anziana che si specchia, e mentre lo fa è contornata di monili e oggetti sempre attribuiti alla vanità: gioielli, ampolla di profumi. Ma la cosa essenziale che le giovani donne le mettono tra i capelli una piuma che indica la volatilità del tempo e della bellezza, e lei tiene nelle mani un fiore che appassisse, come lei in breve tempo. Il catalogo del museo Puskin cita una poesia di anonimo diffusa a Venezia, sicuramente conosciuta dall’artista, che recita: «Misera donna hor come puoi mirare/Delle bellezze tue l’altre rovine./Fuggi fuggi gli specchi, e non curare/ Rendere al volto tuo porpore, e brine» (Markova, 2007). Una donna ricca, piena di orpelli e tessuti sfarzosi, che con audacia lascia che i seni escano prosperosi dall’abito, si compiace di abbellirsi senza contare che non potrà mai più avere la vera ricchezza che la identifica, cioè la bellezza.

L’inferiorizzazione femminile da parte della cultura maschile patriarcale trasforma la bellezza in un boomerang che è essenziale per essere amata e apprezzata, ma diviene l’elemento di disprezzo e la perdita di valore quando manca per l’elevarsi dell’età. La donna, che ha la sola funzione di attrarre sessualmente l’uomo, perde qualsiasi importanza e significanza sociale dal momento che non ha più questa funzione, ma allo stesso tempo appare come ridicola, risibile o persino oscena quando prova a rendersi ancora piacente esercitando una vanità fuori tempo e luogo.

Una condizione biologica, quale è l’avanzare dell’età, prende connotazioni radicalmente diverse per uomini e donne, grazie alla percezione e alla conseguente rappresentazione che la società patriarcale ne ha dato, e ancora purtroppo ne dà. La vecchiaia femminile è un vero e proprio stigma, e viene sempre intesa come momento negativo che non porta nulla di buono, visto che l’unica caratteristica da tutt* riconosciuta per l’età avanzata è la saggezza derivata dall’esperienza, che però non appartiene tradizionalmente alle donne. Le donne sono “istinto”, emozione, non intelligenza non ragione, dunque, la loro saggezza non progredisce con l’esperienza della maturità. In più il loro ruolo primario, che è il procreare, con la menopausa e quindi la fine della fertilità si annulla, e dunque socialmente la donna vecchia è inutile.

Scrive Emma Capron, ancora nel catalogo della mostra The Ugly Duchesse: «I trattati di medicina alimentavano queste paure attraverso interpretazioni allarmanti della condizione post-menopausale. Secondo i modelli ippocratici, aristotelici e galenici, le donne erano già minate dal predominio degli umori più freddi e umidi nella loro fisiologia (in contrasto con la consistenza secca e calda degli uomini). Questo presumibilmente spiegava il loro carattere più debole, e la loro maggiore propensione al peccato. Si riteneva che l’assenza di purificazione attraverso le mestruazioni peggiorasse le cose, creando una malsana accumulazione di umori nocivi. Secondo questo punto di vista, il corpo della donna anziana era fondamentalmente inquinato, ospitando tutti i tipi di male, a cominciare dalla lussuria sfrenata, il vizio più comunemente associato alle donne mature. Di conseguenza, l’insaziabilità sessuale delle donne anziane, ritenuta ancora più innaturale per l’assenza di procreazione, era un’altra cosa» (Capron, 2023, pp.44-45).

Cesare Ripa nel suo noto volume Iconologia uscite nel 1593, attribuisce la vecchiaia alle figure maschili che raffigurano: Vecchiezza, Pensiero, Consiglio, Consuetudine, Giudizio e Tempo; per contro attribuisce la vecchiaia a diverse figure femminili tra cui quelle che rappresentano l’Accidia, l’Avarizia, l’Eresia e la Superstizione (Ripa, 1764-67). Come si può già notare a un primo sguardo leggendo solo la lista, al maschile si associano virtù, o comunque concetti alti, al femminile solo vizi, o comunque cose malevole. Nel caso dei vecchi, c’è una chiara predominanza di concetti legati al pensiero, alla saggezza e comunque alla capacità di essere attivi; alle vecchi solo atteggiamenti inferiori, che disattendono qualsiasi azione positiva.

Proviamo ad analizzare alcune di queste figure che propone il volume del Ripa, che è uno strumento di riferimento per chiunque affronti l’arte dal XVI secolo con una qualsiasi forma di raffigurazione simbolica, specie in ambito religioso, ma non solo. L’Accidia è una donna anziana che porta un cartiglio con su scritto “TORPET INERS”, cioè inerte, che tiene in mano il pesce torpedine, che passa gran parte della sua vita poggiato sui fondali senza muoversi. Una delle caratteristiche che denotano, nello stereotipo comune nel tempo, che la donna anziana non è più “attiva”, cioè perde la sua funzione di efficienza, che caratterizza le donne giovani. Inoltre, l’accidia non è una caratteristica biologica, fisica, non è la stanchezza del corpo invecchiato, una “qualità” morale, è la volontà di non essere più utile, come sono le donne che non servono più alla “riproduzione”. Lo stesso Ripa scrive nel 1603: «Vecchia si dipinge, perché nell’anni senili cessano le forze et manca la virtù d’operare».

La figura della Avarizia è ancora una donna anziana, che si tiene il ventre dolorante, guarda con cupidigia una borsa che stringe in una mano, ed è accompagnata da un lupo magro e vorace. Le donne sono per definizione gentili, attente, si prendono cura di tutt* in famiglia; dunque, si sanno sacrificare e sono generose. Una donna che non possa più assolvere al suo ruolo di volontaria dedita al bene altrui non può che essere smagrita, accompagnata da una belva sempre affamata e desiderosa del male. Ma la cosa che colpisce è che si tocca il ventre, come ad indicare quella parte del suo corpo che non può più essere generosa, perché non può più essere madre. 

L’Heresia viene così descritta dallo stesso Ripa nell’edizione del 1603: «Una vecchia estenuata di spaventevole aspetto, getterà per la bocca fiamma affumicata, haverà i crini disordinatamente sparsi et irti, il petto scoperto, come quasi tutto il resto del corpo, le mammelle asciutte e assai pendenti, terrà con la sinistra mano un libro socchiuso, donde appariscono uscire fuora serpenti et con la destra mano mostri di spargere varie sorti». Un’immagine che doveva terrorizzare le genti, che doveva mostrare la potenza dell’orrore che poteva generare opporsi alla Santa Madre Chiesa. La vecchia eretica è terribile in tutti dettagli del suo corpo, dai capelli ritti e disordinati, ma cosa essenziale ha mammelle avvizzite. Ancora una volta ciò che rende l’orrore della vecchiezza delle donne è legata alla fine del loro ruolo di madri. Al seno divino di Maria, al seno che ha allevato Gesù si contrappongono le mammelle senza latte, cadenti, secche dell’eresia. Un’immagine oscena, che trasforma questo corpo in una personificazione del “male” contrapposto volutamente al corpo rigoglioso della maternità, attributo santo delle donne giovani.

Nel suo bel libro De senectude (Rigotti, 2018), che ironicamente riprende l’omonimo saggio fondante sul tema di Cicerone (Cicerone, 2013), la filosofa Francesca Rigotti scrive: «Se la cultura mette in primo piano fecondità, procreazione, riproduzione, allora la donna divenuta sterile non è una donna, è una vecchia. Nel pensiero di Socrate, che rifletteva forse una pratica abituale degli antichi greci, la donna che ha attraversato la menopausa, non potendo più riprodursi, aiuterà le altre donne a farlo: diventerà levatrice o maia, come la madre del filosofo, Fenarete» (Rigotti, 2014, p. 102). Da qui il solo ruolo accettabile e socialmente rilevante per una donna anziana: la nonna. Non potendo in epoca moderna essere più la levatrice, il suo possibile compito è una sorta di surrogato del suo essere stata madre. Così la donna, divenuta produttivamente inutile, in un mondo produttivista e capitalismo, diviene ausilio alla produttività delle più giovani. Esiste uno stereotipo pervicace che ha disegnato nella cultura italiana un’immagine della nonna come di colei che si prende cura dei/delle nipoti, che concede più di quanto concedano i genitori perché è solo amore per i/le piccol* di casa, di famiglia, che è una sorta di nuova casalinga ancora più di serie B, anche se prima della pensione magari ha lavorato ed ha avuto un ruolo sociale importante. C’è una sorta di mitologia, spacciata come sempre per “naturale”, che riscatta la “vecchia”, ma non potendole dare un ruolo sociale di rilievo in quanto donna, la fa tornare madre, o per meglio dire madre supplente.

Susan Sontag, nel suo testo sulla vecchiaia (Sontag, 1972) che affronta la radicale differenza tra “i due sessi”, scrive: «La vecchiaia è una vera e propria prova, che uomini e donne affrontano in modo simile. Invecchiare è soprattutto una prova dell’immaginazione, una malattia morale, una patologia sociale, che è intrinseca al fatto che affligge le donne molto più degli uomini. Sono soprattutto le donne a vivere l’invecchiamento (tutto ciò che precede l’età vera e propria) con tanto disgusto e persino con vergogna» (Sontag, 1972, p.32). Appare qui una nuova parola chiave importante: la vergogna. La Sontag inizia in modo quasi scherzoso, citando poco prima la famosa storia di non chiedere l’età alle donne dopo “una certa età”. Una pratica “simpatica”, in cui tutte ci siamo imbattute senza attribuirle nessun particolare valore, ma che guarda caso, non riguarda gli uomini. La Sontag definisce l’età come lo “sporco segreto” delle donne. “Invecchiare è una ferita meno profonda per un uomo, perché oltre alla propaganda per la giovinezza che mette sulla difensiva uomini e donne quando invecchiano, c’è un doppio standard sull’invecchiamento che denuncia le donne con particolare severità. La società è molto più permissiva nei confronti dell’invecchiamento degli uomini, così come è più tollerante nei confronti delle infedeltà sessuali dei mariti. Agli uomini è “permesso” invecchiare, senza penalità, in diversi modi che alle donne non sono concessi. Un corpo nudo femminile segnato dal tempo è imbarazzante, produce vergogna. Una quantità impressionante di prodotti contro le rughe, contro l’invecchiamento della pelle, contro le macchie senili che vedono nell’immaginario pubblicitario sempre e solo donne. Le rughe maschili ancora una volta sono segno di saggezza, di esperienza, quelle femminili sono definite, anche da vocabolario, “inestetismi”.

La Sontag, così come la De Beauvoir nell’altro saggio seminale sul tema L’âge de discretion (La terza età) (De Beauvoir, 1967), mettono in campo un altro tabù che separa donne e uomini vecchi: un uomo anziano può avere relazioni, anche sessuali con donne anche molto più giovani, e anche “esteticamente” la cosa è accettabile o addirittura intrigante; una donna anziana con un giovane suscita riprovazione, disprezzo, persino schifo, e di nuovo vergogna, sia per lei che per il ragazzo che viene subito segnato da appellativi come Gigolò o Toy Boy. 

In una società occidentale, dominata da una classe media abbiente, per il maschio la fine del lavoro è la fine di una fase essenziale della vita, è una sorta di punto di svolta, che nonostante venga celebrato come positivo e liberatorio, viene spesso seguito da quella che è stata denominata depressione post pensione, o per meglio dire “Sindrome del marito in pensione”. In una intera vita giocata sulla produttività e l’efficienza essere ormai “inutili”, dichiaratamente tali perché fuori dai cicli produttivi ufficiali, è un’altra forma di vergogna. Si prendono i “pensionati” e per farli sentire ancora “utili” si mettono davanti alle scuole a far traversare la strada ai/alle bambin*, attribuendo loro almeno ancora un ruolo virile, o per meglio dire maschile, cioè quello di proteggere i/le più deboli. Non si parla praticamente mai di depressione post pensione per le donne, come se loro non avessero mai lavorato, anche oggi in un tempo in cui praticamente tutte le donne lavorano. Se si fa banalmente un giro in rete e si vedono i vari siti che parlano del fenomeno appaiono praticamente sempre immagini di uomini anziani, e si dice che statisticamente è un fenomeno maschile. Nella visione comune il motivo è semplice: le donne dopo l’età lavorativa ritornano finalmente al loro vero ruolo, le casalinghe. Possono finalmente tornare a occuparsi della casa, della famiglia, possono essere nonne, certo aiutate dai nonni, ma solo “aiutate” da loro.

Scrive ancora Francesca Rigotti: «In fondo il ritratto paradossale della vecchia, nonnina buona/strega perniciosa, è un’estensione della dicotomia vergine/puttana che per secoli ha afflitto l’universo femminile. In vecchiaia la vergine diventa una nonna rispettabile e senza sesso, mentre la prostituta – poiché la terza età è considerata priva di sessualità esprimibile – si trasforma in vecchia zitella, spinster, ovvero membro della categoria che riceve più disprezzo. […] La maggior parte delle figure malvagie e terrificanti della mitologia greca, comprese Empusa, Medusa, Scilla, Lamia, le Graie, le Parche e le Erinni sono vecchie zitelle, spinsters. […] Le figure mitologiche sopra citate sono invece vecchie zitelle che hanno rigettato il ruolo biologico di mogli e madri, o che sono state rifiutate come compagne di letto per la loro bruttezza, deformità, povertà o insocievolezza» (Rigotti, 2018, p.105).

Non dimentichiamo che se una donna prova a fare un figlio in età “avanzata” suscita critiche e si parla di insensatezza, se un uomo decisamente vecchio ma ancora fertile fa un figlio è solo una prova di virilità, e nessuno si interroga sul fatto che non potrà seguire suo figlio bambino, o magari morirà prima della sua pubertà. Il suo ruolo di padre non ha età, diversamente da quello della madre che deve sempre corrispondere alla giovinezza. Nella narrazione cattolica le madri anziane sono solo miracolate, prima tra tutte Sant’Anna, e la loro gravidanza è proprio il segno dell’eccezionalità di un evento in così tarda età. Tutta la letteratura al riguardo insiste sulla eccezionalità dell’evento della nascita per Anna, ma nessuno sottolinea che suo marito è di gran lunga più vecchio di lei.

Il fumettista statunitense William Ely Hill pubblica il 6 novembre 1915 sulla rivista umoristica “Puck” (Ely Hill, 2018, p.11) un’immagine doppia, illusoria, in cui convivono una bella ragazza giovane e elegante, presa di tre quarti, e fissando il disegno al suo interno emerge il volto arcigno e rugoso di una vecchia. L’opera si intitolava Mia moglie e mia suocera, ambedue in questa immagine trovatele ambedue, e lo stesso disegnatore invitava appunto i lettori a trovare le due figure. La doppia visione intendeva da un lato dire che nella stessa figura femminile convivono la grazia e l’orrore, la bellezza e la bruttezza, la vecchiaia e la giovinezza, e in fondo proponeva un monito sul fatto che così come si è giovani mogli poi si diviene vecchie suocere.

Note 

[1] Quentin Massys, The Ugly Duchesse, 1513. Per vedere quest’opera si consulti la pagina web
[2] Giorgione, Vecchia, 1506 circa, Olio su tela, Gallerie dell’Accademia, Venezia. Per vedere quest’opera si consulti la pagina web
[3] Bernardo Strozzi, Vanitas, 1637, Olio su tela, Museo Puskin, Mosca. Per vedere quest’opera si consulti la pagina web 

Bibliografia 

Battisti E., L’antirinascimento, Feltrinelli, Milano 1962.
Capron E., Ugly Duchess: Beauty and Satire in the Renaissance, Natl Gallery Pubns Ltd, London 2023.
Cicerone, De senectude, 44 a.C; ed. moderna italiana Cicerone, La vecchiaia, Feltrinelli, Milano 2013.
de Beauvoir S., L’âge de discretion,  Gallimard, Paris 1967.
Ely Hill W.,  My wife and my mother-in-law. They are both in this picture – find them in “Puck”, v. 78, n. 2018 (6 novembre 1915), pag. 11.
Markova V., (a cura di) Pittura italiana nelle collezioni del Museo Puskin dal Cinquecento al Novecento, Palazzo della Ragione, Verona, Marsilio, Padova 2007.
Rigotti F., De Senectude, Einaudi, Torino 2018.
Ripa C., Iconologia del Cavaliere Cesare Ripa Perugino Notabilmente Accresciuta d’Immagini, di Annotazioni, e di Fatti dall’Abate Cesare Orlandi, 5 vols. Perugia, Stamperia di Piergiovanni Costantini, 1764-67.
Sontag S., The Double Standard of Agingin, in “The Saturday Review”, September 23, 1972, pp. 29-38