Italianità
Guardiamo dove siamo!
Sonia D’Alto in Conversazione con Christian Caliandro

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Alessandro Bulgini, Opera Viva Primo tentativo di accorciare la Manica da Calais (2016)

Parlare di identità di un popolo, di una cultura, in una data società -e in contemplazione storica- significa fare appello ad attività quali quelle dell’immaginazione e della costruzione umana. È una negoziazione continua tra memoria privata e memoria pubblica. Forse la memoria privata è capace di forzare dei confini, come una sorta di teatro politico. La poesia del singolo piuttosto che l’autorità imposta come legge (pacifica) comune. Dunque, possibili narrative alternative. Narrative femminili, narrative delle migrazioni, narrative coloniali. Che possano costruire nuovi immaginari da condividere. Espellere fragili monumenti come esperienza della storia. La memoria monumentale (e dei monumenti) è una forte espressione di raccoglimento sociale, un potente simbolismo e una forma potente di identificazione. Nell’attuale presente di conflitti tra nazionale e regionale, tra vecchia Europa e nuovi flussi umani, sembra che due siano le responsabilità che gli stati e cittadini sembrano rifiutare:

1. la responsabilità individuale di trascendere le nostre memorie narrative e prendere parte in un progetto di reinvenzione sociale per il futuro. Si dovrebbe, dunque, fare appello a due punti cardini che costituiscono l’urgenza politica del 21° secolo: la modestia e l’empatia.

2. La responsabilità pubblica come faccenda di stato. Che nasce spesso dalla paura, una paura culturale e nazionale di veder cadere la maggioranza nel cambiamento, nella società ibrida e feconda del nuovo.

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SDA: Lei ha ben delineato questo quadro nei suoi libri: Italia Reloaded. Ripartire con la cultura (Il Mulino, 2011), Italia Revolution. Rinascere con la cultura (Bompiani,2013). Ha compiuto una vera chiamata alla “responsabilità” nell’ambito identitario e culturale italiano. Focalizzando e analizzando la realtà nazionale, contestualizzandola nella situazione internazionale, utilizzando come fonti anche letteratura e cinema, proponendo una scrollata intellettuale nei confronti dell’arrendevolezza e della negatività collettiva, ricordando la violenza politica e ancor più la rimozione storica… Ci parli, a questo punto, del suo ultimo libro, appena terminato. Come procede l’analisi? Quale testimonianza, questa volta, sull’Italia e sul suo contesto identitario e culturale. Come ha articolato questo lavoro?
CC: Il libro che ho appena terminato sviluppa la riflessione iniziata con Italia Reloaded e proseguita con Italia Revolution. Il centro tematico è un’idea possibile di “evoluzione” dell’Italia come comunità, attraverso l’elaborazione immaginaria e culturale. Sintetizzando, sono partito dall’analisi di quelle “interdizioni” – materiali e ancor più immateriali – che caratterizzano il nostro rapporto con il presente e con il passato recente; ho poi indagato i diversi modi in cui oggi l’Italia (e l’immagine dell’Italia) si percepisce all’interno e si proietta verso l’esterno; e ho poi cercato di spiegare che cosa intendo per “evoluzione”, al di là delle retoriche attuali che hanno a che fare con la ripartenza e concentrandomi invece per esempio su un’idea molto nostra di povertà, di umiltà, con una lunga e profonda tradizione che coincide di fatto con la nostra identità sommersa e preziosa.

SDA: La ricostruzione che propone a partire dai suoi libri, contro lo stato di rimozione e amnesia collettiva della propria identità, della propria storia, avviene (anche) a partire da un’analisi che vede la collocazione del singolo, del corpo, nel frammentario, nel fictional che nel caso italiano sono soprattutto letteratura e cinema. “Ogni documento di cultura è nello stesso tempo documento di barbarie” ci ricorda Benjamin. Cosa ne pensa?
CC: Penso che l’immaginario culturale sia l’infrastruttura psichica di una società, e che osservare, analizzare, studiare, interpretare questa infrastruttura sia il compito del critico culturale. L’immaginario è in grado di illuminare tutti gli altri settori (politica, economia, costume), per il semplice fatto che esso influenza e irradia ogni aspetto dell’esistenza individuale e collettiva. L’immaginario culturale è la forma che assume l’atmosfera mentale di un determinato periodo, e che a sua volta influenza comportamenti idee scelte.
All’interno di questa indagine, moltissimo consiste nella precisa e costante “disposizione d’animo” che adottiamo nei confronti della cultura, della sua storia e della sua critica: una disposizione che dovrà essere innanzitutto di tipo narrativo. Si tratta dunque di costruire una forma di saggistica culturale, per così dire, “nervosa”: che sia cioè in grado di intrecciare, fondere in maniera intelligente e orientata alla comprensione di un fenomeno storico dimensioni diverse (storia artistica e culturale, critica, sociologia, autofiction, autoetnografia).

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SDA: In Italia Reloaded, Ripartire con la cultura (Il Mulino, 2011), lei fa riferimento al modello italiano di città dell’arte (Venezia, Firenze, per es.), allo svilimento di esse come espressione articolata e compiuta di una visione “petrolifera” della cultura, di una visione puramente economica e elitaria e/o turistico-simbolica. Quali città italiane, invece, pensa conservino ancora il loro statuto identitario, si presentano come il luogo dove la comunità e i propri cittadini possono ancora riconoscersi e autodeterminarsi, autoprodursi a vicenda?
CC: Direi che si tratta di luoghi una volta considerati come marginali e periferici, ma che per il loro essere estremamente concentrati hanno la capacità di tenere insieme in maniera virtuosa queste dimensioni. Così su due piedi, citerei Matera, che negli ultimi anni sta portando avanti (pur tra mille, forse inevitabili, difficoltà) un grande lavoro di capacitazione e di coinvolgimento della comunità in previsione del 2019, cercando di trasformare le proprie debolezze in punti di forza. Ancora, Senigallia: sul lido di Marzocca di Senigallia si svolge ogni anno nell’arco di una notte di mezza estate uno degli eventi culturali in assoluto più interessanti della Penisola, Demanio Marittimo KM278, a cura di Pippo Ciorra e Cristiana Colli. Due settimane fa, per esempio, sono stato a Narni per la prima edizione del Festival di Sociologia: una cittadina medievale e universitario che non conoscevo, assolutamente incantevole; è un buon esempio come si possa tenere insieme le dimensioni del patrimonio, del paesaggio e della vita collettiva.

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SDA: Qual è per lei l’idea di arte pubblica? Come si caratterizza uno spazio pubblico in cui l’arte possa manifestarsi come immaginario condivisibile in cui riconoscersi e/o soprattutto in cui probabilmente ci si riconoscerà in un futuro prossimo? Ci faccia qualche esempio.
CC: Le città sono prima di tutto esistenze, relazioni umane – non infrastrutture materiali: se la nostra attenzione si focalizza sull’ecosistema, sulla temperatura e sulla qualità di questo ecosistema, ecco che le sue funzioni – e le disfunzioni – ci saltano all’occhio più chiaramente. Chiudere l’arte e la cultura in luoghi deputati, istituzionali, segregarla all’interno di recinti non è mai stata un’opzione salutare, democratica, intelligente: meno che mai in questo momento storico. Proprio l’assenza (la vacanza) momentanea di questi luoghi istituzionali è un’occasione preziosa da cogliere e agganciare: essa è in grado infatti di favorire l’adozione di pratiche (e politiche) radicalmente innovative.
Due gli esempi recenti principali di arte che vive nello spazio pubblico: le Sette Stagioni dello Spirito (2013-’16) di Gian Maria Tosatti e Taranto Opera Viva (2015) di Alessandro Bulgini.
Le installazioni site-specific delle Sette Stagioni costituiscono insieme una megaopera che coinvolge l’intero tessuto urbano di Napoli (un “corpo a corpo con la città”). Essa si condensa sempre in luoghi ex, luoghi affascinanti perché marciti, che hanno avuto una funzione e un’esistenza e adesso non ce l’hanno più: la caratteristica fondamentale di questi lavori è dunque la riattivazione di spazi abbandonati. Ma qui l’abbandono non scompare, non evapora: piuttosto, si cristallizza. Non si tratta di arte didascalicamente sociale, che “fa partire” progetti di vago coinvolgimento comunitario; questa operazione – chirurgica – consiste piuttosto in una dolorosa, spiacevole attivazione del presente: visualizzazione di questo tempo profondo, e sua analisi.
Taranto Opera Viva si è invece sostanziata di una serie di interventi, azioni e attività artistiche multidisciplinari che hanno coinvolto l’intera comunità di Taranto Vecchia: luoghi, identità personali e collettive, aree pubbliche e private, realtà culturali ed economiche (vicoli e postierle; le case delle famiglie; le paranze e i pescatori; le botteghe artigiane e commerciali; gli spazi culturali e associativi) hanno collaborato così a un grande, inclusivo workshop quotidiano. L’intenzione dell’artista è stata dunque quella di relazionarsi fortemente con i residenti e, tramite lo scambio culturale, stabilire relazioni vivide con luoghi e persone, lasciando tracce oggettuali, performative, pittoriche, installative.

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SDA: Considerando l’imperante nomadismo culturale e la spasmodica corsa verso il “tempio” del sistema dell’arte contemporanea e alla sua annessa internazionalità, quali sono i tratti distintivi che lei distingue nell’arte italiana degli ultimi 30 anni?
CC: Credo che l’arte italiana degli ultimi 30 anni – fatte naturalmente le dovute eccezioni – si sia progressivamente rinchiusa all’interno di un recinto che oggi mostra interamente la sua disfunzionalità e le sue crepe. Questo è di certo un processo occidentale e globale (che riguarda il sistema dell’arte e la sua stessa idea), aggravato però nel nostro Paese da criticità strutturali e di lungo corso. In questo momento, il sistema-mondo dell’arte contemporanea, non solo in Italia, soffre di uno sganciamento dalla realtà circostante e dall’esistenza collettiva – che nell’arco di tre, quattro decenni si è fatto sempre più grave. In fondo, se quello che chiediamo all’arte è di attestarsi su alcuni “standard” internazionali, su alcuni gesti riconosciuti e su alcune disposizioni condivise, allora occorre dire che lo spettacolo davanti a noi è perfettamente plausibile. Se invece – come personalmente credo – all’arte, in particolare in questo momento, si chiede di “sporgersi”, di superare il limite e di inoltrarsi in territori inesplorati, anche (e perché no?) pericolosi e scomodi, in ogni caso non confortevoli né prevedibili (ma, su un altro livello, molto rassicuranti), allora ciò a cui assistiamo pone più di un problema in questo senso. Perché, in definitiva, siamo in presenza di uno “stile dell’irresponsabilità” emerso proprio nel momento in cui si richiede il massimo di responsabilità (e di approcci conseguenti).
Detto questo, ciò che vedo è che nell’ultimo decennio sono emerse alcune esperienze che tentano di fuoriuscire da questo steccato, e di elaborare un nuovo linguaggio che si nutre del nostro amore antico per la realtà.

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SDA: Uno o più aggettivi con cui descriverebbe il carattere e lo stile dell’arte contemporanea italiana?
CC: Premesso, come ho detto, che in questo momento di fatto non esiste un’“arte contemporanea italiana”, osservando le esperienze che più mi interessano e a cui attribuisco maggior valore, e volendo accomunarle sotto alcuni aggettivi, direi: umile; vitale; organica; aperta; inclusiva; collaborativa.

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SDA: Ci descrive alcune operazioni interessanti compiute nel panorama della costruzione/immaginazione dell’“italianità”, in campo artistico e letterario.
CC: Negli ultimi anni, molta letteratura italiana – sulla scorta in particolare del Petrolio di Pasolini – inietta nella narrazione potenti dosi di saggio: così per esempio Dies Irae e Italia De Profundis di Giuseppe Genna, Spaesamento di Giorgio Vasta, Qualcosa di scritto e Il popolo di legno di Emanuele Trevi, Resistere non serve a niente e Exit Strategy di Walter Siti, La ferocia di Nicola Lagioia, Muro di casse di Vanni Santoni. È come se questi scrittori – diversissimi tra loro per formazione e approccio – stessero attraverso una sorta di opera collettiva supplendo a una storiografia ufficiale che è piuttosto carente nell’interpretare il passato recente.
Parallelamente, le ricerche visive più interessanti si muovono nel solco di una tradizione consolidata, tentando però sondaggi e carotaggi innovativi di ciò che possiamo definire “italianità”. Penso, in ordine sparso (oltre alle operazioni di Tosatti e Bulgini), al modo in cui un artista come Nero (Alessandro Neretti) riflette nella sua scultura una prospettiva compiutamente “post-apocalittica”, posizionata dopo che la catastrofe si è compiuta: nutrita da una cura, da un’attenzione, da una curiosità per ciò che nasce e viene dopo. Una prospettiva che gestisce intelligentemente le macerie, assemblandole e conferendo ad esse nuova vita. Oppure agli interventi intelligenti e ironici di Roxy in the Box nel tessuto di Napoli e dei suoi bassi. O ancora, al modo in cui un progetto articolato come The Third Island, curato dal fotografo Antonio Ottomanelli, riesca a restituire in maniera molto ambiziosa, complessa e sfaccettata l’identità di un luogo misterioso e simbolico come la Calabria.

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SDA: Paesaggio italiano.
CC: Anche la riflessione sul paesaggio, oggi, implica necessariamente un’indagine della sua dimensione sociale e politica. L’Italia non è semplicemente un luogo geografico, ma anche e soprattutto – come sempre, del resto – uno spazio mentale. E come tale gli artisti migliori delle ultimi decenni lo stanno impiegando, descrivendo, usando. Il paesaggio italiano è spettrale, degradato, sfuggente, inafferrabile, evanescente, inabitabile: ma proprio per questo, interessante. Come con il neorealismo, anche in questi anni il cinema rivela aspetti in gran parte inediti. Si pensi solo al Matteo Garrone di Gomorra (2008) e del sottovalutato Reality (2012: finora, il suo capolavoro). D’altra parte, negli ultimi anni qualche anno, ormai, una parte cospicua produzione culturale italiana – visiva e letteraria – si concentra sulle rovine contemporanee e sui luoghi desolati che costellano l’Italia (uno degli esempi più recenti: Effetto Domino del padovano Romolo Bugaro, pubblicato da Einaudi). È come se artisti, scrittori, studiosi percepissero un’affezione, un legame stretto e intimo tra l’atmosfera di questi luoghi e l’atmosfera del nostro spazio interno: assistiamo così alla raffigurazione e alla materializzazione del mood generale, del clima psichico che caratterizza profondamente la nostra società.

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SDA: Si è appena concluso Il progetto La prima notte di quiete, intervento all’interno di ArtVerona. Un’alternativa di produrre meccanismi e atti artistici fuori dal centro storico, immersi, invece, in un contesto identitario molto forte in cui la stessa operazione artistica si integra e mimetizza, secondo lo “spirito dello spazio”.
Ci vuole parlare di questo progetto e di MyHomeGallery? Quest’ultimo sembra configurarsi come un’alternativa intelligente alle dinamiche di AirB&b, che non a caso è stato bersagliato da numerosi artisti da Berlino a Los Angeles, in quanto complice, inevitabilmente, di fenomeni di gentrificazione. Cosa propone in termini di alternativa sociosimbolica ed economica MyHomeGallery?
CC: Un effetto che non manca mai di stupirmi, per la sua resistenza, è la qualità respingente raggiunta in generale dagli spazi artistici nei confronti degli spettatori: gallerie, musei, istituzioni emanano una temperatura gelida, che costruisce e sviluppa il disagio, fa sì che quando si visita una mostra – o comunque un luogo in cui siano esposte “opere”: un luogo cioè qualificato mentalmente e socialmente come “sistema-artistico”, “dominio-e-territorio-dell’arte” – non lo si percepisca quasi mai come familiare.
MyHomeGallery si inserisce in quei tentativi che stanno man mano, negli ultimi anni, prendendo corpo per ricostruire e recuperare un’atmosfera confortevole, calorosa, umana – in questo caso attraverso l’apertura degli spazi privati degli artisti, la loro messa in rete e il concetto di “esperienza”. Si tratta di articolare il rapporto tra gli artisti, il presente, il territorio e il contesto in cui vivono, operano, conducono la loro esperienza; e di offrire ai visitatori l’opportunità di crescere come comunità attiva e collaborativa.
In particolare, La prima notte di quiete (progetto selezionato nel format 17 spazi indipendenti, che si è svolto dal 14 al 16 ottobre in via XX settembre a Veronetta come evento off di ArtVerona) ha coinvolto 11 artisti in 11 spazi non istituzionali, 11 luoghi identitari del quartiere, ed è stata un’esperienza composta da opere-nonopere, interventi azioni e oggetti che si sono mimetizzati con il contesto e con la vita quotidiana. Il visitatore ha avuto la possibilità dunque di entrare in relazione con le riflessioni attivate da queste azioni quasi indistinguibili – in un certo senso – dall’esistenza normale. Un sistema espositivo non tradizionale dunque, pensato come un ecosistema in cui le opere hanno avuto la possibilità di vivere e di crescere, orientate da alcuni criteri-guida come la condivisione, l’accoglienza, la collaborazione, la concentrazione estrema nel tempo e nello spazio e l’idea di comunità.
Perché visitare una città non significa necessariamente percepirla in senso turistico. I nostri spazi urbani possono ancora essere ecosistemi preziosi, a patto di essere disposti a diventare “cittadini temporanei” di quei luoghi, facendo in modo cioè che questa esperienza culturale non sia parte di un “tempo libero” sganciato dalla normalità, ma che diventi parte integrante della nostra identità in movimento.

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Christian Caliandro (Mottola, 1979) è uno storico dell’arte italiano; ha conseguito il diploma presso la Scuola Normale Superiore e si è laureato a Pisa. É studioso ed esperto di politiche culturali. Insegna presso l’università IULM di Milano ed è autore di pubblicazioni nell’ambito dei Cultural Studies, come La trasformazione delle immagini. L’inizio del postmoderno tra arte, cinema e teoria, 1977-1983 (Mondadori Electa 2008) e, con Pier Luigi Sacco, Italia Reloaded. Ripartire con la cultura (Il Mulino 2011), “Italia Revolution. Rinascere con la cultura” (Bompiani, 2013). Collabora regolarmente con Artribune (per cui è autore di una serie di rubriche), con “minima&moralia”, “alfabeta2”, “doppiozero”.

Sonia D’Alto è una storica dell’arte, laureatasi a Napoli. Il suo percorso è molto classico, ma da qualche anno si è avvicinata al contemporaneo. Ha fatto ricerca tesi per il progetto finale del master a Vienna, sviluppando una tesi in estetica sulla performance live e quella mediata e dove ha affiancato ai suoi studi teorici anche la partecipazione al corso di Performance Art presso l’Akademie der Bildenden Kunst Wien e la partecipazione a due mostre. Ha preso parte nel 2014 alla Scuola Conia, di Claudia Castellucci. È stata tirocinante presso istituzioni e gallerie artistiche (Fondazione Morra; Galleria Alfonso Artiaco) Collabora con Artribune. È editrice associata ad una rivista semestrale di arte contemporanea francese, CODE SOUTH WAY, e si occupa della produzione artistica nel progetto di residenze ad esso associato. (http://codesouthway.tumblr.com/). Attualmente sta preparando un progetto di dottorato.