Gettare il corpo nella lotta
Il corpo come arma
di Francesca Blandino

L’uomo è malato perché è mal fatto.
Bisogna decidersi a metterlo a nudo per raschiargli via quell’animalculo che gli prude mortalmente,
dio e con dio,
i suoi organi.
E legatemi se volete,
ma non c’è nulla di più inutile di un organo.
Quando gli avrete fatto un corpo senza organi,
lo avrete liberato da tutti i suoi automatismi e reso alla sua autentica libertà.
Allora gli insegnerete di nuovo a danzare all’inverso
come nel delirio delle balere
e l’inverso sarà il suo autentico luogo
Antonin Artaud1.

Judith Malina
Six Public Acts
Amiens 1978

Il corpo è l’origine del tutto. La scrittura del mondo si costruisce nella dimensione dei corpi, costruiti, modificati, rifiutati, esibiti, mutilati, riprodotti, portatori di un destino di libertà che crea il reale e il modo di viverlo, in una continua asimmetrica organizzazione dell’esperienza. Il corpo è attorno, dietro, dentro: è irrimediabilmente qui, mai altrove2, e come realtà permette all’esperienza del soggetto di costituirsi. “Il corpo è il nostro mezzo generale per avere un mondo”3, affermava Merleau-Ponty. Non è solo un involucro, come la tradizione filosofica occidentale ha asserito per secoli proponendo la divisione dell’individuo in due elementi distinti: corpo e anima. Da Platone a Socrate, fino ad arrivare a Kant e allo spirito della ragione, l’anima diviene metafora dell’immortalità e fautrice della morte del corpo4. Che sia l’anima imprigionata nel corpo o viceversa, sono le teorie, le ideologie e i postulati a controllare i corpi, prescrivendo le modalità della loro regolamentazione nella società. La consapevolezza di possedere un corpo e della sua condizione di sottomissione a un’autorità diffusa che lo manipola ma allo stesso tempo lo rende luogo dell’esistenza, entra nella sperimentazione artistica del Novecento. A partire dalla seconda metà del secolo il corpo assume le potenzialità di un nuovo linguaggio, di un medium in grado di produrre processi di significazione e cambiamento. Il corpo dell’artista diviene visibile e luogo d’incontro tra pubblico e privato, il cui uso si cala in azioni di impianto teatrale e performativo, avvicinandosi all’happening e in polemica con le rigidità delle convenzioni di una società asservita al mercato e al culto dell’immagine. Il Living Theatre, compagnia teatrale sperimentale nata a New York nel 1947 ad opera del pittore e poeta Julian Beck e della regista e attrice Judith Malina, mette in scena un teatro di strada che sceglie l’impegno attivo per modificare l’esistente e lo attua gettando il corpo nelle rivolte studentesche, contro le barricate, nelle manifestazioni popolari. Il teatro di strada, diffusosi soprattutto negli anni settanta come pratica artistica e politica, ha tentato di dare consapevolezza a fermenti politici estemporanei offrendo strumenti per l’uso pubblico della piazza e della città, proponendo cambiamenti e progettando nuovi scenari all’interno del vissuto quotidiano. Da questo punto di vista il percorso del Living Theatre è particolarmente significativo di una proposta estetica dove prassi politica, artistica ed esistenziale diventano un tutt’uno e si pongono esplicitamente come obiettivo la trasformazione della società e dell’uomo attraverso tecniche di rappresentazione che vanno dallo psicodramma al teatro di strada, rielaborando meccanismi della comunicazione mutuati dalla tradizione religiosa e rituale orientale, africana e latino-americana. Il teatro si muoveva allora verso un teatro-azione, mettendo in scena una serie di performance da recitare per strade, mercati, piazze, fabbriche, metrò, scuole, vetrine, parchi, con lo scopo di cambiare gli assetti sociali della città e condurre la gente all’azione. L’avventura teatrale del Living Theatre sembrava non fosse più teatrale, ma politica. Tutto ebbe inizio con la rappresentazione di Paradise, Now! dopo il maggio del ‘68, con l’invito ad abbandonare i luoghi deputati al teatro e a scendere per le strade, cui fece seguito la scelta del nomadismo e del lavoro presso comunità e territori senza teatro come le favelas brasiliane o i quartieri proletari di Brooklyn.

Living Theatre
Paradise, Now!
Parigi 1968

Trasmettendo la “Dichiarazione di azione”, nel gennaio del 1970, il gruppo annunciò che si sarebbe diviso in quattro cellule per operare “una sorta di decentralizzazione di ispirazione anarchica”, che evitasse il rischio dell’istituzionalizzazione. Il gruppo di cui facevano parte Julian Beck e Judith Malina, interessato al teatro politico, si stabilì inizialmente a Parigi per poi spostarsi in Brasile; altri, che andavano in direzione dello spiritualismo, si diressero verso l’India; un gruppo andò a Londra per dedicarsi alla creazione di eventi multimediali; un altro, orientato all’environmental theatre, si stabilì a Berlino, ma questi ultimi due gruppi si sciolsero presto. Si recitava nei luoghi più disparati, come davanti a carceri e manicomi. Il pubblico del Living Theatre non era composto solamente da persone che conoscevano il teatro, era un gruppo variegato di persone che di volta in volta veniva catturato dalla presenza in città della compagnia e si riconosceva in una dimensione collettiva, quasi si trattasse di un’assemblea o una processione. La tecnica teatrale non era assente, tutt’altro; il Living si proponeva di creare nuove forme di espressione e comunicazione sempre con i metodi del teatro5. Il corpo, fisicamente nella comunicazione e nella rappresentazione estetica, agiva in maniera nuova, con tecniche di improvvisazione, di espressione gestuale e di laboratorio, in cui diventava mediatore di conoscenza, in uno spazio di congiunta fisica con lo spazio dello spettatore e in un tempo per entrambi sincrono. Il teatro appariva come un luogo privilegiato per la fusione dell’arte e della vita. Con lo scopo di trasformare la struttura burocratica-autoritaria-poliziesca, si uscì dal luogo-teatro, considerato una trappola architettonica, e si scese in strada. Si creò l’azione, la più alta forma di teatro, per trovare nuove forme in cui l’arte potesse servire le esigenze del popolo. «Sta arrivando la rivoluzione. Le forze si stanno riunendo, e il potere è fra quelli che non accettano il pesante e insoddisfacente schema di vita proposto dalla società contemporanea»6, scriveva Julian Beck nella rivista di letteratura sperimentale Evergreen Review, fondata da Barney Rosset nel 1957 con intenti politico-culturali. L’opera teatrale più emblematica del Living Theatre è probabilmente Paradise, Now!, nata nel contesto sessantottino e ispirata all’idea utopica della “Bella Rivoluzione Anarchica Nonviolenta”. Paradise, Now! è concepito come un percorso politico spirituale sulla strada che conduce alla rivoluzione, un percorso a tappe sull’esempio dei rituali religiosi, dove la liberazione di tutti gli uomini rappresenta l’ultimo gradino, da attuarsi, di una scala simbolica verso la rivoluzione. Nell’opera confluiscono atteggiamenti ideologici e suggestioni mistiche che danno un respiro cosmopolita e spirituale al programma rivoluzionario. Al pubblico veniva distribuita una mappa in forma di diagramma per intraprendere un viaggio ascensionale verso la Rivoluzione Permanente. La scritta The Plot is Revolution compariva alla base del diagramma e ben restituiva l’idea di trama, intreccio/tessitura resistente, che, come orditura accoglie, tenta di creare una comunità di dialogo e performatività trasversale fra le arti, ponendosi all’ascolto delle trasformazioni in atto per immaginare nuovi possibili scenari. Il Living Theatre indicava quale fosse la strategia da perseguire per penetrare e conquistare il paradiso, una società libera dalla schiavitù del denaro. Fondamentale per poter intraprendere il viaggio era l’uso del corpo, dell’attore e dello spettatore. Il corpo, stato d’essere di sensazioni plurime, era indagato sin dalle viscere. Il teatro intellettuale di matrice shakespeariano era messo al bando dal teatro della crudeltà di Artaud; era un’invocazione ai sensi e alla creazione di eventi crudeli che toccassero gli spettatori nel profondo della carne. «Allora, una volta che si è provata qualche sensazione, altre porte si schiuderanno al corpo del sentimento e, offesi fisicamente nel dolore provato a teatro, gli spettatori fisici non saranno più capaci di tollerare il dolore intorno nel mondo al di fuori del teatro, e la rivoluzione esploderà in azione»7. Prima di Paradise, Now!, il dramma del dolore fu esplorato con l’opera The Brig, presentata per la prima volta al PlayHouse di New York nel 1963, teatro che Julian Beck e Judith Malina avevano inaugurato quattro anni prima e che chiuse proprio con la produzione di The Brig, portando agli anni dell’esilio europeo, segnati dal nomadismo e dalla vita in comunità. Kenneth Brown scrisse il testo di ritorno dal servizio militare svolto in una base dei Marines in Giappone, dove era stato internato, per motivi disciplinari, dentro un campo di prigionia, The Brig appunto. Egli ricostruì in dettaglio una giornata tipo del campo: le guardie, i prigionieri, la disposizione fisica della prigione e, soprattutto, la routine quotidiana, fatta di atti, gesti, punizioni e ripetizioni ossessive. Brown prese tutti questi elementi e ne fece un dramma in due atti. Non raccontò la giornata dei prigionieri all’interno del campo drammatizzandola attraverso il racconto del loro vissuto personale, ma di quella giornata fornì una fotografia fredda, impersonale e spietata. Di fatto in The Brig non succede nulla, non in senso aristotelico. Non c’è inizio né fine, né una logica evolutiva interna, ma una serie di situazioni accostate tra loro, riproducenti minuziosamente la ritualità ossessiva e spersonalizzante che caratterizza ogni singola fase della giornata ed ogni singola attività dei prigionieri: alzarsi, andare al bagno, fumare, rifarsi il letto e ancora ripulire la prigione, farsi perquisire, ecc. Ciò che accade è esattamente ciò che accade. Nient’altro.

Living Theatre
The Brig
Dal film The Brig di Jonas Mekas, 1964

The Brig rappresentò un modo per mettere in relazione teatro e realtà, una strategia per un realismo estremo, che superasse la dialettica di segno e oggetto tipica del realismo convenzionale e cercasse, invece, di attivare un corto circuito che fosse in grado di far esplodere dall’interno la convenzione rappresentativa. The Brig è un dramma costruttivista, dove lo scenario è l’azione, dove la costruzione della scena detta e guida l’azione, rappresentando in senso più vasto il nucleo repressivo dell’intera struttura sociale. Il corpo-macchina dei soldati non è un attore fantoccio, bensì un attore in grado di reintegrare la sua dimensione psicofisica nella ritrovata connessione di corpo e mente. E’ un corpo senza organizzazione e grazie a ciò assolutamente libero e fluttuante; è il corpo senza organi di cui parlava Artaud, in quanto non organizzato e non organico ovvero non funzionale: esso è il desiderio stesso come riserva di produttività sempre pronta a generare nuove connessioni, rivoluzionando l’esistente in nome di un corpo ancora da fare e sempre in divenire. Nel teatro “onesto” del Living Theatre, il processo rivoluzionario parte dal corpo perché è in esso che si addentra il potere. «Quando il pubblico saprà conoscere la violenza alla chiara luce della parentela della nostra empatia fisica, uscirà dal teatro e trasformerà tale male nel bene che ha trasformato le Furie nelle Eumenidi. Se il pubblico vede la violenza solo nella luce cupa del western d’orrore da Tv, uscirà di casa con un fucile sottobraccio. La violenza è il luogo più cupo che esista. Illuminiamolo. In quella luce ci troveremo di fronte alle dimensioni della Struttura, ne troveremo la chiave di volta, capiremo su quali fondamenta si regge, ne localizzeremo le porte. Allora ne penetreremo i catenacci e apriremo le porte di tutte le prigioni»8. Il corpo dunque è la chiave per individuare le caratteristiche del dominio e decostruirle. Il potere non si limita a reprimere, al contrario, disciplinando, produce postulati. Il corpo però non è sempre malleabile, oppone resistenza9. La straordinaria battaglia compiuta dal Living Theatre contro le forme tradizionali del teatro e contro le strutture del potere, sperimentata sul corpo, ha messo in gioco codici sociali e culturali, gesti, comportamenti, atteggiamenti. Contro il corpo analizzabile e manipolabile prodotto dal potere, il Living recupera il fascino del rito collettivo attraverso la consapevolezza di possedere un corpo come campo di possibilità e non come destino biologico. E’ nella dimensione immateriale delle reti che il corpo senza organi potrebbe nascere, un corpo virtuale certo, purché non perda la capacità di attualizzarsi e di tradursi in carne. Eppure la contemporaneità si muove in direzione di negazione, smaterializzazione e liquidità. Nell’era virtuale, in cui l’uomo viene messo biologicamente in discussione dalla nuove tecnologie, la corporeità perde di consistenza in favore di un’essenza fluida e silenziosa. Il concetto di liquidità, teorizzato dal sociologo polacco Zygmunt Bauman, esprime la difficoltà dell’uomo contemporaneo di ancorare il corpo all’esperienza, essendo tempo e spazio divenuti estremamente veloci nel modificarsi e anestetizzati dalle tecnologie10. Uomo e macchina si ibridano e il corpo viene percepito come qualcosa di sempre meno naturale e vivente, ciò nonostante nell’arte lo si continua a muovere, a scuotere, a renderlo teatrale e a portarlo al limite. Assecondare la desensibilizzazione prodotta dalle tecnologie, porta il corpo ad allontanarsi dal suo ruolo di mediatore tra mondo e soggetto, cambiando la modalità dell’être-au-monde e il concetto di libertà. Se l’uomo abita corporalmente lo spazio e il tempo, allora il corpo non può non essere percepito come essere fisico e persona insieme, in quanto è soltanto attraverso di esso che l’uomo costruisce il suo mondo e la sua esperienza di essere libero per sé e per gli altri. Il corpo è un atto di libertà, è l’unica arma per il libero arbitrio.

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1 Dotti M., a cura di, Per farla finita col giudizio di Dio /Antonin Artaud, Stampa alternativa, Roma, 2001
2 Foucault M., Il corpo, luogo di utopia, Nottetempo, Roma, 2008
3 Merleau-Ponty M., Fenomenologia della Percezione, Bompiani, Milano, 2005, p. 124
4 Galimberti U., Il corpo, Feltrinelli, Milano, 1987
5 Valenti C., Storia del Living Theatre. Conversazioni con Judith Malina, Titivillus, Corazzano, 2008
6 Quadri F., a cura di, Julian Beck e Judith Malina. Il lavoro del Living Theatre (materiali 1952-1969), Ubulibri, Milano, 1982
Op. cit. pag. 246
8 Op. cit. pag. 95
9 Foucault M., Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1982
10 Bauman Z., Modernità Liquida, Laterza, Roma-Bari, 2003

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Francesca Blandino nasce a Benevento nel 1986. Specializzata in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, sviluppa un interesse per le pratiche artistiche rivolte al sociale. Nell’anno 2012-13 frequenta il Master in Curatore Museale e di Eventi Performativi presso lo IED (Istituto Europeo del Design) di Roma, per approfondire le dinamiche curatoriali legate all’arte contemporanea. Ha lavorato presso la Fondazione Morra – Museo Hermann Nitsch di Napoli e la galleria T293 Napoli.