Sensory Hiatus
Hi-tech food: Il design e i processi del cibo, dalla rivoluzione sensoriale verso nuove possibilità tecnologiche
di Giangaspare Mingione

Introduzione

Il plusvalore dell’esperienza percettiva, già a partire dagli anni settanta, è stato largamente riconosciuto dall’avvento della «rivoluzione sensoriale» (Branzi, 1992) che aveva gradualmente superato le posizioni della cultura razionalista del Movimento Moderno, evidenziando l’importanza delle qualità intangibili e immateriali nel progetto. In questo contesto perde di valore l’occhio, «strumento e simbolo illuminista della capacità di indagine profonda dei fenomeni» (La Rocca, 2010: 118), a favore dell’orecchio, «strano ed enigmatico organo perennemente aperto verso l’esterno» (Branzi, 1992), che insieme al resto dei sensi ‒ «strumenti percettivi inferiori, inaffidabili, sostanzialmente oscuri» ‒ diventa una inconsueta lente attraverso cui leggere il mondo.

Per il design, svincolato dal rigido binomio forma-funzione, inizia così una fase di sperimentazione in cui il progetto si apre a nuove strade indagando la sfera «emozionale»1 (Vercelloni, 2014). A partire dagli anni sessanta si «rivaluta la possibilità di esistenza degli strumenti a contatto con una certa atmosfera psichica o culturale, a carattere magico o razionale»2 (Sottsass, 1962) ribaltando l’inadeguatezza del linguaggio industriale della modernità che aveva generato un mondo di oggetti senz’anima, dove «tutto ci fissa con sguardo vuoto»3 (Bloch, 1909). Nel panorama contemporaneo «la rivendicazione di una dimensione più libera del design e la possibilità di guardare […] secondo una miriade di piani di lettura» (La Rocca, 2016: 161) ha condotto alla rarefazione dei confini e dei limiti stessi del progetto, innescando nuovi e inconsueti dialoghi tra discipline apparentemente lontane.

Il processo della produzione e del consumo del cibo ‒ generatore per eccellenza di «informazioni accessorie» (Branzi, 1992) ‒ si presenta infatti come un sistema bipolare, simultaneamente ancorato alla tradizione e attratto dal rigore scientifico. L’aforisma «io mangio roastbeef» (Loos, 1908), che rappresenta la filosofia di Adolf Loos e la sua battaglia all’ornamento superfluo, probabilmente ha segnato l’avvento di un certo rigore razionale anche in ambito alimentare4. Infatti dall’inizio del Novecento, la produzione degli alimenti, prima esclusivamente artigianale, viene tradotta in ambito seriale trasformando e aumentando le potenzialità del cibo come prodotto di consumo di massa (figg. 1/1.1). Le nuove forme di sviluppo e progresso tecnologico hanno supportato l’avanzare delle sperimentazioni in campo alimentare, proiettando scenari futuribili sul tema della nutrizione.

Lernert & Sander, Cubes, in «de Volkskrant», 2015.
Il quotidiano olandese ha commissionato ai due artisti uno scatto per uno speciale fotografico a carattere documentario chiamato Food. Lernert & Sander hanno trasformato alcuni alimenti non lavorati in cubi perfetti di 2,5 x 2,5 x 2,5 cm, realizzando una griglia perfettamente organizzata.

Lernert & Sander, Cheese, in «de Volkskrant», 2015.
I due artisti hanno riproposto la minimale griglia geometrica per un nuovo speciale fotografico del quotidiano olandese ispirato al tema Dutch Stories. Lernert & Sander hanno trasformato 72 formaggi olandesi in cubi perfetti di 2,5 x 2,5 x 2,5 cm.

Hi-tech food design

Avvalersi di soluzioni tecnologiche sofisticate per la produzione di cibo, rappresenta una tendenza in continua crescita, definita efficacemente dal neologismo Hi-tech food. Il design rappresenta una componente importante di questo fenomeno sia per la crescente attenzione al settore alimentare che per l’approccio creativo verso il trasferimento tecnologico. Questo trend si muove in un contesto eterogeneo di competenze, dove il design si colloca come interprete tra la tradizione e le nuove possibilità offerte dal susseguirsi delle innovazioni incrementali, facendo leva su un lavoro sinergico e interdisciplinare, in particolare con i settori biologico-scientifici5.

Douenias & E. Frier, Living Things, 2015.
L’installazione, in mostra al Mattress Factory di Pittsburgh (maggio 2015 – aprile 2016), prende in esame l’idea di vivere in simbiosi con microrganismi, come l’alga spirulina, attraverso tre scenari differenti dell’ambiente domestico.

Douenias & E. Frier, Living Things, 2015.
L’alga spirulina, una specie appartenente alla classe dei cianobatteri, rinchiusa in scenografiche ampolle di vetro trasparente, «ricicla la luce, il calore e l’anidride carbonica indoor in una biomassa verde molto ricca dal punto di vista nutrizionale che può essere consumata come alimento, utilizzata come fertilizzante in agricoltura, o convertita in biocarburanti».

H. Grievink & K. van Mensvoort, The In Vitro Meat Cookbook. 45 Lab grown meat recipes you can not cook yet, BIS Publishers B.V., Netherlands 2014. Un libro di ricette unico poiché nessuna delle pietanze proposte, a base di carne sviluppata in vitro, può essere cucinata o almeno «non ancora».

Grievink & K. van Mensvoort, The In Vitro Meat Cookbook. 45 Lab grown meat recipes you can not cook yet, BIS Publishers B.V., Netherlands 2014. L’artista van Mensvoort rivolgendosi non solo ai «meat lovers» ma anche ai vegetariani ricorda quanto sia «necessario parlare del futuro della carne. Con la popolazione mondiale che dovrebbe raggiungere nove miliardi di persone entro il 2050, diventa impossibile produrre e consumare carne come facciamo oggi».

Interazione e astrazione. Il design tra Aventures Sensibles6 e natura artificiale

Il design, pur incoraggiando un ritorno alla dimensione sensoriale attraverso diversi interventi progettuali, è approdato ‒ sconfinando in settori tecnologicamente avanzati ‒ a significative sperimentazioni in ambito alimentare aprendo le vie per una specifica ricerca nel settore. L’applicazione più nota e ormai diffusa su larga scala di questo trend è probabilmente la stampa 3D, che ha condotto all’affermarsi dell’autoproduzione degli alimenti, consentendo di veder modellato layer by layer il proprio pasto, al pari di un manufatto.

Nel 2015 con l’ausilio di questa tecnologia lo studio Nendo realizza la collezione Chocolatexture, disegnata da Oki Sato per Maison & Objet, composta da nove tipi di cioccolatini, tutti dalla forma cubica e della stessa dimensione di ventisei millimetri.  Ognuno di essi è caratterizzato da un preciso disegno scultoreo fortemente evocativo sotto il profilo dei sensi, con elementi appuntiti, interni cavi e textures superficiali lisce o ruvide.

In quest’ottica l’utente acquisisce piena consapevolezza non solo dell’aspetto estetico-formale del cibo ma anche dei relativi valori nutrizionali.

Il design, spinto da motivazioni di natura ecologica, non si limita esclusivamente a uno studio stilistico del cibo ma indaga anche sull’ottimizzazione del packaging, affinché non diventi un rifiuto ma esso stesso possa essere considerato un alimento. Emblematico il progetto Ooho di García González, una bolla d’acqua commestibile e biodegradabile, costituita in prevalenza da alghe brune e cloruro di calcio. Un’idea che permetterà di assumere insieme al liquido anche le sostanze nutritive contenute nella confezione. L’uso di alghe in ambito alimentare è ipotizzato anche dal progetto Living Things (figg. 2/2.1) di Jacob Douenias e Ethan Frier, in cui questi organismi adagiati in ampolle di vetro trasparente oltre a essere consumati come nutriente, producono luce mediante il fenomeno della bioluminescenza. Il ricorso alla categoria del «vivente» (La Rocca, 2016: 84) attraverso l’uso di processi presenti in natura poi sublimati alla scala del progetto rappresenta, infatti, una caratteristica rilevante dell’Hi-tech food. La designer Katharina Unger, ad esempio, in collaborazione con l’Università di Utrecht, ha realizzato il progetto Fungi Mutarium, un piccolo sistema in cui particolari tipi di funghi ‒ della specie Pleurotus ostreatus e Schizophyllum Comune combinati con l’alga agar-agar decompongono materiali di scarto trasformandoli in cibo.

In relazione al tema delle sperimentazioni di nuovi alimenti a elevato contenuto tecnologico è fondamentale, per comprendere le possibili direzioni progettuali, citare il processo della coltura in vitro dei tessuti animali, un fenomeno sviluppatosi a seguito delle continue polemiche riguardanti le proprietà cancerogene della carne. Grievink e Van Mensvoort propongono The In Vitro Meat Cookbook (figg. 3/3.1), un libro di cucina che rivaluta la carne come alimento innovativo, ipotizzando la sua crescita in vitro, approdando a territori culinari finora inimmaginabili. In questo contesto ritorna, inaspettato, il tema della «riproducibilità tecnica» (Benjamin, 1935) di Walter Benjamin, ma a destare critiche e perplessità non è più l’opera d’arte bensì il cibo.

Pnat, Università di Firenze, Studiomobile, Jellyfish barge, 2015. Jellyfish barge è una serra modulare galleggiante provvista di un sistema di coltivazione idroponica ad alta efficienza che permette la produzione di ortaggi. L’acqua necessaria per le coltivazioni è estratta grazie a un distillatore, anche a partire da liquidi salati, salmastri o inquinati. Il fabbisogno energetico è soddisfatto da energie rinnovabili.

Pnat, Università di Firenze, Studiomobile, Jellyfish barge, 2015. Il progetto non ha alcun impatto sulle risorse ambientali ed energetiche esistenti nella città, «espande semplicemente la capacità dell’ambiente urbano di fornire lavoro, opportunità economiche, relazioni sociali e qualità urbana».

I dilemmi dell’onnivoro7

Il primo hamburger in vitro, creato dagli scienziati della Maastricht University in Olanda guidati dal Prof. Mark Post, è stato mangiato a una dimostrazione per la stampa a Londra nel 2013, dividendo l’opinione pubblica. La corrispondenza tra l’utopia ecologica e quella tecnologica ha generato la convinzione che la carne in vitro ‒ estranea ai processi di abbattimento e alle violenze sugli animali ‒ sia meno criticabile rispetto a quella ottenuta tradizionalmente. L’idea di nutrirsi di tessuti biologici che non si siano sviluppati naturalmente, appare ancora prematura al punto da non essere considerata sufficientemente rassicurante.

Si vanno definendo così nuovi scenari, protesi verso un potenziale innalzamento qualitativo del settore food, che aprono a una serie di interrogativi di natura etica e culturale. Infatti per quanto possa sembrare controverso cibarsi di tessuti animali coltivati in vitro, è importante sottolineare l’elevato controllo qualitativo possibile con queste tecnologie.

In un mondo diventato un «supermercato dell’iperofferta» (Lanzavecchia, 2000: 19), a mutare non sono solo i cibi ma anche i loro processi produttivi, a causa dell’aumento delle problematiche eco-ambientali. L’inquinamento della falda e del sottosuolo ha segnato fortemente tutto il settore agricolo. Viene introdotta infatti in questo scenario la coltivazione idroponica che non prevede l’uso del terreno, sostituito invece da miscele nutritive disciolte in acqua. Un caso significativo dell’impiego della coltura fuori suolo nel design è rappresentato dalla Jellyfish Barge (figg. 4/4.1) ‒ un’unità produttiva galleggiante autosufficiente, grazie a pannelli fotovoltaici e a sistemi che sfruttano il moto ondoso ‒ realizzata dal gruppo PNAT ed esposta a Expo 2015 a Milano. La serra ospita diverse specie vegetali e garantisce un risparmio del 70% di acqua rispetto alle colture tradizionali, evitando il consumo di suolo. Gli ortaggi vengono così sradicati dal loro ambiente originario. In molti casi le eccellenze agroalimentari sono legate proprio a fattori come la latitudine, la temperatura, il terreno e più in generale a caratteristiche geomorfologiche. Tali variabili, che donano un particolare sapore e conferiscono precise caratteristiche agli alimenti, vengono in questo modo escluse dai processi produttivi. L’accettazione acritica di nuove soluzioni guidate dal progresso scientifico rischia di favorire la standardizzazione di sapori, odori e sensazioni.

Il cibo inteso come cultural heritage, quindi «con precise localizzazioni e valori tangibili» (Tamborrino, 2017: 167), diventa portatore di un significativo valore identitario amplificato e tutelato attraverso «processi di territorializzazione» (Lupo, 2013: 83). In quanto “bene culturale”, il cibo acquista un considerevole potere evocativo delle esperienze passate sinteticamente definito da Proust, in un’intervista del 1913, come memoria involontaria. Questo processo è efficacemente descritto dalle stesse parole dello scrittore: «retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè […] e all’improvviso il ricordo è davanti a me» (Proust, 1913). Gli alimenti e le relative proprietà sinestetiche ‒ oltre a rappresentare reminiscenze del passato ‒ ricoprono un ruolo decisivo come fattori di mediazione culturale, diventando così strumenti atti a promuovere «reti di relazioni» e più in generale «dinamiche sociali che costituiscono altrettante sfide» (Travaglini, 2017: 20). Il contributo del design in questo contesto diventa rilevante nella progettazione complessiva di un sistema in grado di ibridare culture e linguaggi diversi, tentando così di conciliare le contraddizioni esistenti senza azzerarle.

Claret, Birds Crumbs, 2003.
Il designer spagnolo con il suo progetto reinterpreta uno dei gesti più comuni come affettare il pane, facendo in modo che «le briciole cadano in un imbuto collegato ad un tubo che porta a una mangiatoia fuori dalla casa, affinché gli uccelli possano venire e mangiare liberamente».

Prospettive

I grandi interrogativi finora presi in esame tracciano nuovi scenari che inevitabilmente puntano a mettere in discussione e a (ri)definire il ruolo del design, superando eventuali crisi d’identità. La tendenza progettuale ad affiancarsi e a collaborare con discipline scientifiche ha veicolato il progetto verso la ricerca di una nuova vita, tesa non solo alla produzione dell’oggetto ma al reinventare strumenti, processi e nuove pratiche inglobando così competenze sempre nuove.

Il design rincorrendo la tecnica rischia di trasformare l’oggetto in un’entità nuovamente ancorata al rapporto tra forma e funzione, isolata rispetto a un livello profondo di «relazioni misteriche e animiste» (Branzi, 2007). La vasta riflessione sul progetto non deve esaurirsi nel disegnare forme e colori di tessuti biologici cresciuti in vitro oppure nell’elaborare packaging edibili e integrati con l’alimento ma essere un invito a immaginare nuovi scenari possibili in grado di rielaborare, dove necessario, la tradizione (fig. 5).

In questa profonda ambiguità al design spetta il compito di dar voce alla «necessità di semantizzazione» (Dorfles, 1996: 131) attraverso la riscoperta di una funzionalità non soltanto pratica ma anche psicologica, in modo che l’oggetto possa essere decriptabile e chiaramente significativo.

Si potrebbe quindi incorrere nel rischio di ridurre il design a un espediente volto esclusivamente a «lubrificare l’automatismo» (Sottsass, 1962) di un processo e di scelte già prese altrove. Onde evitare un approccio riduzionista, basato soltanto sul dare un’estetica a nuove funzioni derivate da scoperte scientifiche, sarebbe interessante seguire ed enfatizzare nel progetto soluzioni sensoriali, sinestetiche, spirituali per evitare di cedere alle superficiali interpretazioni di un design senza pensiero (Branzi, 2009).

1 cfr. Design, mercato globale e nuova semplicità in Vercelloni M., Breve storia del design italiano, Carocci editore, Roma 2014. Sul tema del design “emozionale” vedi Forman D. A., Emotional Design, Basic Books, New York 2004.
2 Sottsass E. Jr., Design, in «Domus», n. 386, gennaio, 1962.
3 Bloch E., La freddezza tecnica (1909) tratto da Maldonado T., Tecnica e cultura, Il dibattito tedesco tra Bismarck e Weimar, Feltrinelli, Milano 1991.
4 F. T. Marinetti pubblica il 28 dicembre del 1930 il Manifesto della Cucina Futurista sulla Gazzetta del Popolo di Torino. L’anno successivo presenta con Fillìa La cucina futurista, un adattamento del primo manifesto in cui viene dichiarata guerra alla pastasciutta e alla «assurda religione gastronomica italiana».
5 cfr. Buscema M., Pieri G., Ricerca scientifica e innovazione. Le parole chiave, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2004, pp. 75-77. Per approfondire il tema vedi Celaschi F., Deserti A., Design e innovazione. Strumenti e pratiche per la ricerca applicata, Carocci Editore, Roma 2007, pag 29.
6 Si fa riferimento alla mostra «Food Design: Aventures Sensibles», a cura di Marc Bretillot, Le Lieu du Design, dal 9 marzo al 30 aprile 2011, Paris. La mostra si articola in una serie di percorsi che mettono alla prova la capacità dei designer di individuare e integrare nuove modalità di utilizzo del cibo nei loro progetti.
7 Si fa riferimento al titolo di una delle cinque aree tematiche della mostra «Gola: arte e scienza del gusto», a cura di G. Carrada, allestimento di PLAstudio, Triennale di Milano, dal 31 gennaio al 12 marzo 2014.

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Giangaspare Mingione dopo la laurea in Disegno Industriale, frequenta il Master in Design per lo sviluppo del prodotto industriale al Politecnico di Milano. Si interessa di storia e critica del design, svolgendo attività di ricerca nell’ambito delle arti decorative del Novecento. È stato membro del Comitato organizzatore dell’VIII Congresso AISU di Storia Urbana a Napoli. Partecipa a diversi convegni nazionali e internazionali con contributi scritti e comunicazioni. Segnalato al Premio Interdisciplinare PAN – Ardito Desio 2017 nell’ambito della XXI Conferenza Scientifica Internazionale IPSAPA a Venezia.