§anche le statue muoiono
Iconoclastia ufficiale spagnola
di Matteo Guidi, Jorge Luis Marzo e Rebecca Mutell
Fotografia parte dell’installazione Remover con una vara de madera, Matteo Guidi, 2017 ©

Questo articolo è un estratto del libro Fantasma ’77. Iconoclastìa espanyola edito nel 2020 in occasione della mostra itinerante omonima. Il progetto Fantasma ’77. Iconoclastìa espanyola, di Matteo Guidi, Jorge Luis Marzo, Rebecca Mutell (componenti del gruppo di ricerca GREDITS) è iniziato nel 2018 e si è concluso nel 2020 con una serie di esposizioni: nel Centre d’Art Tecla Sala di L’Hospitalet de Llobregat (Barcellona), al Centre de Carme Cultura Contemporanea di Valencia, al Palau Museu Casal Solleric di Palma (Mallorca) dove si è tenuto anche un seminario di due giorni dal titolo Le immagini sono la memoria storica, e al centro d’arte di Granollers (Catalogna) Roca Umbert Fabrica de les Arts. 

Fantasma ’77. Iconoclastìa espanyola esplora l’immagine [1] monumentale di Franco dopo la sua morte e il modo in cui lo Stato l’ha affrontata. Si pone principalmente due domande: se non possiamo chiedere di rendere conto a Franco, possiamo chiederlo alle sue immagini? E se lo facciamo queste non si imbizzarriranno? Le nove statue equestri di Franco sono di fatto la storia di un’immagine stroncata nell’ottobre del 1977, quando venne emanata la Legge d’Amnistia tutt’ora vigente. Da quel momento, quei cavalli di bronzo intrapresero una singolare corsa a ostacoli che Fantasma ’77. Iconoclastìa espanyola ha seguito appassionatamente. Presentiamo qui una traduzione dallo spagnolo del secondo capitolo del libro, rivista leggermente nella struttura originale, per essere adattata al formato di questa pubblicazione.

Rimozione del Franco equestre a Santander. Illustrazione di Luca Scandurra.

Francisco Franco è stato raffigurato vittorioso, in sella a un cavallo, ben nove volte, e furono otto le città che ospitarono nelle proprie strade o piazze una sua statua equestre: Madrid, Saragozza, Barcellona, ​​Valencia, Santander, Toledo, Ferrol e Melilla. Senza contare le statuette e le statue “semi-monumentali” che furono prodotte per essere esposte all’interno di spazi amministrativi o in ambienti di privati [2]. La nona e ultima delle statue equestri dedicate a Franco possiede invece uno statuto differente e una storia peculiare. Viene commissionata nel 1973, dall’allora Presidente del Governo Luis Carrero Blanco, lui stesso grande amante di cavalli, come regalo per il dittatore [3]. La storia della morte di Carrero Blanco è conosciuta, si compie a Madrid, per mano dell’ETA, con una esplosione che fece volare l’auto sulla quale viaggiava addirittura sopra a un edificio di diversi piani d’altezza. Ciò che è poco conosciuto è che questo evento si produsse proprio mentre Carrero Blanco si dirigeva allo studio dello scultore Juan de Ávalos, autore della statua equestre in questione, per dargli l’ultima approvazione alla statua prima della sua consegna definitiva [4]. La scultura, di fatto, non arrivò mai a Franco e non fu mai esposta in uno spazio pubblico, e oggi si trova a Segovia in un deposito di proprietà dello Stato. Osservare queste statue e le loro rocambolesche storie ci permette di riflettere sul complesso divenire delle immagini, convertite in oggetti, e che qui vediamo scontrarsi con la natura stessa di ciò che rappresentano, mettendo così in pericolo lo stretto nesso modello-immagine, che qui si pone in relazione alla vita politica. Vediamo di cosa si tratta.

Disegno (non datato) realizzato dall’allora Ministro Luís Carrero Blanco.
La scultura finita nello studio di Luís Avalos, pronta per andare in fonderia. Illustrazione di Luca Scandurra.

Il presidente del governo autonomo di Melilla, Juan José Imbroda, dichiarò nel 2009 che non era pertinente il dibattito sul ritiro di una scultura a corpo intero (non equestre) di Franco eretta nel 1978, essendo qui Franco rappresentato come il comandante della Legione che difese quella piazza nel 1921, e non il Franco della successiva dittatura, vale a dire, quando il modello non aveva ancora commesso i crimini della Guerra Civile spagnola e i successivi dei quali venne accusato. L’interesse per una prospettiva di questo tipo si radica nel dubbio che sorge rispetto a ciò che un’immagine è: può una rappresentazione trasfigurarsi nell’età del modello ed essere quindi amnistiata? Come funziona questa esenzione? Conta la data nella quale venne posta nello spazio pubblico – 1978 – o conta l’età (il giovane Franco di 29 anni) con la quale il modello appare? E chiediamoci inoltre cosa conta, né più e né meno per poter vedere quello che c’è dietro un’immagine: Franco è una persona migliore ritratto in giovane età?

Enrique Novo, scultura del Comandante Francisco Franco, 1978.

La storia dell’immagine di Franco, come vedremo, non finisce con la scomparsa del franchismo. Ma come ogni corpo iconografico si dispiega in avanti e indietro, rivelando e nascondendo al contempo, il tempo della memoria. Franco è oggi, per la stragrande maggioranza degli spagnoli, un’immagine, su questo non c’è dubbio, come era in vita. È risaputo che l’inaccessibilità a un tiranno ha sempre il suo equivalente nell’immagine pubblica che proietta: sempre in alto sulle pareti o sui muri delle città, grande sugli schermi dei cinema, trasmesso a reti unificate in televisione e sempre presente sulle pagine della stampa, in ogni caso, sempre sul gradino più alto. Di fatto è un’immagine che si sottrae alla realtà, che proprio lì si svuota, in quello spazio della codifica generato dalla lotta tra tessere e disfare le relazioni tra reale e visivo, tra il modello e il suo avatar: in definitiva è lì dove gli effetti della “memoria ipocrita” si manifestano con estrema chiarezza.

Franco intubato sul letto di morte, fotografia di Jaime Pañafiel, 1975 e la rimozione della statua di Franco a Guadalajara nel 1985. C’è un’interessante analogia iconografica e semantica tra le due immagini. Fotomontaggio realizzato dagli autori.

La prima statua equestre del dittatore fu collocata, nel 1942, di fronte all’ingresso dell’Istituto Ramiro de Maeztu di Madrid. L’ultima, nel settembre del 1978, proprio a Melilla, nel Quartier Generale della Legione, tre anni dopo la morte di Franco, quale regalo dell’industriale madrileno Norberto Severiano de Soriano y Aznar. Nella Spagna democratica, la prima statua equestre del Generalissimo a essere stata ritirata da una piazza pubblica è quella di Valencia, nel 1983, per ordine dell’amministrazione comunale (in quel momento guidata dal socialista Ricard Pérez Casado), mentre l’ultima, quella di Barcellona, nel 2016, anch’essa per un ordine municipale. Questo lungo arco temporale potrebbe dare un senso di continuità, ma come vedremo lo è solo in apparenza. A Valencia si verificarono forti tumulti e aggressioni, e a Barcellona si accanirono sul cavallo e sul cavaliere. A Valencia la mano iconoclasta che rovesciò la figura equestre fu lamministrazione democratica della città, mentre i franchisti vi si opponevano. A Barcellona invece è stata l’amministrazione comunale – di sinistra – a riporre Franco in strada, ma solo per qualche giorno, con un proposito di neutralità, nel contesto di una mostra sul patrimonio storico e la dittatura, ma ha dovuto poco dopo ritirarlo distrutto dalle ire degli antifranchisti. Ecco come si vede che l’immagine risulta essere ancora viva: “toccare qualsiasi scultura di Franco è sempre fargli un favore, si rianima” ci dice Joan Roca, direttore del Museo di Storia di Barcellona.

Franco equestre all’entrata dell’istituto Ramiro de Maeztu di Madrid, 1945. Illustrazione di Luca Scandurra.
La statua equestre di Franco di Santander durante la sua rimozione del 17 dicembre 2008. Illustrazione di Luca Scandurra.

È qui che sta il centro del nostro interesse, in quanto riteniamo che sia i fenomeni dell’iconodulia (venerazione delle immagini) che dell’iconoclastia (distruzione delle immagini) nei confronti delle rappresentazioni equestri di Franco permettano di studiare le politiche patrimoniali dello Stato (per mezzo dell’azione di governi, parlamenti e tribunali che si sono succeduti) rispetto all’eredità dell’iconografia pubblica franchista nella nuova Monarchia Parlamentare spagnola. Ed è per questo motivo che usiamo il termine “ufficiale”, in quanto ci interessano le politiche iconoclaste o iconofile portate a termine o promosse da un organo amministrativo dello stato. Inoltre, ci domandiamo se son quest’ultime a fomentare un approfondimento del ruolo delle immagini nella costruzione della memoria storica e della sua funzione politica: le immagini sono la memoria storica? E se così fosse, che grado di coinvolgimento hanno? In che modo la costruiscono? E ancora, cosa non meno rilevante, riteniamo che questi fenomeni contribuiscano a confermare una sorta di modello che si incarna nella forma nella quale vengono gestiti generando così la sua fantasmatizzazione, ovvero la conversione delle immagini sopravvissute del franchismo in spettri ipocriti [5].

L’iconoclastia e l’iconodulia sono due facce della stessa medaglia. Entrambi i fenomeni hanno a che fare con la convinzione che l’immagine possa aver assunto certe emozioni provenienti, soprattutto, dal modello che rappresentano. Questo accrescimento di potere dell’immagine può essere considerato intollerabile, ed è per questo che viene attaccata, o per effetto contrario, può apparire come desiderabile, ed è allora che viene adorata. In entrambi i casi il problema che ci si presenta davanti ha anche a che fare con i limiti, con confini tra la realtà e l’immagine, e con le funzioni politiche di entrambe nel quadro della nostra vita sociale. Esiste però una terza via dove queste passioni si allentano, è il patrimonio.

La statua equestre di Franco mentre vola davanti a Nuevos Ministerios di Madrid. Illustrazione di Luca Scandurra.

A offrire questaltro cammino ci pensa l’estetica, che emerge nel XVIII secolo come una sorta di soluzione che finirà col rivelare una concezione dell’immagine eccessivamente sottomessa alle magie ed agli incantesimi, un’immagine troppo politicizzata. L’estetica borghese dell’arte offriva l’annullamento di queste superstizioni, la loro disattivazione avveniva sulle pareti dei musei, dove i poteri delle immagini venivano soffocati dall’arbitrio del genio. Qui, l’unico potere da contemplare era quello dell’artista e della storia che lo iscriveva nei canoni dell’accademia. L’estetica sostiene l’interpretazione patrimoniale: Saranno rimossi i simboli tossici del passato ad eccezione di quelle opere che posseggano meriti artistici. Quest’articolo lo rivedremo anche nelle recenti legislazioni d’Italia, Spagna e Russia, grazie al quale l’arte viene collocata nella sfera della fantasmagoria, svincolata pertanto dal senso storico del modello (che è quello che realmente le politiche della memoria storica trattano). Tuttavia, malgrado la sua enorme influenza nella forma con la quale percepiamo l’espressione simbolica dello Stato, la via estetica e la sua scommessa patrimoniale per un “territorio comune” – realmente, una “terra di nessuno” – ha finito per soccombere al suo proprio mito, incapace di porre fine alla guerra liminale delle immagini. Avviene tutto il contrario, si è convertito nell’inerte paesaggio di fondo nel quale si ritaglia questo conflitto [6].

Per comprendere meglio questi passaggi è sufficiente osservare il crono-programma d’innalzamento e di rimozione delle statue equestri di Franco in tutto il Paese. Vediamo  di fatto come la realizzazione delle prime si concentra tra la fine della Guerra civile spagnola (1939) e il 1959, anno nel quale venne approvato il Piano di Stabilizzazione [7]. La seconda infornata di bronzi avviene tra il 1960 e il 1969, in contemporanea al periodo dei “25 anni di Pace” [8]. E l’ultimo gruppo di sculture equestri di Franco ad essere prodotte risale invece alla metà degli anni ´70 proprio in corrispondenza degli ultimi rantoli del dittatore (de Andrés, 2004). Al contrario, l’arco temporale dei ritiri delle statue equestri dallo spazio pubblico è ciò che a noi appare più significativo. Tra gli anni 1977 – un anno dopo la morte del dittatore – e il 2004, gli organi governativi statali – se si escludono le amministrazioni comunali – non mostrarono interesse alcuno per quelle sculture che ancora si trovavano nello spazio pubblico. Nei confronti dell’iconografia franchista lo Stato non prese alcuna posizione nella legislazione patrimoniale, ad eccezione però delle sculture – in prevalenza busti del dittatore – presenti nelle sedi municipali, per le quali furono stabiliti dei protocolli d’intervento. Nel 1985, l’allora presidente del governo Felipe González, si dichiarò contrario al ritiro delle effigi di Franco adducendo la necessità di trasformare il passato in patrimonio di tutti: «Ci sono persone che hanno cercato di cancellare le tracce di 40 anni di storia della dittatura: a me questo sembra inutile e stupido. Alcuni hanno commesso l’errore di abbattere una statua di Franco; io ho sempre pensato che se qualcuno avesse creduto che fosse un merito buttar giù Franco da cavallo, avrebbe dovuto farlo quando era in vita» (Cebrián, 1985).

Crono-programma delle installazioni e delle rimozioni delle sculture equestri di Franco.

Appare qui evidente lo sdoppiamento nella ripartizione della causa morale del franchismo. La neonata democrazia spagnola suggeriva che la sanzione morale avrebbe dovuto passare dalla statua allo spettatore, al quale a questo punto viene chiesto di porsi la grande domanda, dalla tranquillità del divano di casa sua: e tu che ruolo hai avuto in questo? In questo modo si è voluto trasformare l’impotenza civile in argomento di riconciliazione nazionale perché tutti abbiamo commesso l’errore di non aver fatto nulla. L’eredità di Franco si presentò così come il male che deve essere portato sulle spalle di tutti. Le effigi, i monumenti alla vittoria, le sculture equestri e così via vennero di fatto lasciati lì al loro posto con l’anelito di vedere in quanto tempo si fossero disattivati, quanto quei cavalli con il loro cavaliere avrebbero resistito nella corsa a ostacoli, quanto del loro modello avrebbe continuato ad essere incarnato nel bronzo, e quando sarebbe arrivato il momento di porli al riparo in un silenzioso magazzino, in quasi tutti i casi sotto la tutela dell’esercito. Era allora meglio non agitarli troppo per far sì che non rilasciassero le proprie spore, che si risvegliassero, che si rianimassero.

Guernica di Picasso atterrò, segretamente a Madrid, nel 1981 direttamente dal Moma di New York. L’opera venne collocata nel Casón del Buen Retiro e venne sia protetta da un vetro blindato antiproiettile che sorvegliata a vista da una Guardia Civil [9] armato di mitragliatrice. Il suo arrivo venne celebrato da Javier Tusell, allora Direttore Generale delle Belle Arti, come l’evento che segnava la “fine della transizione”, nella cornice di politiche pubbliche che lui stesso definiva come «riti statali d’esorcismo delle forze distruttive, demoniache, che minacciavano la nostra vita civica» (Pérez Díaz, 1991). Sarà solo nel 1995 però che il vetro protettivo sarà ritirato, poiché, secondo le parole dell’allora Ministro della Cultura (socialista), Carmen Alborch, «la Spagna vive ora un momento di maturità cittadina che permette la contemplazione del quadro senza timore di sgradevoli inconvenienti» (García, 1995). È pertanto facile interpretare quel lasso di tempo di vent’anni, nei quali le statue equestri di Franco sono rimaste nello spazio pubblico, grazie ad uno sforzo statale rivolto a convertire quell’immagine potenzialmente ribelle, in un polo cittadino, educato esteticamente, riunito intorno a un senso civico del patrimonio pubblico ed esorcizzato da un passato maligno. Ecco allora che qualcosa accadde a metà del 2000 perché tutto ciò andasse in malora: è sufficiente notare che fu nelle immagini sopravvissute di Franco che si manifestò sia il fallimento statale del processo di patrimonializzazione estetica del passato, così come la permeabilità prodotta negli enti pubblici da una brusca mutazione della memoria storica in seno al corpo sociale spagnolo.

Per poter comprendere meglio la politica liminale sul patrimonio recente dello stato spagnolo, è necessario prestare attenzione alla legge che ha fatto da interfaccia nella transizione spagnola [10]: la Legge di Amnistia, approvata nel 1977, e ancora oggi vigente, dalla plenaria del Congresso dei Deputati. L’effetto più noto di tale legge è che stabiliva l’amnistia della dittatura, lasciandola così direttamente fuori dalla portata della giustizia. Tuttavia, la legge evidenziò un problema che è stato poco o appena affrontato: se la legge impedisce di chiedere conto a Franco per le sue malefatte, cosa accadeva con la sua immagine? In quale condizione veniva a trovarsi la sua rappresentazione? Come possiamo gestire questa eredità giuridicamente già assolta?

Di fatto la Legge di Amnistia si riferisce solamente alle persone, non dice nulla sul divenire delle immagini prodotte dalla dittatura, è come se queste restassero in sospeso. Per fare un esempio, se dovesse venire alla luce oggi una qualche vecchia fotografia che ritrae un boia mentre tortura una vittima nella sede della Direzione Generale di Sicurezza, nella Casa de Correos di Madrid per esempio, supponiamo nel 1958, nulla di tutto questo che appare nell’istantanea avrebbe valore legale per incolparlo. L’amnistia del ’77 annullerebbe allora i valori di obiettività e di veridicità assegnati abitualmente alla fotografia, che così passerebbe ad essere tecnicamente un fantasma, un’immagine il cui modello non è l’equivalente. Si sospende la veridicità dell’immagine, però l’immagine appare come vera, probabilmente piena di rabbia e di irritazione come ci fa notare Joan Fontcuberta. L’amnistia del ’77 provocò pertanto grandi tensioni nella concezione dell’immagine della memoria franchista, incoraggiando così un modello strumentale basato nella deindicizzazione, che di fatto persegue solo un’immagine che non serve a nulla, a parte che servire a se stessa. È questo il principio centrale del patrimonio: per entrare nel club occorre guadagnarsi uno status, devi starne al di sopra, devi elevarti.

La sostituzione della funzione per la forma è il primo effetto evidente di questo processo: «La scultura è bella, chi è quello sul cavallo?» diceva la gente sorridendo sotto i baffi, mentre transitavano davanti a quei ronzini di bronzo su piedistalli. Questo aspetto è identico a ciò che sostiene la stessa concezione di patrimonio. Questo processo di “disincarnazione”, di strappo se vogliamo, non è però affatto attribuibile unicamente al periodo di transizione in questione. È altresì riscontrabile in un gran numero di momenti all’interno della storia di Spagna. Nel 1937 Josep Renau ricevette, mentre era Direttore Generale delle Belle Arti della Repubblica, l’incarico dal governo per preparare una campagna di sensibilizzazione per promuovere il rispetto delle opere d’arte e ridurre così le numerose condanne internazionali che si stavano ricevendo per colpa degli atti di distruzione del patrimonio religioso perpetuati durante la Guerra civile spagnola. La campagna esponeva messaggi del tipo No veas en una imagen religiosa más que el arte. ¡Ayuda a conservarla! [11]. Avrà certamente fatto sorridere questo messaggio ufficiale che incitava ai cittadini a separare la forma dal contenuto, soprattutto se visto nell’ottica di una società educata ad interpretare le immagini ipocrite come una forma di adesione ai racconti ufficiali, tanto nazionali, quanto religiosi. Ciò che stavano facendo era parlare d’arte ai cittadini attraverso l’interpretazione dei meccanismi formali della storia dell’arte, così come lo vediamo in questo altro poster prodotto dallo stato che recitava: “Pueblo, antes de destruir cualquier objeto cuyo valor desconoces, infórmate. Puede muy bien ser un objeto de arte y al destruirlo destruyes la propia riqueza” [12] (Marzo, Mayayo, 2015). Se ci lasciamo la Spagna alle spalle e guardiamo non a caso al Messico troveremo un esempio simile e degno di nota. Nel 1803 viene realizzata da Manuel Tolsà una grande statua equestre del Re di Spagna Carlo IV, oggi popolarmente chiamata dagli abitanti di Città del Messico “el caballito” (il cavallino) che dopo molteplici vicissitudini, accadute soprattutto in anni recenti, viene definitivamente collocata di fronte al Palacio de la Mineríoa, nel centro storico della capitale. Il governo della città decide però di porre nel suo piedistallo una nuova inscrizione che specifica che México la conserva como monumento de arte [13]. Questi processi di diseguaglianza tra significante e significato provengono dalle radici del racconto ufficiale nazionale spagnolo a partire da politiche di scioglimento del modello e con la rappresentazione ufficiale, quello che è stato chiamato altrove il “d_efecto barroco” (d’effetto barocco) [14].

Campagna della Federación Universitaria Escolar, 1937.

Potremmo dire che non ci troviamo davanti ad interpretazioni esclusivamente attribuibili al periodo della transizione e al posteriore regime costituzionale, anche se qui ne abbiamo sottolineato la sua appartenenza. Di fatto ciò dimostra quello che potremmo chiamare un secondo “effetto” dell’immagine post-amnistia: che ogni immagine è sempre letteraria, appartiene ad un racconto, a una cornice. Cambiandone la didascalia, la stessa immagine cambierà d’uso. Abbiamo visto come il presidente di Melilla è in grado di separare il Franco buono da quello cattivo solo appellandosi all’età che dimostra la sua figura, però nell’iscrizione posta sul piedistallo non si racconta l’accaduto. La sessione plenaria del Comune di Melilla del 21 aprile del 1977 convocò un concorso pubblico che annunciava una gara d’appalto di tre milioni di pesetas per erigere, entro un termine massimo di sei mesi, un monumento al “Generalissimo Franco”. Durante la realizzazione dell’opera, già aggiudicata allo scultore ed ex militare Enrique Novo, si decise di cambiarne il tributo (“per motivi non specificati”, scriveva l’amministrazione comunale). Non sarebbe stata più in omaggio al “Generalissimo Franco”, ma al “comandante Francisco Franco, eroe delle campagne d’Africa e liberatore di Melilla”. In un altro caso simile di détournement ci siamo imbattuti non molto tempo fa, passeggiando per il Montjuïc, a Barcellona. Qui si trova una scultura del 1928 di Josep Viladomat – lo stesso autore del Franco Equestre di Barcellona – intitolata Noia de la trena (ragazza della treccia), che raffigura una giovane mentre è intenta ad aggiustarsi l’acconciatura. Osservandola però da vicino si può notare che qualcuno ha scritto con un pennarello sul piedistallo la frase “Mi papá me paga” (Mio padre mi picchia). La scultura è stata in questo modo magicamente trasformata in un appello contro la violenza di genere.

Josep Viladomat, Noia de la trena, 1928. Giardini Laribal, monte del Montjuïc, Barcellona. Fotografia: Vicky Lamela, 2018.
Dettaglio ingrandito della scritta realizzata a pennarello sul basamento della scultura.

L’interruzione del senso di un monumento può essere una potente forma di trasmissione. Un atto iconoclasta può dispiegare una potenzialità patrimoniale maggiore della mera presenzialità del passato. Questo è ciò che sostenne a suo tempo Montserrat Iniesta, curatrice della mostra Escolta, Franco! El purgatori dun dictador (Ascolta Franco! Il purgatorio di un dittatore), allestita nel 2005 nel Museu de Vilafranca de Penedès del quale allora era direttrice. Tra le varie opere presenti in mostra vi era un busto di Franco che proveniva dalla stessa collezione del museo. La curatela della mostra faceva richiesta esplicita ai visitatori di depositare davanti al busto una propria testimonianza scritta di ciò che avrebbero detto al dittatore se ne avessero avuto l’occasione di farlo. Un gruppo di persone lasciò sul busto una corona di cartone e attaccò un cartello contro la monarchia e la sua relazione con l’eredità franchista, altri invece vi appesero simboli dell’indipendentismo della Catalogna e di partiti comunisti. Iniesta allora prese una decisione alquanto interessante, di restituire il busto alla collezione senza restaurarlo, tale come si trovava dopo gli interventi dei visitatori e scrisse a riguardo: «Non solo il patrimonio è superfluo nei processi di trasmissione culturale, ma alcune forme di trasmissione si esercitano proprio contro l’integrità del patrimonio» (Iniesta, 2017). Per Iniesta, l’aggressione dei visitatori alla rappresentazione di Franco non era pertanto interpretabile in chiave “vandalica”, ma come un’azione politica capace di restituire alla vita sociale una figura che, proprio perché divenuta patrimonio, era stata sottratta da essa stessa. È proprio questa gestualità a rivelare come il patrimonio sia un’industria culturale il cui ruolo nella costruzione e nella cristallizzazione di una memoria egemonica può essere contraddetto (López, 2004; Ruido, 2008). Se è vero che la politica della transizione ha ridotto la competenza della memoria del franchismo ad una mera questione di gesti, è altresì rilevante come i gesti possono rivelare ed esporre quella stessa politica [15]. Le parole dello scrittore Ray Loriga sulle forme del ricordo sono eloquenti in questo senso quando scrive che «Potremmo essere obbligati a ricordare, però abbiamo il diritto di ricordare il tiranno alla nostra maniera e non alla sua. La proiezione dell’ombra dei suoi crimini nella storia non deve conservare per sempre l’atteggiamento illustre che loro stessi proposero, ma il formato reale e le forme esatte di ciò che era» (Loriga, 2005).

A giudizio di Iniesta, le politiche della transizione spagnola si caratterizzano per una «nota passività coerente con la cultura dell’impunità istituzionalizzata attraverso la Legge di Amnistia» (Iniesta, 2017). In effetti, la Legge di Amnistia ha prodotto dei fantasmi, molto più di qualsiasi altra legislazione della transizione. Fomentò una certa passività nelle immagini del franchismo, le rallentò al punto da convertirle in bronzi atemporali. Di fatto ogni storia di fantasmi è una storia di temporalità, di cronologie, di archi di tempo e di spazio che stabiliscono che cosa sia venuto prima (il fatto) e che cosa sia venuto dopo (la memoria), a quale apparteneva il corpo del vivo, e in che misura la figura del morto corrisponde a questo. La storia del fantasma è sia la storia della mimesi e del potere che convoca e possiede la verosimiglianza così come la storia dell’anacronismo [16]. 

La Legge di Amnistia declinò di fatto in passivo il racconto delle immagini del franchismo, dislocando tra causa ed effetto i tempi stessi delle relazioni storiche. Abbiamo visto come nel 1985 Felipe González si espresse contro il ritiro delle effigi di Franco, trasformandole così in monumenti alla bassezza morale di tutti. Nel 2005 invece in seguito al ritiro della statua equestre di Franco che si trovava a Nuevos Ministerios a Madrid, il quotidiano ABC pubblicò un editoriale nel quale avvertiva che «sarebbe pericoloso che il socialismo possa cadere nella tentazione rivendicativa di cercare di riscuotere ora, con effetti retroattivi, parte di una cessione che fece trent’anni prima in una Spagna che non è più quella di prima e che, felicemente, si è spogliata di tutti i fantasmi del passato» [17]. L’inviolabilità giuridica del franchismo viene in questo modo considerata come una risorsa dei democratici, come la questione fondante dalla quale nasce la democrazia e sulla quale fa perno la sua legittimità. Il patrimonio ufficiale spagnolo non si crea mascherando le cariche ideologiche che trascinano come palle di neve rotolanti le immagini del potere, ma al contrario si conforma rendendo apertamente ipocrita l’immagine, riconoscendone il fardello della tirannia che l’accompagna (affare privato) esibendola però come immagine inerte, domata, senza alcun peso giuridico. José Utrera Molina, ex ministro di Franco, pubblicò sul quotidiano La Razón un lungo articolo proprio sul ritiro dell’immagine equestre di Franco a Madrid, nel quale sosteneva che grazie al fatto che le statue sono la testimonianza di un’epoca, al di là che si glorifichi o si disprezzi ciò che rappresentano, sono ormai libere di cavalcare senza rancori e di fatto scrive: «Franco cavalca ancora sereno e maestoso nell’aria della storia» (Utrera Molina, 2005, p. 20).

Il 18 luglio del 1986, in occasione del cinquantesimo anniversario della rivolta militare che portò alla Guerra Civile, il governo spagnolo rilasciò una dichiarazione nella quale affermava che «Il Governo vuole onorare ed elogiare la memoria di tutti coloro che, in ogni tempo, contribuirono con i loro sforzi, e molti di loro con la loro vita, alla difesa della libertà e della democrazia in Spagna. E inoltre ricorda con rispetto coloro che, da posizioni differenti da quelle della Spagna democratica, lottarono per una società diversa e per la quale molti sacrificarono anche la propria esistenza» [18]. L’appello alla riconciliazione avviene grazie alla vittimizzazione del passato. Tutti in questo modo diventavano vittime, anche gli stessi carnefici, solamente che nello spazio pubblico si mostrano solo i carnefici perché sono immagini più grandi, pesanti e costose da rimuovere, quelle delle vittime invece si muovono ai margini, negli album di famiglia o nelle fotografie degli archivi pubblici [19]. La privatizzazione delle emozioni che legiferò la democrazia spagnola è di fatto equivalente alla privatizzazione degli affetti ascritti alle immagini della dittatura. Era questo il programma di “pacificazione” nel quale lo Stato veniva inibito in quanto percepito come causa fondante del conflitto, mitizzando così il ruolo istituzionale della vittima e costruendo uno «spazio che riunisce tutti fin dal principio e nel quale tutti i morti, i torturati, i danneggiati e gli oltraggiati sono uguali» (Vinyes, 2014).

In Germania, l’attuale codice penale, che risale al 1871, venne inizialmente riformato nel 1962, pertanto successivamente al periodo nazista, per essere approvato poi nel 1975. Nel suo articolo 86, intitolato Diffusione di mezzi di propaganda d’organizzazioni anticostituzionali, inscrive a reato l’utilizzo di distintivi, immagini, oggetti, slogan, scudi e forme di saluto di organizzazioni anticostituzionali, e li esonera solamente se questi sono destinati ad educare, a promuovere l’arte o la ricerca [20]. Il Codice Penale tedesco vigente punisce la glorificazione del terzo Reich nell’articolo 130, con pene fino a cinque anni. Qui le politiche della memoria dell’eredità nazista non si costruirono attorno ad uno spazio, neppure ad un monumentale “luogo della memoria” (Nora, 2008), ma bensì in un vuoto riempito di fumo e di colpa. Negli anni ’60, il trauma nazista e quello dell’Olocausto suscitarono un grande interesse nelle politiche sulla verità e sulla memoria di tutto il mondo, così come nella Germania Occidentale.

Franco equestre all’ingresso del Quartier Generale della Legione con tanto di picchetto d’onore. Illustrazione di Luca Scandurra.

In Spagna però la situazione è diversa perché Franco non perse la guerra. Qui dopo la vittoria nazional-cattolica del 1939 lossario che commemorava i caduti si trasformò in un podio importante, tutto divenne letteralmente motivo di celebrazione. La devastazione del patrimonio della Chiesa, avvenuta durante la guerra in molte aree che si trovavano sotto controllo repubblicano, servì a creare nel franchismo una monumentale liturgia della restituzione. I piani di ristrutturazione della statutaria furono enormi e impegnarono diverse istituzioni. Le rovine di guerra, per esempio, vennero convertite in pittoreschi luoghi dell’eroismo. Il Marchese di Lozoya e il Conte di Foxá fantasticavano in direzione di una “architettura delle rovine” che popolava il paesaggio della memoria storica nazionale. Josep Maria Sert ebbe intenzione di conservare i resti dell’Alcazar di Toledo, scenario dell’epica resistenza della Patria e baluardo protettore della sede della Chiesa di Spagna, per valorizzarlo con grandi dipinti murali e aumentare così la teatralità dell’insieme (Llorente, 1995). Il Ministero dei Beni Culturali decise di lasciare l’edificio in rovina addirittura fino al 1965 e ne adeguò il perimetro in modo da poter accogliere, condotti lì frettolosamente dalle loro guide, i migliaia di turisti che vi arrivavano ogni giorno.

Le targhe, i monumenti, le effigi, gli scudi, le nomenclature, gli striscioni, tutto si riempì di franchismo, spesso confuso all’interno di un patrimonio storico spagnolo di cui si faceva erede. In questo senso, l’idea di contiguità è molto rilevante, perché il franchismo è stato soprattutto il vortice impetuoso della logica ufficiale della nazione spagnola, sostenuta dal racconto della sua propria continuità. La Spagna dal destino manifesto era cresciuta con i secoli alimentata, prima dalle gesta imperialiste, e successivamente come rivelò la Generazione del ’98, accampata e stordita dalla propria irrilevanza. A differenza della Germania però, che non possedeva un passato da restaurare, nella Spagna del dopoguerra il passato monumentale si trovava ancora lì, con la Repubblica rimossa dalla tela della storia, e tutto ciò che fu distrutto dall’iconoclastia rivoluzionaria era motivo di un rapido ripristino. Lo spazio franchista pertanto si costruì come uno spazio storico asettico e sovrastorico.

La sconfitta della Germania e la sua umiliazione storica della società, contribuì in modo decisivo a un programma ufficiale iconoclasta nei confronti del nazismo. Nell’Italia del dopoguerra, i piani per perseguire i crimini fascisti e purgare l’amministrazione furono presto abbandonati con il pretesto che avrebbero destabilizzato la transizione alla democrazia (Malone, 2017). Tuttavia, l’uso e l’esibizione di simboli provenienti dal ventennio fascista furono vietati per legge nel 1952 [21] anche se, riportando un esempio in contraddizione, nel piccolo comune di Predappio, dove Mussolini nacque e si trova sepolto, vi sono diversi negozi che si occupano della vendita di souvenir e cimeli fascisti ai visitatori. In Spagna al contrario il franchismo non fu sconfitto, venne invece perdonato nel cuore, o nel voto, di ogni cittadino spagnolo. L’immagine di Carmen Polo, vedova del dittatore, fotografata mentre vota chi non c’è, il fantasma, nel segreto della busta chiusa, nel proprio collegio elettorale alle prime elezioni parlamentari del 1977 si porta dietro qualcosa di allegorico e di fatto ci dice proprio questo. Lo scioglimento e l’assoluzione del franchismo non hanno avuto un’espressione iconografica nella giurisdizione penale o patrimoniale. Per farne possibile una restituzione, l’amnistia obbliga dunque a pensare al franchismo in quanto memoria personale, non collettiva o pubblica, e per questo legittimata. L’effetto dell’amnistia sui monumenti del passato è rilevante in questo senso.

Carmen Polo, vedova del Generale Francisco Franco, mentre vota nel suo collegio elettorale alle prime elezioni parlamentari del 1977.

Se l’amnistia non stabilisce una data nel passato a partire dalla quale applicare la grazia, nemmeno la statua di Franco può essere ritenuta più responsabile del resto della storia nazionale. 

È quella “storia di Spagna” che difendeva il presidente González, dove in questo modo la democrazia, nel contenere in seno le proprie orme del passato, si presentava opposta allo spazio sovrastorico franchista. Però, a differenza del franchismo che cancellò ogni traccia della cultura simbolica repubblicana, González scommesse su un esplicito rifiuto della “condanna della memoria”. La damnatio memoriae era una pratica dell’antica Roma che consisteva nel condannare il ricordo di un nemico dello Stato dopo la sua morte prevedendo la rimozione di tutte le sue immagini, monumenti, iscrizioni, e persino il divieto di pronunciare il suo nome. La politica della transizione spagnola presentò uno spazio storico senza che questo fosse stato depurato, portatore di tutte le ferite aperte in attesa che un giorno queste si fossero rimarginate, sapendo in partenza che bere da quelle sorgenti non avrebbe condotto ad alcun restauro morale. La condanna alla memoria venne interpretata come uno stigma di radicalità assegnato nelle purghe iconoclaste rivoluzionarie, quelle portate a termine da Hitler, da Stalin, dallo stesso Franco, dai roghi degli anarchici ai conventi, però anche dalle politiche censorie della stessa Germania del dopoguerra quando questa dovette risemantizzare il linguaggio ereditato dal nazismo. La Spagna, invece, non condannò la memoria perché la memoria nemmeno condannava la democrazia, al contrario, la legittimava.

Fotografia: José Aleixandre, 1983
Fotografia di Manuel Molines, 1983 ©.

Fin qui abbiamo visto come la statua di Franco è stata perdonata anche se era la continuazione della rappresentazione di un criminale. Anche se durante la transizione la politica sulla memoria storica si basò sul presupposto della riconciliazione, resta di fatto che ciò avvenne anche in relazione ai monumenti franchisti, la cui vita ruotò intorno al problema della riconciliazione tra modello, monumento e senso, pertanto tra Franco, Storia e Memoria, in un conflitto vivo e vegeto che dimostrava l’incantesimo del non-morto. L’esplicitazione del suo effetto risiede nel continuo anonimato riflesso dalle persone che operano con la figura di Franco. L’iconoclastia verso la sua effigie, che sia questa quella che qui definiamo ufficiale, cioè una rimozione organizzata dagli organi governativi competenti, o un’iniziativa personale di qualcuno, richiede sempre accorgimenti di segretezza e velatura. Come nel caso di Valencia, nel 1983, dove l’amministrazione rimuove la prima delle sculture equestri, e dove gli incaricati dovettero lavorare con il passamontagna sul volto, le targhe dei mezzi utilizzati coperte ed iniziare i lavori di rimozione quando ancora era notte fonda. In questa occasione si produsse anche ulteriore fatto particolarmente significativo per questo discorso, un alterco tra la polizia locale e uno dei manifestanti – in seguito arrestato – per via della macchina fotografica che gli agenti volevano requisirgli perché sospettavano che le sue intenzioni fossero quelle di utilizzarla per identificare poi col tempo gli operai addetti alla rimozione della statua. In quel periodo ancora non vi erano i telefoni cellulari con i quali è possibile registrare un’immagine senza dare nell’occhio.

Il manifestante si infastidì perché a differenza sua, la polizia permetteva ai giornalisti l’uso di videocamere e di fotocamere, mentre a lui no. A parte questo, ciò che qui appare particolarmente significativo è l’immagine degli operai incappucciati che vista nella Spagna democratica, rappresenta il modo in cui un nuovo regime si “protegge” dal suo passato, mentre i manifestanti – franchisti – ovvero il passato, si mostrano a viso aperto, consapevoli dell’impunità con cui l’attuale legge tratta il franchismo. Questo aspetto non si discosta di tanto da un fatto molto più recente, che risale al 2019, quando la ditta di Cuenca che era stata incaricata di sollevare la pesante lapide di Franco per la riesumazione del suo cadavere da Valle de los Caídos, accettò l’incarico a patto di esser lasciata nell’anonimato.

Fotografia di José Aleixandre, 1983 ©.

Dalla parte opposta del gesto iconoclasta, anche attaccare la figura di Franco richiede comunque il buio e la segretezza. Gli attentati alle statue equestri del dittatore degli anni ’70 e ’80 a Valencia, Madrid, Barcellona o Ferrol, seguirono questi protocolli, come rovesciare vernice rosa o rossa sulla testa di Franco, che si convertì di fatto in una usanza notturna. Durante gli incidenti avvenuti con la statua  equestre esposta nel 2016 a Barcellona davanti al Born Centro di Cultura e Memoria, durante la mostra Franco, Victòria, Repubblica: Impunitat i espai urbà (Franco, Vittoria, Repubblica: Impunità e spazio urbano), voluta dal Commissario per i Programmi sulla Memoria del Comune di Barcellona [22] anche se per vie e ragioni differenti, si assiste a un processo di anonimizzazione delle persone che hanno attaccato e rotto la scultura. Per poter restaurare l’opera, seguendo la legge patrimoniale del Comune, quest’ultimo avrebbe dovuto depositare in tribunale una denuncia formale per definire le responsabilità degli aggressori, visto che così stabiliva la polizza assicurativa contrattata per coprire eventuali danni provocati da atti di vandalismo. Per ovvie ragioni politiche, l’amministrazione comunale – di sinistra – non è mai stata disposta a prendere la via legale, preferendo mantenere nell’anonimato le persone – suoi cittadini – che attaccarono la figura di Franco, riposta nello spazio pubblico dallo stesso comune, ponendo così in un limbo giuridico i resti della scultura.

Rimozione del Franco equestre dal Museo Navale d’Herrerías del ferrol. Illustrazione di Luca Scandurra.

Portare il volto coperto da un passamontagna per agire in pubblico sulle le statue equestri di Franco è comprensibile solamente nell’ottica della valenza politica che ha mantenuto il modello dalla sua morte. Lo spettro possiede poteri – ciò lo abbiamo sempre visto nei film sui fantasmi – perché il modello, l’originale – the image – lasciò cose imperative da dire. Il fantasma emerge perché il corpo che rappresenta [23] ha avuto una brutta morte o non voleva morire [24]. La Legge di Amnistia slegò tutta la continuità storica tra franchismo e democrazia semplicemente disattivando la logica secondo cui ciò che accadde ieri ha effetti su ciò che sta accadendo oggi. Amnistiare il franchismo condannò la democrazia a far i conti con una memoria ipocrita, costringendo noi stessi ad essere ipocriti e mettendoci presuntamente allo stesso livello di una società corrotta e degradata. Si volle presentare una nuova società (Todo nuevo bajo el sol [25] recitava un cartello socialista dei primi anni ’80): gli storici potevano già rivedere la storia, le vittime potevano essere riscattate dall’archivio innominabile, potevamo smettere di chieder pegno a quarant’anni di ignominia, ma tutto questo senza alcun tipo di valore giuridico ed esente da qualsiasi competenza amministrativa. Eravamo in grado di mostrare la fotografia del boia mentre torturava la sua vittima nella sede della Direzione Generale di Sicurezza, [26] ma siamo stati condannati alla parola politicamente vuota, mentre -è bene non dimenticarlo- il fantasma riempiva a poco a poco il proprio vuoto, come la mummia, che nel suo lento risvegliarsi va acquisendo pezzi di carne dal resto degli esseri viventi ricercando così di nuovo la sua pienezza. Alcuni sostengono che questo non ha i sapori di una tragedia, ma di una commedia. Per sapere questo dovremo necessariamente attendere e vedere. Il disdegno dello Stato nei confronti della figura – the picture – di Franco è, non abbiamo molti dubbi, la storia di un’iconoclastia ipocrita che ci pone davanti ad alcune domande: quale punizione applicare ad un crimine che è stato amnistiato, attenzione non assolto, ma amnistiato? Che pena chiedere quando il verdetto della giustizia è stato quello di lavarsi le sue proprie mani? Se il modello di quelle nove sculture equestri si convertì in “terra di tutti” (“terra di nessuno”, dicevamo prima, spazio esente da retroattività in cui si può camminare senza necessariamente dover stipulare una polizza contro gli infortuni, assumendo privatamente i rischi, ed essendo sempre esposto alla mera ammenda imposta per la violazione del patrimonio), rimane solo il margine di politiche gestuali e private, rispetto alle sue immagini.

L’amnistia del franchismo del 1977 innescò una logica statale di affettività rispetto al passato. Regolare la memoria pubblica della dittatura in una chiave meramente patrimoniale – come accadde – si è dimostrato in aperta contraddizione con la legge stessa che invece faceva proiettare l’amore o il disprezzo per il franchismo dall’intimità di ciascuno di noi. Di fatto questo è un altro atto ipocrita: legiferare la memoria in relazione agli affetti – dal punto di vista politico apparentemente insignificanti – non significava anche la possibilità di “esercitarli”? Ridurre la memoria agli affetti comporta una politicizzazione degli stessi. È naturale a questo punto riscontrare che il patrimonio statale di Franco si scontrò con la miriade di atti iconoclastici che altre pulsioni non statali produssero. Il gesto divenne politica, anche in politiche della memoria. Fu solamente con l’approvazione della Legge sulla Memoria Storica [27] del 2007 – esattamente 32 anni dopo la morte del modello – che queste politiche penetrarono in alcuni livelli dell’amministrazione dello Stato. Solo nel 2010 si procedette a ritirare definitivamente e a depositare nei magazzini gli ultimi cavallini, quello di Toledo, di Valencia e del Ferrol. I primi ritiri vedevano quasi sempre un passaggio delle sculture dallo spazio pubblico a qualche cortile di caserme militari, un dato di certo significativo nell’ottica del discorso che fin qui abbiamo tracciato. La statua equestre di Melilla, resta ancora oggi esposta e visibile al pubblico nel cortile di una fondazione privata. A Barcellona, i resti fatti a pezzi della statua equestre di Franco, e oggi custoditi in un magazzino municipale, rendono conto della potenza di politiche di gesti che si configurarono contro un patrimonio che ha fallito nel suo intento di evitare di risvegliare il modello.

Franco en Zona Franca, 2017-2018. Fotografia realizzata con la collaborazione di Mariano Monea, Matteo Guidi ©

L’amnistia al franchismo, abbiamo visto, lasciò il modello con molti dei suoi poteri. È per questo motivo che l’iconoclastia ufficiale verso le figure di Franco è stata, per lo più, un’iconoclastia da guanto bianco, trattando le effigi con cura, perché non è possibile allontanare brutalmente il modello e l’immagine. Semplicemente non si può affermare che un’immagine non contenga gli attributi del modello. Qualsiasi politica che istighi questo è una politica ipocrita, che giova solo al modello, al fantasma, che in questo modo può continuare a svolazzare tranquillamente per il castello, senza paura di essere riconosciuto, e un giorno, senza rendercene conto, starà mangiando con noi seduto allo stesso tavolo.

Illustrazione di Luca Scandurra

Note

[1] L’inglese su questo punto è più preciso rispetto alla nostra lingua: distingue Image da Picture, essendo la prima la matrice mentale e la seconda la sua materializzazione. Sulla differenza tra image e picture negli studi iconografici si vedano i lavori W.T.J. Mitchell.
[2] Sul destino della monumentale statuaria equestre di Franco, in particolare su quelle realizzate dall’artista José Capuz, si veda Pieter Leenknegt, El Franco ecuestre de Capuz: una estatua, tres destinos, Vicente Sánchez-Biosca, 2002, Archivos de la Filmoteca. Speciale Materiales para una iconografía de Franco, v. 2, nº 42-43, pp. 13-29
[3] Esiste un disegno (non datato) realizzato da Carrero Blanco sulla carta intestata ufficiale del Consiglio dei Ministri, nel quale si vede, da un lato lo scranno di Franco vuoto e dall’altro la testa di un superbo cavallo con dei nastri colorati annodati alla criniera, creando in questo una strana allegoria del suo caro amico Franco.
[4] Luis Carrero Blanco, definito il “fedelissimo” di Franco ricevette nel 1973 per mano del dittatore la presidenza del Governo, mentre a Franco rimaneva la carica di Capo dello Stato. Il 20 dicembre 1973 una carica di dinamite fece esplodere il manto stradale nel momento in cui stava transitando l’autovettura blindata sulla quale viaggiava Luis Carrero Blanco.
[5] Lo storico Ricard Vinyes scrisse la stessa cosa riferendosi all’“indifferenza” e all’“inibizione” fomentate dallo Stato rispetto alle immagini della dittatura, frutto di una lettura carente di etica quando si tratta di interpretazioni divergenti delle figure del passato. Dello stesso autore, si veda: El Estado y la memoria, RBA, Barcellona, 2009; e Asalto a la Memoria, Los libros de Lince, Barcellona, 2011
[6] Per una più approfondita analisi sui complessi confini tra iconoclastia, estetica e addomesticamento civile si veda: Jorge Luis Marzo (a cura di), No tocar, por favor. El museo como incidente, Artium, Vitoria, 2013.
[7] Il Piano Nazionale di Stabilizzazione Economica è stato un insieme di misure economiche approvate dal governo spagnolo nel 1959 con l’obiettivo di stabilizzare e liberalizzare l’economia spagnola. Fu la rottura con la politica autarchica del franchismo e permise l’inizio di un’epoca di crescita economica nel paese che di fatto avvenne negli anni Sessanta.
[8] Si tratta con precisione dell’anno 1964, coincidente con il venticinquesimo anniversario della fine della Guerra Civile Spagnola.
[9] Corpo di gendarmeria spagnolo con anche funzioni di polizia militare, simile al corpo dei Carabinieri in Italia.
[10] Con transizione spagnola o transizione democratica ci si riferisce a quel periodo storico in cui la Spagna abbandonava il regime dittatoriale di Francisco Franco passando a uno Stato democratico con una nuova costituzione. Si tende a collocare questo periodo nell’arco di tempo che va dalla proclamazione di Juan Carlos I di Borbone come Re di Spagna il 22 novembre 1975 (due giorni dopo la morte di Francisco Franco) e l’entrata in vigore della Costituzione il 29 dicembre del 1978.
[11] Trad.: Non vedere in un’immagine religiosa nient’altro che arte. Aiuta a conservarla!
[12] Trad.: Popolo, prima di distruggere qualsiasi oggetto di cui non conosci il valore, informati. Può benissimo essere un oggetto darte e distruggendolo distruggi la propria ricchezza.
[13] Il Messico la conserva in quanto monumento artistico.
[14] In spagnolo il gioco di parole funziona meglio che in italiano: (d)efecto è la congiunzione di defecto (difetto) e di efecto (effetto). Si veda Jorge Luis Marzo, Tere Badia (a cura di), El d_efecto barroco. Políticas de la imagen hispana, Centre de Cultura Contemporània de Barcelona, 2010
[15] Sul gesto come attivatore politico della memoria e in relazione alla statua equestre di franco a Barcellona si veda Matteo Guidi, Remover con una vara de madera, ICUB, Barcelona, 2017, Link
[16] A proposito della mimesi e della verosimiglianza come fattori rilevanti nelle politiche della memoria sul franchismo e sulla figura di Franco, si veda Jorge Luis Marzo, Raquel Anglès, Un gran parecido, in Jornadas contra Franco, Vallecas: Plataforma de Artistas Antifascistas, 2013, Link [17] Editoriale, ABC, 18/III/2005, p. 4. citato in Misael Arturo López Zapico, La sombra de Franco sigue siendo alargada. La polémica suscitada a raíz de la retirada de varias estatuas de Franco en marzo de 2005, Navajas, Carlos; Iturriaga, Diego (eds.): Crisis, dictaduras, democracia. Actas del I Congreso Internacional de Historia de Nuestro Tiempo, Universidad de La Rioja, Logroño, pp. 147-158.
[18] El País, 19/07/1986.
[19] Si veda Jorge Moreno, El duelo revelado: la vida social de las fotografías familiares de las víctimas del franquismoCSIC, Madrid, 2018; Mónica Alonso, Mirar el álbum, seguir la historia. Poéticas de la memoria republicana, 2020, in stesura nell’ambito del programma di ricerca deI+D+i HAR2017-82655-P (2018-2022) Políticas de la experiencia durante el franquismo; Jesús López, Dorina Martínez, Vigilar, informar, y seguir resistiendo. La labor del Grupo Especial de Vigilancia del Extrarradio de Madrid de la Guardia Civil: represión y micro-resistencias en los barrios de chabolas madrileños, 1957-1965”, 2020, in stesura nell’ambito del programma di ricerca I+D+i HAR2017-82655-P (2018-2022) Políticas de la experiencia durante el franquismo. Si veda anche Marianne Hirsch, Family Frames: Photography Narrative and Postmemory, Harvard University Press, Cambridge, 2012
[20] 22 Strafgesetzbuch, StG (Codice Penale Tedesco), 1871, con modifica del 13/XI/1998.
[21] Articolo 44.1.50. Legge 20 giugno 1952, nº 645. Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione Italiana.
[22] La mostra venne inaugurata nell’autunno del 2016 con la curatela di Manel Risques che intendeva mostrare l’impunità dei simboli della dittatura in periodo di democrazia raccontata nello specifico attraverso tre sculture: la Vittoria, la Repubblica (La Flama) e la statua equestre di Franco. La Vittoria e la statua di Franco vennero collocate all’esterno del museo, ma ben presto si scatenò il putiferio, poiché numerosi gruppi parlamentari si mostrarono contrari alla sua esposizione nello spazio pubblico. I partiti CiU (Convergencia i Uniò) e ERC (Esquerra Republicana), rispettivamente un partito di centro e uno di sinistra addussero al fatto che questa esposizione pubblica era una offesa per le vittime del franchismo, e gli appariva come una inutile provocazione dato che quello non era il luogo adatto, dato che il Born CCM (inaugurato nel 2013) era stato concepito come il museo memoriale della fine dell’indipendenza della Catalogna del 1714 dopo la sconfitta di fronte alle truppe di Filippo V. Dall’altra parte, PP (partito Popular) e Ciutadans, partiti di centro-destra si avvalsero della motivazione che l’esposizione mirava a riaprire ferite del passato. Il Commissario per i Programmi sulla Memoria del Comune di Barcellona, Ricard Vinyes, tuttavia, decise di andar avanti con la mostra, probabilmente confidando nel civismo dei cittadini di Barcellona che avrebbe comunque permesso di esporre in strada quei simboli senza alcun rischio per il pezzo (anche se alcuni tecnici comunali già avevano fiutato che l’opera non sarebbe ritornata intera), né per il Comune stesso. Sin dal primo giorno della mostra, la statua fu soggetta a diversi attacchi: sputi, lanci di uova e di pittura, graffiti, le furono appese bandiere indipendentiste e una bandiera del movimento LGBT, sul busto di Franco senza testa gli fu posta la testa di un maiale macellato e in braccio al cavaliere una porta di legno e una bambola gonfiabile. Nella notte del 19 ottobre, un gruppo di persone rovesciò l’opera al suolo, che nella caduta si danneggiò vistosamente spezzandosi in tre diversi punti. Quella stessa notte, l’amministrazione comunale dovette procedere com il ritiro dei resti della scultura -sembravano elementi della copertina di un nuovo disco dei Sex Pistols- che simbolicamente lasciarono la piazza su di un camion del settore municipale della Gestione dei Rifiuti Urbani. I pezzi della scultura vennero depositati nella Zona Franca, all’aperto, coperti da alcuni teli di plastica e vigilati dalle camere di sicurezza del recinto del magazzino del Museo di storia di Barcelona (MUHBA).
[23] Il termine usato nel testo in spagnolo è re-presenta che unisce il termine presenta (presentare) con l’aggiunta di re- formare il termine representar (rappresentare), producendo così un gioco di parole presentare e rappresentare.
[24] Sulla spettrologia, si veda Jorge Luis Marzo (a cura di), Espectres, ICUB&GREDITS, Barcellona, 2017.Link
[25] Trad.: Tutto nuovo sotto il sole
[26] Dirección General de Seguridad.
[27] Ley 52/2007, del 26 dicembre 2007, conosciuta come Ley de Memoria Histórica.

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Matteo Guidi, visual artist with a degree in cultural anthropology (University of Bologna, 2011) based in Barcelona. Since 2014 he has been a professor of sociology of communication in the degree of graphic design and visual communication at the ISIA University of Urbino (Italy). Member of A / A Network (Art and Anthropology Network) and CoMoDo (Communicate Multiply Duties) and collaboratori of GREDITS (Research Group on Design and Social Transformation). He has developed several projects framed between visual art and cultural anthropology. He has participated in exhibitions, festival and biennals in national and International context.
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Jorge Luis Marzo. Art historian, PhD in Cultural Studies, professor at BAU College of Design in Barcelona and coordinator of GREDITS (Research Group on Design and Social Transformation). He has developed numerous collaborative projects related to the politics of the image. The most recent are: Las videntes. Images in the age of prediction (Arcàdia, 2021); Fantasma’77. Iconoclastia española (Tecla Sala, CCCC, UK, Solleric, 2020); Iconografía post-millennial (Morsa, 2019); After Post-Truth (Artnodes, 2019); La competencia de lo falso. Una historia del fake (Cátedra, 2018); Espectres (Virreina, 2017); Fake. No es verdad, no es mentira (IVAM, 2016); Arte en España (1939-2015). Ideas, prácticas, políticas (Cátedra, 2015). 
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Rebecca Mutell. PhD in Fine Arts from the University of Barcelona in 2016 and Degree in Fine Arts, specializing in Image from the University of Barcelona, 2007 (Extraordinary Doctorate Award for the 2014-2015 academic year). She is an adjunct professor in the Art Department and coordinator of the Culture Department in Bau, University Center for Design, attached to the University of Vic, Central University of Catalonia. Founding member of the AtelieRetaguardia Cultural Association. Heliografía Contemporánea in Barcelona (2007-2012). Since 2014, he has coordinated Factoría Heliográfica, a production and research center, which offers the planning of different services related to the audiovisual medium in Barcelona.