Participation
(In)soliti luoghi
progetti condivisi di riattivazione locale
di Cristina F. Colombo

I temi del viaggio e dello spostamento sono da sempre usati dalla letteratura come pretesto per descrivere i lati più intimi della vita dell’uomo e la sua propensione a spingersi verso l’ignoto o l’altro da sé. I soggetti vivono incessanti peregrinazioni alla ricerca di identità ed equilibri che tardano ad arrivare, muovendosi sullo sfondo di paesaggi metropolitani o rurali, urbani o naturali, di complessità o possanza tanto sorprendenti da assumere i tratti di personaggi compartecipi delle azioni dei protagonisti. Mossi da necessità, commesse o da un desiderio di scoperta e crescita, gli artisti hanno, a loro volta, vestito i panni del viaggiatore.
Capacità di muoversi o mutare velocemente, variabilità, instabilità, incostanza, ma anche vivacità e versatilità, rivestono un’importanza particolare nelle pratiche artistiche attuali, e hanno dato vita a un insieme estremamente mutevole e fluttuante di eventi temporanei e reti di relazioni.
La natura stessa del viaggio, però, presuppone che ci sia un ritorno verso un luogo eletto a propria dimora. Se è sempre più vero, come afferma Jacqueline Ceresoli, che “siamo nomadi camaleontici che diventano la città in cui vivono” (Ceresoli 2005, p. 118), il bisogno di radicamento, o quantomeno il tentativo di appropriarsi anche temporaneamente di un luogo, rendendolo più accogliente e reinterpretandolo secondo un’idea personale del dimorare, sono pulsioni che la contemporaneità non ha del tutto cancellato.
Christian Norberg-Schulz ha parlato a lungo di questi aspetti nei suoi scritti, primo fra tutti Genius Loci (1979), e le sue idee non paiono ancora superate se si considera il proliferare di progetti e iniziative spontanee volte a preservare la tipicità di ambienti particolarmente connotati.
La High Line di New York, salvata dalla caparbietà di Robert Hammond, Joshua David e di un gruppo di sostenitori e residenti del quartiere di Chelsea (riuniti nell’associazione Friends of the High Line), è uno degli esempi più eclatanti e deve il suo successo al fatto di aver conservato intatta la sua immagine anche dopo una profonda riprogettazione, che ne ha cambiato l’uso e l’aspetto, rendendola accogliente e donandole una veste “domestica”. È un progetto indicativo di come si possano conciliare identità e ibridazione, pur con le difficoltà e contraddizioni che ogni opera ambiziosa comporta.
La vita relazionale che un individuo conduce e il suo essere parte di un gruppo ne segnano profondamente l’identità e acquisiscono particolare rilevanza in luoghi, spesso interstiziali, in cui vengono attuate forme di progettazione artistica o architettonica partecipata. L’arte, in particolare, ha la capacità di catalizzare l’attenzione, coinvolgere in modo empatico, svelare energie nascoste. Irrompe in territori pubblici suscitando impressioni, reazioni, costringendo a riflettere sull’uso e l’appropriatezza degli spazi, e invitando a riscoprire il piacere e i vantaggi di una dimensione comunitaria del vivere la città, fatta di dialoghi, incontri, esperienze fisiche e percettive autentiche.
L’installazione e la performance ben si sposano allo spirito transitorio e vorticoso dell’epoca nella quale viviamo, che Zygmunt Bauman ha definito “modernità liquida” (2002; 2008, p. 67). “La vita liquida è, insomma, una vita precaria, vissuta in condizioni di continua incertezza. Le preoccupazioni più acute e ostinate che l’affliggono nascono dal timore di essere colti alla sprovvista, di non riuscire a tenere il passo di avvenimenti che si muovono velocemente, di rimanere indietro, di non accorgersi delle «date di scadenza»” (Bauman 2008, p. VIII). La “liquidità” è anche la componente essenziale dei dispositivi attraverso i quali osserviamo e giudichiamo il mondo, che ci bombardano di informazioni, ci abituano a una socialità in differita, regolata dall’accessibilità e dai tempi delle connessioni digitali, e ci proiettano in scenari incostanti, transitori ed estranei. Oggi è più che mai vero il motto di de Kooning “Content is a glimpse”,1 e un’opposizione a queste tendenze risulta quanto meno anacronistica. Ciò non significa, però, rinunciare a costruire forme solide di abitare, individuale e collettivo. In un panorama in cui gli scenari variano ancora prima che l’uomo vi si possa abituare, gesti effimeri riescono ad essere più stimolanti di molti progetti concepiti per esistere nel tempo. Si deliano come una strategia di azione utile a richiamare l’attenzione di un pubblico vasto, indurre reazioni, coinvolgere le persone e innescare processi di cambiamento, preliminare ad eventuali iniziative più stabili.
Andrea Branzi definisce l’architettura contemporanea come “un pensiero conoscitivo complesso e mutante”, che assume come riferimento le “energie deboli e diffuse di trasformazione dei territori e dello spazio” (2006, p. 16). Constatato il fallimento di molte delle ambiziose politiche pianificatorie del XX secolo e in un periodo in cui la coesione sociale si sta disgregando, diviene prioritario per l’architettura relazionarsi in modo profondo al contesto. Specialmente quando i progetti implicano delle forti ricadute a livello degli equilibri locali, occorre indagare ogni singolo luogo con un approccio sistemico, attento a come ciascuna popolazione concepisce l’abitare individuale e collettivo e struttura l’ambiente nel quale vive. Condivisione, partecipazione e inclusività sono concetti chiave per intervenire nel territorio ad ogni scala, seppure vengano ancora largamente inattuati.

La “cittadinanza creativa” è partecipazione in attività collettive preminentemente creative. Può animare comunità; può riempire un vuoto nelle vite di molti che ora non hanno uno scopo; può garantire uno status, un senso di appagamento e un’identità, e iniziare ad affrontare le cause di gran parte della discordia e dell’alienazione della società. Può persino gettare le basi per una forza lavoro più creativa e motivata. (Rogers 1997, p. 150)2

Le pratiche progettuali partecipate, attuate in campo artistico o architettonico, sono processi complessi, principalmente per la particolarità dei ruoli che deve interpretare chi vi si presta. Il corpo singolo perde valore in ragione dell’adesione e dell’identificazione in una comunità transitoria che condivide orientamenti, interessi e, soprattutto, obiettivi.
Architetti e artisti coinvolti in azioni collettive devono accettare vincoli ancora più restrittivi alla loro libertà espressiva e rinunciare alla leadership creativa di cui godono normalmente, per accogliere opinioni più ampie e disparate. Devono tollerare metodologie di lavoro atipiche, frutto della divergente preparazione culturale e professionale di chi interviene, dilatando i tempi di ideazione. Devono, inoltre, mantenere punti di vista diversi, compiendo allo stesso tempo uno sforzo di immedesimazione volto a comprendere fino in fondo le aspirazioni di una comunità, per accompagnarla in un cammino delicato di presa di coscienza, senza perdere la neutralità necessaria a dirigere un’azione corale.
Non da ultimo, il livello di esposizione a critiche e di responsabilità che comporta l’intervenire nello spazio pubblico è superiore a quello di ambiti privati o museali, dove gli interlocutori sono preparati a rapportarsi con situazioni inusuali.
Gli artisti e progettisti impegnati in pratiche partecipative rinunciano, dunque, all’esclusività autorale per vestire i panni agenti propulsori. A loro spetta la paternità dell’idea e l’avvio delle azioni volte al recupero di una dimensione comunitaria dell’abitare e del costruire, che si estende tanto a strutture materiali, quanto a relazioni sociali.
Questi interventi possono essere indagati a partire da una serie di chiavi di lettura: “Sguardi: lo spirito in moto”, “Alto voltaggio, bassa frequenza: impatti variabili”, “Trame reattive”. Messo da parte ogni lessico tecnico – inutile perché non si vuole proporre una tassonomia di interventi, né fornire linee guida e modelli –, queste espressioni sono pensate per sottolineare l’impatto sul luogo e il grado di coinvolgimento della comunità.

 

Sguardi: lo spirito in moto

L’etichetta “Sguardi: lo spirito in moto” si riferisce al livello di intervento più immateriale e volatile, e indaga la capacità dell’azione artistica di tessere relazioni sociali e rinforzare legami di appartenenza, attraverso esperienze performative partecipate.

La cultura non punta più sugli aspetti di coerenza, omogeneità per assumere quelli di produzione di significati, mettendo in rilievo il ruolo attivo di individui, gruppi, subculture, per cui si fa plurale, contrattata, azionale: si coniuga al plurale e si iscrive nella polifonia. (Fiorani 2009, p. 61)

Le parole di Eleonora Fiorani evocano da vicino le sperimentazioni di Marinella Senatore, musicista, artista e film maker, che usa a sua volta il termine “polifonia” per descrivere la forte componente partecipativa dei suoi progetti. Percorre campi come il teatro vivente, storytelling, espressioni vernacolari, danza e musica di protesta, ritualità civili, eventi di massa, servendosi di un’ampia gamma di linguaggi, che spaziano dalle performance alla video arte, film, dipinti, collage, installazioni, fotografia e musica3.
Rosas: Opera in 3 Acts (2012) è un lavoro per lo schermo girato tra Berlino, Derby e Madrid ed ha coinvolto più di 20,000 persone, oltre a tre istituzioni per l’arte: Künstlerhaus Bethanien (Berlin), QUAD (Derby) e Matadero (Madrid). Come chiarisce il titolo, Rosas è un’opera multilingue in tre atti – Perfect Lives, The Attic, e Public Opinion Descends upon the Demonstrators –, il cui libretto è stato pensato da persone reclutate su base spontanea, con trascorsi e competenze disparate e, in gran parte, nessuna preparazione professionale specifica per il compito che si sono offerte di svolgere.
Il progetto ha avuto la durata di un intero anno e si è articolato in più fasi, secondo uno schema ricorrente nelle opere partecipate di Marinella Senatore. Tutto è cominciato con l’avvicinamento al territorio e alle associazioni che vi sono insediate, il reclutamento dei partecipanti e la stesura collaborativa della sceneggiatura; questo stadio preparatorio ha previsto anche l’organizzazione di estesi corsi di formazione gratuiti sulle tecniche cinematografiche. È seguito il momento performativo, durante il quale sono avvenute le riprese nelle tre città, rendendo necessario lo spostamento di molti partecipanti da un luogo all’altro. Persino scene “dietro le quinte” sono state immortalate in video e fotografie. Infine, la postproduzione è stata un passaggio critico di revisione, riflessione e selezione, in i co-autori hanno scelto i contenuti da restituire al pubblico.
L’interesse dell’artista campana non risiede tanto nel risultato finale, quanto nel processo di realizzazione dell’impresa, che comprende il concordare sceneggiatura e tempi scenici, realizzare scenografie e costumi, trovare i luoghi più idonei in cui girare e mettere in atto le performance. Il punto nodale, tuttavia, è l’unire in una comunità coesa individui che vivono la stessa quotidianità4. Rosas, come altri progetti di Senatore, è un atto di creatività corale, mosso dal desiderio di attivare forme di aggregazione originali. È un inizio ad alto potenziale, adatto a innescare un cambiamento che può protrarsi nel tempo, grazie alle competenze acquisite dai partecipanti e ai legami stretti durante il percorso di realizzazione dell’opera. Per queste ragioni, non si può pensare alla fase preliminare come a un momento meramente preparatorio, per quanto getti le basi per la concretizzazione del progetto in un oggetto tangibile: essa stessa è un esito. Rosas ha, dunque, un significato duplice, il cui valore artistico non risiede solo nel prodotto audiovisivo, ma anche nel processo collettivo di produzione, con tutte le ricadute sociali ed emozionali che comporta. Ecco emergere l’autorialità dell’artista, di cui si può ravvisare una traccia esplicita nelle immagini di fuori scena.
Rosas è un passo di un percorso di sperimentazione più lungo e complesso, iniziato con All the Things I Need (2006) e poi via via affinato acquisendo esperienza, cimentandosi in campi tecnici diversi e confrontandosi con realtà molto eterogenee. Ne sono nati Manuale per i viaggiatori (2007), Speak Easy e How Do You Kill the Chemist? (2009), Nui simu (2010), Variations e Estman Radio Drama (2011). Le narrazioni lasciano trapelare lo spaccato di vita di una comunità in un contesto spazio-temporale preciso, senza mettere necessariamente in scena la ricostruzione di fatti o eventi, né assumendo un’impronta neorealista. Sottendono, però, dinamiche sociali, politiche, economiche e vicende personali che traspaiono nelle riprese e che vengono espresse principalmente attraverso la gestualità e il movimento del corpo, spesso più spontanei delle parole. Rosas è, ad oggi, il progetto partecipativo più ampio di Marinella Senatore ed è stato a sua volta fondante per The School of Narrative Dance, lanciato nel 2012 e attualmente in corso.
In lavori di questo tipo, l’artista è un regista. Indaga le strutture relazionali, avvia l’azione, interviene come guida e referente, è un mediatore tra gli individui coinvolti e appiana eventuali conflittualità. Lascia che i partecipanti liberino le proprie energie creative e manifestino idee, controllando l’unitarietà e la coerenza dell’insieme. Sancisce l’inizio e la fine del progetto, e in questo spicca tra attori, figuranti e collaboratori.
Il fatto che la presenza dell’artista sia comunque leggibile non intacca il carattere partecipativo delle opere, come parte della critica sostiene, poiché la loro natura è intrinsecamente artistica e non sociologica e, come tale, non esige una piena rinuncia all’autorialità (Bishop 2006, p. 181).
L’atto artistico segna una svolta e coinvolge emozionalmente tanto chi vi assiste, quanto chi vi prende parte in modo attivo, avviando un processo di presa di coscienza e riscoperta. Genera comunità temporanee, che non necessariamente si sciolgono senza lasciare un’eco, conclusi i tempi dell’azione, se non altro perché una folta schiera di persone serberà il ricordo dell’esperienza creativa collettiva. La messa in moto di spiriti – identità del luogo e insieme soggetti pensanti e dotati di sentimento – produce risonanze.

 

Alto voltaggio, bassa frequenza: impatti variabili

Alto voltaggio, bassa frequenza sono le caratteristiche fisiche delle scosse utilizzate nella terapia elettroconvulsionante: l’elettroshock.
I progetti di questa sezione trascendono i limiti disciplinari di arte, architettura e design, per colpire con l’intensità di una scossa territori dominati da stagnazione, indeterminatezza, disgregazione. Hanno una potente carica provocatoria e intendono mettere in luce le criticità del luogo che “prendono di mira”, avvicinando la comunità che vi risiede con un approccio positivo e non giudicante, che cerca di captare e convogliare energie pulviscolari latenti.
Serpentone Reload (2014) è un’iniziativa di rigenerazione partecipata organizzata da un gruppo di architetti, ricercatori e membri di associazioni locali a Potenza, presso il complesso noto come Serpentone, nel quartiere Cocuzzo.5 Il contesto con il quale i progettisti hanno deciso di confrontarsi è particolarmente delicato: una macrostruttura residenziale di dimensioni eccezionali, ubicata in una zona periferica della città interessata da fenomeni di marginalizzazione e conflittualità sociale.
Serpentone Reload si concentra sullo spazio centrale, la “Nave”, firmato dallo studio Archea nel 2010. La Nave era stata concepita per ospitare aree ricreative comuni e servizi, sormontati da un’area verde attrezzata, ma l’opera è stata completata solo in parte, la manutenzione non è regolare e gli abitanti non vi si sono mai affezionati, giudicandola piuttosto come un’imposizione e un corpo estraneo. È quindi caduta in un rapido oblio, senza quasi essere salpata.
Consapevole che l’aggiunta di ulteriori strutture non avrebbe contribuito ad avvicinare la popolazione del quartiere e a rinforzare i legami comunitari, il team ha optato per una soluzione più delicata ed effimera, incentrata sull’organizzazione di eventi, azioni giocose, performance fortemente empatiche, incontri culturali. La strategia è quella di proporre invece che imporre. “Lavorare sul ‘quasi niente’, per produrre un forte scarto in termini di immaginario”6, sperando di suscitare delle reazioni, svegliare forze locali che possano dare un seguito al progetto e avviare pratiche più concrete e continuative.
Il primo passo è stato quello di attribuire un nuovo senso al nome del luogo: “N.AV.E. Nuove Avventure Espressive”. E le navi sono diventate il filo conduttore di un laboratorio che ha fatto delle barchette di carta colorate il mezzo con cui aprire un dialogo con le persone del posto.
Gruppi di barchette gialle e rosse, sgargianti e innocue, hanno colonizzato gli ingressi della struttura, i parcheggi auto e i vani scale, pronte a sorprendere i passanti e a spingerli a seguirne la scia fin nella spina verde centrale, dove disegnano a terra campi gioco, si atteggino a fiori, delimitano e ingentiliscono salotti a cielo aperto. Il loro intento è quello di suggerire possibili forme di riappropriazione degli spazi comuni, lasciando ai residenti il compito di deciderne il futuro. Gli ambienti ipogei, invece, sono stati riconvertiti (temporaneamente, purtroppo) a luogo espositivo per mostre d’arte e fotografia, con temi in sintonia con l’identità del luogo.
Il progetto ha avuto una fase preparativa (luglio-settembre 2014) e si è concluso con un workshop (14-21 settembre 2014), al quale hanno partecipato circa 30 giovani professionisti. La comunità è stata resa partecipe da subito, attraverso interviste, il coinvolgimento degli allievi delle scuole vicine, e l’invito a collaborare alla preparazione delle barchette – utilizzando un kit fornito dai promotori del progetto – e alla realizzazione della mostra. Nei mesi successivi, l’Associazione Basilicata 1799 ha portato nella “Nave” una serie di spettacoli di danza urbana organizzati nell’ambito del Festival Città delle 100 scale7, cui sono seguiti incontri sul riuso temporaneo degli spazi abbandonati o sottoutilizzati.
L’iniziativa, per ora, non ha avuto il seguito sperato, perché è chiaro che volontà e idee non possono garantire da sole risultati a lungo termine, in assenza di un adeguato supporto istituzionale e del completamento delle infrastrutture. Ha, però, mostrato quanto possa essere semplice avviare pratiche condivise, anche senza disporre di risorse ingenti, e ha lanciato ulteriori ponti tra la comunità e le associazioni locali.

Gerardo Sassano (Volumezero architecture and landscape), Osa architettura e paesaggio, Maria Livia Olivetti (Living Urban Landscape, Roma Tre/IUAV),
Basilicata 1799 (Potenza), Serpentone Reload, Potenza (2014). Foto Salvatore Laurenzana.

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Bianco è il colore protagonista del progetto sviluppato ad Algeri da Boa Mistura, un team multidisciplinare con radici nella graffiti art e base a Madrid8. Il gruppo di artisti ha elaborato una metodologia di intervento basata sull’uso di tecniche di street art per riattivare spazi pubblici degradati e invitare e riflettere sulle potenzialità di sviluppo. Le loro azioni si esauriscono sulla pelle dell’esistente, ma sono tutt’altro che superficiali e istintive; colpiscono bersagli mirati, presuppongono una immersione nel luogo e un coinvolgimento nelle dinamiche sociali che lo dominano. I colori e le parole, generalmente brevi e iconiche, dei loro lavori puntano a trasmettere i tratti salienti e lo spirito del luogo e veicolano messaggi positivi, che possano mettere a nudo, e comunicare l’unicità di un patrimonio culturale e identitario. Questi sono i punti chiave del programma Crossroads.
La Casbah di Algeri è stata dichiarata World Heritage Site dall’UNESCO nel 1992, ma da allora ha subito un lento declino. La tradizionale pittura bianca che copriva i muri delle case è stata sostituita negli anni da strati di altri colori, che via via si sono sgretolati, lasciando emergere le tracce di ciò che nascondevano. Al Karama (2013) porta in luce questa storia, utilizzando i resti di antiche vernici per disegnare nuove scritte nell’idioma locale.
Le pareti degli edifici che si affacciano su alcune piccole piazze, slarghi o strade sono state verniciate di bianco, tralasciando alcune porzioni da cui emergono, in negativo, parole ispirate dal luogo e dai suoi residenti: nobiltà, ospitalità, amore, bellezza, luce, siamo luce, accarezza ogni istante, tutti condividiamo lo stesso sole. La realtà locale è stata ritratta e svelata dopo un processo di avvicinamento degli artisti ai residenti, coabitazione, condivisione e dialogo, che ha portato anche alla partecipazione di alcuni di essi alla realizzazione materiale delle opere.
Gli interventi hanno mostrato come sia possibile rinnovare l’antico splendore senza dover rinnegare nulla del passato più prossimo, che è comunque parte imprescindibile dell’identità presente. I vuoti lasciati sulle superfici imbiancate sono stati colmati da un rinnovato orgoglio per la ricchezza culturale della civiltà che ha fondato e abitato la città.

Boa Mistura, Al Karama, Algeri (2013). “Tutti condividiamo lo stesso sole”. Foto Boa Mistura.

 

“Alto voltaggio, bassa frequenza: impatti variabili” è una modalità di azione spettacolare, capace di catturare l’attenzione pubblica con gesti fugaci e reversibili, volti a svelare potenzialità nascoste, offrire una rappresentazione della collettività pensata per far riflettere in primis la comunità stessa. I progettisti e gli artisti coinvolti selezionano un obiettivo, elaborano strategie di intervento con lo scopo di combattere disaffezione e immobilismo, ma non temono di confessare che la popolazione è fortemente coinvolta nelle loro opere e ne determina sviluppo ed esiti.

 

Trame reattive

La città è cosparsa di piccoli “luoghi eccelsi”, dai caffè alle panchine, e di grandi luoghi emblematici. Per luoghi eccelsi si intendono luoghi e spazi della socialità, intrisi di affetti, di emozioni comuni, che hanno la capacità di esprimere la tribù che vi abita, lo spazio vissuto. (Fiorani 2009, p. 19)

Tramare: ordire, architettare, macchinare, intrigare, cospirare.
“Trame reattive” sono progetti che trascendono i limiti disciplinari di arte, architettura e design, per intervenire in spazi urbani interstiziali, innestando nuove attrezzature capaci di renderli luoghi attrattori: punti di respiro in panorami densamente edificati e nodi di scambio, ricavati laddove mancano centri forti che assicurino una vita relazionale autentica.
“Home Is Not a House” – Reaction Meds LX 2013, promosso da Forja a Lisbona9, è una storia di recupero di un vuoto inutilizzato, entro un contesto dove i rapporti di vicinato sono ancora stretti, mentre scarseggiano gli spazi comuni adatti per sostare, darsi appuntamento, incorrere in incontri fortuiti e in chiacchere intergenerazionali.
Forja ha promosso un micro-intervento leggero di ridisegno urbano e ha trasformato un sito anonimo in un “interno”. Le pareti degli edifici circostanti e i muri che delimitano la piazza sono stati regolarizzati e dipinti di un giallo acceso; è stata poi eretta una struttura in tubi Innocenti, che ricorda la sagoma dell’edificio che un tempo occupava il lotto. La scelta di servirsi di un’impalcatura rivestita di tessuto in pvc risponde a esigenze di economia di mezzi, ma esprime anche altri significati: evoca un cantiere edile, il momento della costruzione, dunque un cambiamento in atto. Il drappeggio completa l’architettura, proiettando ombre velate e leggere, che celebrano le trame fragili e i rapporti labili, ma concreti, che si possono consumare in questo spazio urbano riconquistato. Una mappa tracciata sulla parete che si affaccia sulla strada indica i luoghi pubblici del vicinato ed accoglie il visitatore occasionale invitandolo ad esplorare quartiere di Graça.
Progetti di questo tipo non prevedono ruoli meramente direttivi per gli artisti e i designer che li avviano. Nascono, infatti, da una conoscenza del luogo e delle abitudini degli abitanti che presuppone una frequentazione quotidiana e una condivisione profonda di bisogni e aspirazioni. Ciò porta necessariamente a una compartecipazione collettiva a tutte le fasi del progetto, dall’ideazione alla realizzazione, che rinsalda ulteriormente i legami comunitari. Il completamento di Reaction LX è sancito da uno scatto che ritrae il gruppo di giovani che ha preso parte alla riconversione; quell’istante, però, non è altro che l’inizio del nuovo ciclo di vita della piazza.
Sono “trame reattive” le azioni che vogliono conferire senso a territori deboli, rendendoli spazi animati e cari alla popolazione che li abita. I partecipanti sono avvicinati da un interesse collettivo e dalla necessità di preservare, in un tempo più o meno lungo, ciò che hanno realizzato, prendendosene cura10.

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Forja, “Home Is Not a House” – Reaction Meds LX 2013, Lisbona (2013). Elaborazione grafica Forja

Forja, “Home Is Not a House” – Reaction Meds LX 2013, Lisbona (2013). Foto Forja

 

L’autorialità diviene plurale, si perde la possibilità di discernere in modo chiaro il contributo individuale, ma è la natura stessa dei progetti di arte, architettura e design partecipati a spostare l’attenzione su mire diverse dalla visibilità personale (Clemens 2011, pp. 20, 27). Le azioni corali puntano a stimolare l’emergere di una comunità fiera della propria capacità creativa e dell’esser parte di un programma di trasformazione che si erge a voce di una tipicità culturale. Ad artisti e progettisti viene affidato il ruolo, non semplice, di provocatori e mediatori.
Resta da chiedersi se le arti possano innescare processi di cambiamento sul lungo periodo e cosa rimanga dopo la conclusione dell’atto performativo o di azioni effimere. La risposta certamente non è univoca, perché diversa è l’attitudine mettersi in gioco delle persone, ma non si può far altro che sperimentare.

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de Kooning W., Content is a Glimpse, The Willelm de Kooning Foundation, Intervista con David Sylvester, marzo 1960, http://www.dekooning.org/documentation/words/content-is-a-glimpse [12 dicembre 2016].
Traduzione dell’inglese a cura di chi scrive.
Marinella Senatore, http://www.marinella-senatore.com [12 dicembre 2016].
Vale la pena di ricordare quanto scrive Suzana Milevska a proposito di pratiche artistiche partecipate: “Anche quando le condizioni di partecipazione degli spettatori o di un gruppo selezionato o di una comunità di persone sono definiti chiaramente, è sempre il ‘noi’ che deve essere creato perché un progetto inizi a funzionare come partecipativo. L’altra parte di questo ‘noi’ è l’artista, il curatore, l’istituzione d’arte, persino lo stato (in qualche progetto di arte pubblica), che presumibilmente si preoccupa dell’invisibile, marginalizzato o dimenticato ‘altro’ come della controparte dello stesso ‘noi’”. (2006)
Il progetto è stato ideato e diretto dall’associazione Basilicata 1799 (Potenza), dall’architetto Gerardo Sassano (Volumezero architecture and landscape, Potenza), insieme allo studio Osa architettura e paesaggio (Roma) e all’architetto Maria Livia Olivetti (progetto di ricerca Living Urban Landscape, Roma Tre/IUAV). Al laboratorio ha collaborato anche l’associazione NUR ricerca/azione.
Sassano G., Olivetti M. L., Osa architettura e paesaggio, “Serpentone Reload: N.Av.E. Nuove Avventure Espressive”, Divisare (ottobre 2014), http://divisare.com/projects/271470-gerardo-sassano-maria-livia-olivetti-osa-architettura-e-paesaggio-serpentone-reload?utm_campaign=rassegna&utm_content=image-project-id-271470&utm_medium=email&utm_source=rassegna-id-32 [12 dicembre 2016].
Il programma degli eventi e informazioni sulle compagnie coinvolte sono disponibili su: Città delle 100 Scale Festival: Rassegna Internazionale di Danza Urbana e Arti Performative nei Paesaggi Urbani, 6a Edizione, http://www.cittacentoscale.it/index.php?option=com_content&view=article&id=330&Itemid=100376 [12 dicembre 2016].
Boa Mistura, http://www.boamistura.com [12 dicembre 2016].
Cargo Collective, Reaction LX, http://cargocollective.com/FORJA/REACTION-LX [12 dicembre 2016].
10 Per un approfondimento si vedano anche le iniziative di “soft urbanism” promosse da associazioni come atelier d’architecture autogerée. AAA si concentra su progetti di micro-scala che affrontano il vivere quotidiano da prospettive ecologiche, mettendo in atto pratiche di resilienza e negoziazione, per favorire modi di abitare “attivi”, coesione e biodiversità sociale e culturale. http://www.urbantactics.org [12 dicembre 2016].

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Cristina F. Colombo è un architetto, Ph.D. in “Architettura degli interni e allestimento” e docente a contratto presso il Politecnico di Milano, dove è stata coinvolta in progetti di ricerca nazionali e internazionali, come MeLa – European Museums in an Age of Migrations (EU – 7th Framework Programme, 2011-2015) e TRACES – Transmitting Contentious Cultural Heritages with the Arts: From Intervention to Co-Production (EU – Horizon 2020, 2016-2019). Le sue ricerche vertono su temi museografici e inerenti l’architettura d’interni: allestimento ed esposizione dell’arte contemporanea, musei diffusi e valorizzazione dei patrimoni locali, attivazione dello spazio pubblico.