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“La mia libertà non ha l'ultima parola, io non sono solo”
La Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea questioning sulla propria identità museale
di Giovanna Brambilla

La frase che dà il titolo a questo intervento è tratta da un saggio cruciale nella produzione del filosofo Emmanuel Lévinas (Lévinas, 1996), che mette al centro del suo pensiero la relazione del sé con l’Altro che si presenta allo sguardo, costruendo un rapporto che non può sostanziarsi né attraverso il solo sapere, né attraverso i meccanismi di ogni processo di relazione. In questa elaborazione egli pone al centro la parola, che svela il pensiero e contribuisce a creare una dialettica che porta ad accogliere l’altro senza imporsi, a confrontarsi senza distruggerlo, con un atteggiamento di apertura e ospitalità. Attraverso lo sguardo dell’Altro su di me, quindi, io vado anche a costruire la mia identità e il mio modo di stare al mondo.
Ospitalità… già, il museo dovrebbe essere luogo dell’ospitalità per eccellenza, soprattutto quando si pensa che ospite è sia colui che accoglie sia colui che è accolto; nei musei partecipativi, quelli che hanno caparbiamente costruito una rete complessa di relazioni dialogiche con l’esterno, questa parola ambigua può essere il filo d’Arianna da adottare senza alcuna reticenza. Chi entra in un museo, infatti, in qualche modo è chiamato, con la sua presenza, a accendere le luci nelle sale, trasformando un deposito in una istituzione pulsante e generativa, è il padrone o la padrona di casa, che apre le persiane e leva le lenzuola dai mobili, mentre il personale dei musei dovrebbe essere visto come la schiera di maggiordomi e domestici che rende la permanenza nella dimora il più possibile piacevole, degna di essere ripetuta.
Nella primavera del 2020, i musei hanno dovuto interrogarsi – ognuno secondo le sue caratteristiche, la sua relazione con il territorio, le sue scelte espositive – su quale fosse la strada da prendere. Nelle sale vuote, sigillate e vietate alla vista e al passo, nel silenzio di voci che non si sentivano più, nelle nostre case, da cui ci sembrava di lavorare come partigiani clandestini, in uno smartworking che, più del solito, ipnoticamente ci faceva vedere come sfumati i confini tra vita privata e lavoro, ci siamo chiesti quali fossero le scelte migliori. In GAMeC abbiamo puntato sulle persone, perché senza di loro le opere non hanno significato; tra le molte iniziative, una ha trovato ispirazione nell’International Museum Day, dedicato quest’anno a Musei per l’Uguaglianza: Diversità e Inclusione. Ovviamente il titolo dell’IMD non è mai così blindato da impedire di parteciparvi con generosa creatività, ma la scelta di ICOM Italia è stata di sottolineare il tema della diversità e dell’inclusione in modo più circoscritto – legato alla relazione tra musei e identità di genere – rispetto a una generica campagna che andasse a strascico, pescando qualsiasi proposta potesse, anche solo per lontana parentela, entrare nel mucchio.
Se pensiamo che “la mia libertà non ha l’ultima parola, io non sono solo” sia un’affermazione credibile, allora un museo non ha mai un’autodeterminazione legittimata; la libertà nelle scelte della programmazione, e nell’attività dei Servizi Educativi, hanno sempre condiviso il timone con l’Altro, di volta in volta identificato nella marginalità, nella diversità linguistica, nella fragilità economica e sociale, nel disagio psichico, nell’età avanzata che mette a dura prova la dignità. Ma l’Altro è inesauribile, e la perfezione è sempre un desiderio, mai uno stato di fatto, così è stato possibile inserirsi nell’IMD con una riflessione, già meditata da tempo, che doveva concretizzarsi in un percorso in museo – poi cancellato per il lockdown – legato alle espressioni di genere e all’orientamento sessuale.
“Io non sono solo” significa anche che non ci si muove mai a tentoni nell’oscurità di questioni delicate, ma si cerca sempre di avere dei compagni di strada, e Festival ORLANDO. Identità, relazioni, possibilità, nella persona di Mauro Danesi, è stata una scelta immediata, anche per una relazione costruita negli anni.

Performance di Bilicoteatro al Festival ORLANDO 2015, Bergamo Piazza della Libertà - fotografia di Valentina Mussi

Come è il nostro museo nello sguardo dell’Altro? Nella percezione di chi sfugge alle etichette normative dei censimenti maschio/femmina, di chi aggira le definizioni, di chi vive in modo fluido le scelte legate alla propria vita, ai propri affetti e alle proprie relazioni? Come il mondo queer considera i musei, e nello specifico il nostro museo? L’idea, un’idea che da sempre è alla base della nostra progettualità, è che non ci si inventa con guizzi creativi, decisioni con risonanza mediatica, passi più lunghi della gamba. Si hanno sempre delle responsabilità nei confronti dei pubblici, siano essi by habit, by chance e by surprise (Da Milano, Gariboldi, 2019), ed è necessario acquisire consapevolezza su un tema confrontandoci con interlocutori e interlocutrici che siano protagonisti/e, attori e attrici delle questioni che desideriamo affrontare. Di qui la scelta di partire in questo nostro nuovo viaggio, mollando metaforicamente gli ormeggi, scrivendo una lettera aperta e inviandola a persone o associazioni, individuate con criteri che tenevano presente la prossimità territoriale, l’attivismo culturale, la disponibilità al confronto, la relazione con la città.
Della Lettera aperta per la costruzione di un percorso. In collaborazione con Festival ORLANDO, reperibile sul sito della GAMeC, si riportano integralmente i due quesiti [1]:

  1. La diversità di genere e/o la vostra preferenza sessuale-affettiva ha in qualche modo condizionato la fruizione dei luoghi di cultura, in particolar modo i musei? Ne sono nate sensazioni di esclusione? Di distacco nonostante la fruizione? O di piena consonanza? Su quali livelli?
  2. Che cosa, dal vostro punto di vista di possibili fruitori/trici o di effettivi fruitori/trici, desiderereste che il museo mettesse in opera per potere sentire realizzato l’obiettivo di un’inclusione, di una fruizione partecipata o di una cittadinanza culturale attiva? In quali ambiti (strutturali, informativi, di curatela, formativi, di personale attivo presso il museo…) pensate sia fondamentale agire per raggiungere gli obiettivi sopra indicati?
    Ciò che mi piacerebbe fare con voi sarebbe adottare una posizione di ascolto e dialogo, capace di smontare quelle dinamiche discorsive e rappresentative invisibilizzanti e sovradeterminanti delle soggettività queer, creando uno spazio, seppur virtuale, circolare, in cui parlare con altri/e, provando a costruire insieme riflessioni e buone pratiche volte ad allargare lo spazio di inclusione e accoglienza di musei e luoghi della cultura.

Le risposte pervenute si sono sovrapposte, intrecciate, compensate, facendo apparire con una certa chiarezza la percezione che si ha della GAMeC, e con essa dei musei e dei luoghi di cultura; ne sono emersi alcuni macro temi, affrontati con sfumature diverse, se non, a volte in contrasto.

Cherchez la femme
Se, in generale, si lamenta l’elemento dominante di una cultura e di uno sguardo maschile nelle scelte espositive dei musei, e nelle loro collezioni permanenti, parimenti si rivendica la specificità nell’approccio femminile alla rappresentazione della realtà attraverso le arti visive, mettendo in circolo soggetti innovativi legati al matriarcato, andando a infrangere tabù, evidenziando la pratica dell’etaismo, ovvero di quell’atteggiamento che penalizza solo le donne usando come criterio l’età. Emerge una sincera consapevolezza del potere che i musei possono avere nell’influenzare l’opinione pubblica e il comune sentire, e la percezione che possano essere agenti di cambiamento nella diffusione di atteggiamenti oppositivi verso l’omofobia e la transfobia. Così, ai musei si chiede un’attenzione all’educazione al patrimonio con strumenti che consentano di conoscere le biografie di artisti e artiste, molti dei quali omosessuali o queer, per scardinare pregiudizi, diffondere una valutazione estetica delle opere che non consideri l’orientamento sessuale come discrimine. Opere di artiste e artisti non binari potrebbero educare a un pensiero critico non “tollerante” – il che comporterebbe l’esistenza di qualcosa da tollerare – ma curioso, aperto, capace di crescere mettendosi in relazione con l’altro da sé, contribuendo a creare una reale cittadinanza culturale.
Questa osservazione, che ha profonde radici nelle vicende storiche dei musei, dovrebbe però essere stemperata da due precisazioni che mi sembra corretto fare: ovviamente le collezioni dei musei sono segno e indizio della cultura che le ha prodotte, è ormai nota la ricognizione, dilatata nel tempo, che le Guerrilla Girls hanno compiuto, ad esempio, nel Metropolitan Museum, con l’opera, in forma di poster, Do women have to be naked to get into the Met. Museum? del 1989, replicata negli anni successivi, in cui si sottolineava che meno del 5% degli artisti nella sezione dell’arte moderna erano donne, mentre l’85% dei nudi erano femminili, e la proporzione non cambiò significativamente nell’arco di vent’anni. Marchiata a fuoco da uno sguardo maschile, la vicenda collezionistica dei musei tradisce senza trasalimenti questo imprinting dominante [2], e difficilmente si potranno fare accessioni, che riequilibrino il rapporto, legate ai secoli prima del XX, anche per una minore accessibilità delle donne ai palcoscenici dell’arte. È vero, però, che lentamente si nota un’inversione di tendenza, sia nelle nomine delle direzioni dei musei – nei dodici musei della Direzione regionale Musei della Lombardia le direttrici sono tutte donne – sia nelle artiste che calcano la scena internazionale, così come nelle riscoperte, negli studi e nelle esposizioni legati ad artiste del passato [3].

Inclusione. Totem e tabù
La parola “inclusione”, diciamocelo, inizia a starci stretta. L’abbiamo usata moltissimo negli ultimi vent’anni, quando era la linea Maginot di una serie di ricerche e azioni che venivano condotte da molti musei per fare dell’accessibilità l’obbiettivo primario dell’educazione al patrimonio. Tutti devono potere entrare in museo, potere scegliere se visitarlo o no, avere strumenti adatti, supporti mirati, facilitazioni per comprendere ma anche risorse per approfondire, politiche culturali che non escludano, ma aprano porte. Adesso resta una parola importante, ma quello che sottende forse è frustrante, esprime dei modi di sentire che numerosi musei non sentono più come propri. Significa che il museo esclude, ecco perché ci sta stretta, e ogni volta che la riferiamo a un possibile target – diversità e inclusione – mette il dito nella piaga del fatto che non tutti i musei sono, in fondo accessibili. Inclusione, poi insinua anche il pensiero che il museo sia presidio consapevole di una cultura dominante che vuole includere, inglobare, assimilare a sé le diversità, interpretazione molto pericolosa, perché sembra negare una zona franca di percorrenza, che ci consentirebbe di leggere «la diversità della culture in termini di scarto; invece dell’identità, in termini di risorsa o di fecondità» (Jullien, 2018). Così afferma François Jullien, con una frase che potremmo declinare agevolmente sul campo del gender e della sessualità. Però “inclusione” l’abbiamo usata nella nostra lettera, si potrebbe obbiettare. È vero l’abbiamo usata, era l’International Museum Day a proporla, ed è una parola su cui comunque tacitamente si concorda, ma nelle risposte è emerso quanto, in effetti, a molti sia suonata non appropriata per definire una politica che vede i musei non tanto includere, quanto ignorare le persone LGBTQ+.
Un’associazione, ad esempio ci ha detto “l’inclusione in ambito museale riguarda più le persone portatrici di handicap che non le LGBTQ+”, dimostrando di non rilevare una possibile chiusura o mancanza di attenzione, ed è questo l’elemento più evidente. Simone Facchinetti approfondisce la questione, con un punto di vista sulla base del quale la percezione o meno di una discriminazione o di inclusione non riguarda i musei ma le persone, perché il condizionamento vede nel modo di vivere il proprio orientamento – dichiarato o meno – un fattore cruciale in questa percezione di spazi, luoghi e relazioni. Francesco Mazzucotelli concorda nel trovarsi a proprio agio in musei e gallerie, dove l’insofferenza, se c’è, nasce quando si percepisce un atteggiamento elitario e escludente, originato però da un settarismo culturale, non a scelte legate a identità e orientamenti sessuali. Ci è stato risposto, da un altro interlocutore, Julio Alterach, mediatore della GAMeC, che “forse parlare di inclusione automaticamente implica accettare ed evidenziare la differenza e la differenziazione. In un mondo senza differenziazione vera non si parla mai di inclusione. Ad esempio le quote rosa nelle aziende esistono perché viene accettata la differenza uomo/donna, perché non esistono le quote baffuti, le quote dei biondi, le quote di quelli che hanno orecchie piccole. Non esistono, perché non si pone la differenza in questi ambiti”. E non è l’unico a notare la sfumatura linguistica e la difficoltà di riconoscere in un termine come inclusione un ambito di riferimento al proprio vissuto. Così Mauro Danesi cita in proposito il detto inglese “the elephant in the room”, cioè a major problem or controversial issue whic is obviously present but is avoided as a subject for discussion. Sue queste parole, perfette per centrare un problema che forse è difficile definire con lucidità:
“Molto spesso i problemi più grossi ed evidenti sono così pervasivi che nemmeno ce ne accorgiamo: non ci accorgiamo di discriminare, ma spesso nemmeno di essere discriminati. Entriamo nel mondo e pensiamo che tutte le persone che incontriamo rispecchino i nostri schemi personali, le ricopriamo con le nostre aspettative e regole. È difficilissimo rendersi conto che ci sono altre possibilità e tenerne conto. Nel mio caso, se isolo in particolare l’elemento della mia omosessualità, uno dei problemi è l’eteronormatività che mi obbliga ad una piccola ma costante fatica (il famoso minority stress)”.
Emerge quindi il problema dell’assenza, ce lo restituisce anche Gianluca Spitalieri: “Non ho mai avuto sensazioni di esclusione sul piano discriminatorio, ma sul piano dell’assenza, che è anch’essa una categoria politica. Assenza di proposte di letture ambiziose, di materiali in mostra che esprimessero una volontà, una narrazione articolata rivolta a tematiche di contaminazioni fra mondo culturale, questioni di genere e orientamento sessuale”.
Il museo, nato come luogo che cerca di restituire la presenza di spazio e tempo attraverso le proprie scelte espositive, emerge quindi come luogo non tanto di esclusione quanto di non considerazione, di autonormatività, di assenza silenziosa, ma rilevata.

Restroom come paradigma
L’accessibilità, la percezione di quella comfort zone che il museo vuole essere, passa quindi attraverso molti piccoli indizi, ma alla base c’è, più di ogni altra, la percezione visiva. Scritte, testi, frasi, cartelli, questionari, molto spesso annullano, senza che ne siamo consapevoli, quelle scelte operative, espositive e culturali, che raccontano di un museo impegnato per essere veramente aperto, nel senso della disponibilità al dialogo, alla propria messa in discussione, alla mediazione con realtà differenti. Ed ecco che in una di queste risposte, di Famiglia SantaFe, veniamo messi in guardia dal pensare che il segno grafico dell’asterisco possa essere «usato come un salvacondotto del politicamente corretto. Come un lavaggio di coscienza che al suono di “w l’asterisco, siamo tutt* divers*”, coopti le vite della soggettività queer, senza renderle realmente visibili. Riducendole a ingranaggi della macchina del rainbow washing». Ci è stato chiesto di comprendere cosa significa queerness, un concetto che «non ha a che fare solo con identità e preferenze sessuali, erotiche e/o affettive», ma che rivendica una genealogia fatta di «sobborghi popolari, panchine, strade, assalti della polizia, i “frocio” urlati in faccia, la clandestinità», una serie di fattori storici, sociali e politici che danno vita a un atteggiamento che questiona il mondo, lo interroga, è in grado di assumere un punto di vista capace di indagarne la complessità e le sfumature.
Ed ecco che l’attenzione alle parole, parole che sono azioni, ci viene suggerita come una delle strategie: i questionari con l’obbligo della scelta M/F, le didascalie, le indicazioni sui bagni, possono non solo andare strette a chi non si riconosce in nessuno dei due sessi ma, scendendo più in profondità, possono fare percepire una non inclusione, l’esclusione, l’essere lasciato fuori, la censura silenziosa.
Non c’è una consonanza univoca su questo tema, di nuovo; una riflessione molto acuta, sempre di Francesco Mazzucotelli, trova problematico che l’accoglienza delle percezioni personali possa diventare una visione del mondo in cui esistono infinite verità, con l’orizzonte di un mondo in cui esistono solo prospettive e narrazioni, segnato da una visione fortemente individualista, a misura del singolo, con il rischio di un certo settarismo.
Fau Rosati, Sara Marini e Alessia Santambrogio hanno fatto dei bagni proprio un paradigma di riflessione, perché dati per scontati, interiorizzati e naturalizzati tanto da non metterli discussione, rendendo così ancora più forte il meccanismo «che trasmettono nell’essere rigidamente divisi in maschi e femmine, un ordine di genere binario e cis-eteronormativo, il quale stabilisce chi è in place, nel posto giusto, e chi non lo è, cioè chi non incorpora e/o esprime il binarismo di genere; sancendo così chi è fuori norma, out of place, fuori luogo».
Se penso che in inglese i bagni sono Restroom, associando quello spazio all’idea del riposo e del sollievo, emerge molto forte l’istanza che in questa risposta ci viene espressa, cioè che, agendo su questo versante, per fare sentire le diverse soggettività sempre in place, una cultura realmente inclusiva e accogliente deve parlare e concretizzarsi anche in spazi periferici rispetto al sistema museo, come sono i bagni.
Per un museo che ha da sempre lavorato sull’accessibilità, come la GAMeC, questa affinata consapevolezza, – che basta un segno per fare sentire un visitatore “non rappresentato” nel museo – ci impone ora una rivisitazione della nostra comunicazione. È un processo lento, perché i suggerimenti e le soluzioni adottabili non sono mai univoche e universalmente accettate come valide, ma la negoziazione ci piace, e confrontarci, come stiamo facendo in questi giorni, con persone disponibili a farci da interlocutrici ci sta aiutando ad avere uno sguardo più competente e meno superficiale.

To do list
Da tutte le mail ricevute è emerso quindi un pluriverso di voci, a volte risonanti con una forza percepibile, altre volte capaci di visioni immaginifiche, ma per noi utili come traguardi, altre volte frustrate dallo sconforto.
Stefania Girelli, attiva anche in numerosi progetti di approfondimento di mostre, ha evidenziato come esistano ancora molte paure, derivate da formazioni inadeguate, che fanno stare i musei un passo indietro rispetto alla possibilità di affrontare, con delicatezza ma con competenza, tematiche legate a sessualità, violenza, dominio, andando a scegliere aprioristicamente quale pubblico può essere coinvolto in questi approfondimenti [4]. Mauro Danesi chiede che il museo metta in atto «un pervasivo allargamento degli spazi di pluralità riconosciute con pari dignità e valore, nelle pratiche quotidiane prima che negli eventi speciali», sottolineando quanto l’atteggiamento dei luoghi di cultura possa avere delle ricadute forti e importanti nella società, e che quindi questo carichi simili istituzioni di una responsabilità non indifferente, per non replicare all’infinito nella struttura, nelle pratiche e nei contenuti, le gerarchie dominanti. Anche Gianluca Spitalieri ritiene «che l’idea di promuovere riflessioni critiche su quanto viene rappresentato o vi è da rappresentare sia utile culturalmente e politicamente. Soprattutto se è a beneficio in particolar modo di gruppi sociali storicamente marginalizzati».
Ci viene chiesto di essere questioning. Famiglia SantaFe ci scrive che decostruire «è una pratica collettiva», che necessita di una formazione per costruire un processo in grado di cambiare la visione delle persone, e di formare un lessico realmente condiviso, non solipsistico e inaccessibile, ma nemmeno naif e ambiguo nel consolidamento di pregiudizi e luoghi comuni. Così ci propone di vivere un «laboratorio di questionamento permanente», capace di porsi domande scomode, ma non è sola: quasi tutti ci invitano a una formazione, rivolta allo staff e alla collettività, per decostruire pregiudizi e agire come motore di cambiamento sociale [5]. Simone Facchinetti sottolinea, in una possibile formazione continua che il museo attivi nei suoi spazi e tempi quotidiani, un’attenzione ai giovanissimi perché «sono loro che dobbiamo tutelare. Mi sento diverso e escluso se mi si tratta come tale, altrimenti sono come tutti gli altri. Che sensazione stupenda!». Anche il suggerimento di fare raccontare al museo storie di icone del mondo dell’arte che hanno attraversato turbamenti, difficoltà, frustrazioni, per aggirare la percezioni di vissuti di solitudine, viene proposto come strategia, anche per dimostrare, senza alcuna censura preventiva, quanto persone LGBTQ+ abbiano contribuito in modo straordinario all’arte di tutti i tempi, includendo anche – come suggerisce Marco Bombardieri – il tema della transfobia «fenomeno estremamente drammatico e quasi per nulla toccato dai media, che spesso sono i primi a fare un uso improprio del maschile/femminile».

Cosa abbiamo fatto come museo? Ci siamo rovesciati come un guanto, ci siamo resi conto che dentro le nostre mura, tra collaboratrici e collaboratori, nel legame con artiste e artisti, i fornitori, i pubblici, non alberga non solo alcun pregiudizio, ma nemmeno è radicata una percezione binaria sottintesa alle nostre relazioni. Il mondo in cui il museo si muove è un mondo molto fluido, per cui è normale – e con normale intendo dire totalmente indifferente nella categorizzazione che inconsciamente si copie verso l’Altro da sé – qualsiasi orientamento sessuale.
Sono più determinanti ingestibile/disponibile, geniale/banale, inaffidabile/stakanovista, con riferimenti a come artiste e artisti lavorano con noi alle mostre, come sono considerati nel sistema dell’arte, quanto duramente le persone intorno a noi lavorano per portare a termine le consegne. Come un fiume sotterraneo, però, l’eteronormatività permea molte delle modalità con cui ci interfacciamo verso l’esterno, e questa indagine ci aiuta a farle venire alla luce: ne Il Mago di Oz, a un certo punto, Dorothy si leva gli occhiali imposti per visitare il meraviglioso regno di Oz, e si accorge che la realtà è diversa; accade lo stesso in Matrix, anche se in modo più contorto. Morpheus, infatti, nome di un protagonista, che si rifà a una divinità legata al sonno, polimorfa, dice a Neo: «È la tua ultima occasione, se rinunci non ne avrai altre. Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più». Pillola blu, quindi, fine della storia. Questa la nostra scelta.

Abbiamo iniziato anni fa un cammino, collaborato con ARCI Gay per la giornata internazionale della lotta all’AIDS, ospitando una mostra e un convegno, iniziativa ricordata come importante da alcuni interlocutori, in quanto attenta a temi di cui si parla troppo poco, troppo superficialmente, e che vedono anche la diminuzione dei presidi sul territorio. Abbiamo organizzato i nostri San Valentino invitando coppie di tutti i tipi a venirsi a baciare in museo, lavorando su uno spazio desideroso di ospitare gli affetti di tutti i visitatori e le visitatrici. Anche ora, nella mostra Ti Bergamo. Una comunità, curata da Lorenzo Giusti e Valentina Gervasoni, l’opera Dance Dance Dance di Olimpia Zagnoli, che racconta di Stormé DeLarverie, Drag King che si esibiva con venticinque Drag Queen, protagonista della sommossa di Stonewell, e alcune fotografie esposte, sono materia di indagine per proposte di percorsi, rivolti al mondo della Scuola, contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, l’omofobia e la transfobia, e l’approfondimento storico legato al gay pride [6].

Olimpia Zagnoli, Dance Dance Dance 2017, Limited Edition of 30 giclee prints on Somerset Velvet

Stiamo facendo, ora, quello che ci è stato suggerito: essere un luogo di ricerca, dove poter entrare e trovare stimoli per riflettere, dove uscire sempre differenti da come si è entrati, ma, soprattutto, stiamo portando avanti una scelta che viaggia – questa volta con consapevolezza – su un doppio binario: da una parte la riflessione, condivisa con la direzione e con lo staff, su come intervenire sulle scelte linguistiche e grafiche per uscire dal loop del pensiero binario, che presuppone sempre una devianza in chi non si riconosce nella distinzione maschio/femmina. Dall’altra parte la progettazione di iniziative che seguano quella che è sempre stata la politica dei Servizi Educativi: promuovere il diritto a godere del patrimonio culturale, e credere in un’educazione al patrimonio, fatta con il patrimonio, e per il patrimonio, in cui le opere possono essere davvero il relè di un cambiamento, l’innesco della condivisione di un atteggiamento fluido e non normativo che contagi positivamente la collettività, chi ci attraversa e chi, in qualche modo, pensa che i musei, nelle loro scelte e nei loro atteggiamenti, siano credibili.
Le strade che stiamo analizzando sono molte, più nel panorama europeo che in quello italiano, e mi sento di dire che siamo distanti da quei percorsi che sono rivolti esclusivamente alle comunità queer, o che isolano chirurgicamente il tema del gender, perché sembrano avallare pericolosamente la separazione di opere e persone, giustificandola in nome di una specificità tematica. L’attenzione di Birgit Jürgenssen al tema della dominazione maschile sulle donne non era argomento esclusivamente “da gentil sesso”, ma doveva essere esplicitato e affrontato con tutti i pubblici, per non riproporre delle enclave ghettizzanti. Le immagini di adolescenti nudi nelle fotografie di Ryan McGinley, sempre alla GAMeC, sono state materiale di lavoro in una serie di interventi condotti da una nostra mediatrice, Maida Ziarati, iraniana e sciita, in un seminario per il corso di diritto internazionale dell’Università di Bergamo. Il museo parla di noi, senza remore e senza pregiudizi, aprendosi alle interconnessioni che di volta in volta nascono. Abbiamo ancora molta strada da fare, ma non ci spaventa, perché rinegoziare il nostro modo di stare nel mondo è uno dei compiti più ineludibili che abbiamo [7].
Resta, tra le mille frasi che con generosità ci hanno sostenuto in questa ricerca, un pensiero di Stefania Girelli che vorrei citare a chiusura, forse perché racconta quello che possiamo fare e che possiamo essere, per una collettività che ci attribuisce senso:

«Vorrei vedere i musei trasformarsi in mappe da ri-disegnare, mappe che possano indicare e cambiare allo stesso tempo; mappe che possano mostrare luoghi e forme e porti e approdi e valichi e sentieri. Cammini viaggi. Elementi di movimento e di stasi. Anche il nulla e l’indefinito nelle mappe possono trovare un posizionamento. Che c’erano e ora chissà. Ripercorrere quelle mappe e renderle vive ora. Trovare modi per costruirle mappe così, che da una fissità considerino possibili sogni immaginari riorganizzazioni pensieri dove le sessualità, il genere, l’orientamento si compongano e ricompongano continuamente e siano anche posto per fermarsi e stare. Dove le relazioni, l’io e il tu, siano circolari e spiraliformi e comprendere le sfumature possibili tra il chiaro e lo scuro. Quelle che si riesce e vuole vedere».

Un ringraziamento a artiste, artisti, formatrici e formatori, docenti, mediatori museali, psicologhe e associazioni che hanno condiviso con noi questa prima ricerca, in particolare a AGEDO, Associazione Genitori Canonica, Julio Alterach, Marco Bombardieri, Mauro Danesi, Famiglia SantaFe, Stefania Girelli, Sara Marini, Simone Facchinetti, Georgia Garofalo, Francesco Mazzuccotelli, Fau Rosati, Alessia Santambrogio, Gianluca Spitalieri. Un ringraziamento a Francesca Calogero, che ha partecipato, come tirocinante, a questo studio.

Note
[1] La restituzione al pubblico della ricognizione è stata pubblicata sul sito istituzionale del GAMeC, in 18 maggio 2020, in occasione dell’International Museum Day. Il testo completo della Lettera aperta è disponibile sul medesimo sito.
[2] I meccanismi di potere che hanno determinato i rapporti sociali sono alla base di molte altre scelte museologiche e museografiche, dalla costruzione dei musei a forma di tempio, alla completa rimozione della presenza di narrazioni e oggetti che rimandassero allo schiavismo, alla costituzione di raccolte che furono specchio del gusto e anche dell’influenza del mercato dell’arte. Proprio per questo il museo è non solo una scatola con dei manufatti visibili al pubblico, ma un documento storico che può e deve raccontare le dinamiche sociali, dal dominio alla partecipazione. Massima attenzione, quindi, anche al fatto che modifiche e cambiamenti non siano semplici pink washing, o atti di tokenism, che agiscano seguendo le logiche che apparentemente vorrebbero mettere in discussione, con il rischio di buttare via, come si suol dire, il bambino e l’acqua calda. In proposito si rimanda a Ciaccheri, Cimoli, Moolhuijsen, 2020.
[3] Posso citare, trattandosi di un’indagine portata avanti da GAMeC, l’attenzione per Jenny Holzer e Birgit Jürgenssen, a cui sono state dedicate due importanti monografiche, portatrici di poetiche e riflessioni che hanno investigato affetti, solitudini, prevaricazioni e stereotipi. Nel 2021, infine, una grande monografica sarà dedicata da Lorenzo Giusti, nostro direttore, insieme a Chiara Gatti, a Regina Cassolo Bracchi, futurista, astrattista, oggetto di un’importante valorizzazione, in occasione di una donazione di opere sue alla GAMeC e, contemporaneamente, al Centre Pompidou.
[4] Nel suo caso, in riferimento a una mostra di Nan Goldin, si allude alla scelta dell’Istituzione artistica di coinvolgere le ultime classi dei licei artistici e non gli istituti professionali. Si tratta di una questione che richiederebbe una trattazione più ampia e meno stringata, ma che va inserita in una disamina della relazione tra museo e scuole, che non è così semplice dipanare in questa sede.
[5] Anche su questa strada la GAMeC ha da sempre una grande attenzione ai momenti di formazione, a volte specifica, come il corso su Le relazioni educative e l’affettività tenuto nel 2019 da Stefania Girelli e dall’Associazione L’Ombelico a nostri educatori, educatrici, mediatori e mediatrici, a volte in forma di laboratorio, come quello tenuto da Chiara Bersani sul significato politico del corpo nel maggio 2019 nell’ambito del Festival ORLANDO. Identità, relazioni, possibilità, o come quello di gestione del dolore e memoria generativa, tenuto dai mediatori umanistici della Caritas e dall’artista Camilla Marinoni, per superare le fatiche legate alla pandemia.
[6] Ringrazio per l’elaborazione delle schede pensate per docenti delle scuole di ogni ordine e grado Francesca Calogero, Ylenia Lo Faro, Camilla Rancati, tirocinanti del Master in Servizi educativi per il patrimonio artistico, dei musei storici e di arti visive dell’Università Cattolica di Milano.
[7] Restano a latere alcune risposte che hanno scavalcato le nostre domande andando a sottolineare delle richieste più generiche – costi di ingresso più contenuti, indicazioni e didascalie più chiare – associate alla percezione di una poca pubblicizzazione dell’arte. Chi opera nel mondo dell’arte può stupirsi davanti a queste osservazioni – non mi riferisco necessariamente alla GAMeC, che ha una politica di accessibilità economica molto attenta, da tempo – e sentirsi lontana da tali percezioni; credo, però, che il fatto che di fronte a domande sul sentirsi a proprio agio nei musei, con riferimento al scelte non binarie e fluide legate al proprio orientamento affettivo, porti a un j’accuse di ampio raggio al mondo della cultura apra un fronte di riflessione, anche se non legato a questa ricerca.

 

Bibliografia
Ciaccheri M.C., Cimoli A.C., Moolhuijsen Nicole, Senza Titolo. Le metafore della didascalia, Nomos, Milano, 2020
Da Milano C., Gariboldi A., Audience development: mettere i pubblici al centro delle organizzazioni culturali, Franco Angeli, Milano, 2019
Jullien F., L’identità culturale non esiste, Einaudi, Torino, 2018, p. 29
Lévinas E., Totalità e infinto. Saggio sull’esteriorità, Jaca Books, Milano, 2006 (1° ed. 1961), p. 100.

Giovanna Brambilla, storica dell’arte, è la Responsabile dei Servizi Educativi della GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, dove si occupa del rapporto tra museo e pubblici, con un’attenzione alle tematiche dell’accesso. È docente di Iconografia all’Accademia di Belle Arti di Siracusa, docente del Master “Economia e Management dei Beni Culturali”, della Business School de Il Sole24Ore e del Master “Servizi Educativi per il patrimonio artistico, dei musei storici e di arti visive”, dell’Università Cattolica di Milano. Ha condotto webinar per il MIBAC e un corso per la Direzione dei Musei lombardi.