§Memorie di Famiglia
La strada per le montagne, fratture tra
memoria individuale e racconti collettivi
di Micol Roubini

Questo è il racconto di come sulle tracce di una storia familiare ho dato avvio a un progetto di ricerca sulla memoria collettiva all’interno di una piccola comunità montana in Ucraina, che si è concretizzato dopo diversi anni, nel 2019, in un film, La strada per le montagne e in diversi altri progetti installativi.

«Nella fotografia, io non posso mai negare che la cosa è stata là. Vi è una doppia posizione congiunta: di realtà e di passato[…] In latino tutto ciò si direbbe senza dubbio “interferita”: ciò che io vedo si è trovato là, in quel luogo che si estende tra l’infinito e il soggetto; è stato là, e tuttavia è stato immediatamente separato; è stato sicuramente, inconfutabilmente presente, e tuttavia è già differito» (Barthes, 2003, p.78). 

Era un giorno di giugno del 2014 e mi trovavo in un paesino di un’area montuosa dei Carpazi occidentali, in Ucraina, a un centinaio di kilometri dal confine polacco. In quelle settimane si inaspriva il conflitto con la Russia e pur trovandomi dall’altro lato del paese si intuiva ovunque una tensione mal celata. Avevo passato una decina di giorni a girare in lungo e in largo la valle e i paesi limitrofi facendo domande a chiunque avessi incontrato per strada, bussando alle porte delle case, perdendomi persino nei boschi pur di riuscire ad avere dall’alto una visione d’insieme: cercavo la casa in cui era nato mio nonno nel 1923 e per farlo avevo solamente una piccola fotografia formato 6 x 8 cm, che avevo ritrovato in maniera del tutto casuale dopo la sua morte. Ritraeva due edifici in legno e sullo sfondo dei boschi e il profilo di una montagna; sul retro era appuntata una data, 1919, l’unico dato di cui fossi certa e il luogo, Jamna, che fino a qualche settimana prima ero convinta si trovasse ancora in Polonia, paese d’origine del ramo materno della mia famiglia. Quella regione montuosa, ancor oggi mal collegata al resto del paese, come scoprì, era passata sotto l’egida russa durante la Seconda Guerra Mondiale e poi era stata annessa all’Unione Sovietica. Erano territori considerati remoti, esotici per chi veniva in villeggiatura da Vienna fin dai tempi dell’impero Austro-Ungarico, terre in cui la storia più recente sconfinava in tradizioni antiche. Qui abitavano gli Hutsuli, un popolo che viveva di caccia e pastorizia tra le montagne, oggi perfettamente assimilato al resto della popolazione, e qui, a sua volta affascinato da quel substrato di credenze arcaiche, il regista armeno Sergei Paradžanov aveva girato nel 1965 Le ombre degli avi dimenticati

Mi restavano ancora poche ore, il treno che mi avrebbe riportato a Leopoli, sarebbe ripartito verso le due di quella notte e l’indomani sarei rientrata in Italia. Così, quando inaspettatamente due impiegati del Museo dei Partigiani di Yaremche avevano riconosciuto la casa della fotografia, ero corsa in strada a prendere una maršrutka [1] e dopo quattro kilometri di statale dissestata che oramai conoscevo a memoria, mi ero ritrovata nuovamente a Jamna di fronte al cancello di quella che ancor oggi viene chiamata l’area dell’ex-sanatorio.

La strada per le montagne, Micol Roubini, 2019, still dal film

L’area, che si estendeva per circa quattro ettari, si trovava proprio al centro della valle e confinava da un lato con la strada, dall’altro col fiume e con la chiesa. Al suo interno si vedevano alcuni palazzi, probabilmente parte di un complesso alberghiero degli anni novanta, immersi in un giardino rinselvatichito in evidente stato di abbandono. Fatta eccezione per un paio di guardie armate in divisa nera e di un gregge di pecore che appariva e scompariva tra gli edifici, non c’era anima viva; non c’erano nemmeno particolari recinzioni, solo un muro facilmente scavalcabile e quel cancello fatiscente, ma era impossibile accedervi. Avevo già provato ad avvicinarmi per studiare da più vicino la casa che si intravedeva tra piante ed edifici, ma subito le guardie mi erano venute incontro minacciose e avevo desistito: cosa proteggessero con tanta solerzia non mi era dato saperlo, nessuno ne aveva idea o così mi era stato detto. 

Così, quel giorno avevo scavalcato il cancello con la fotografia in mano e avevo proseguito lungo il viale sterrato che porta diritto alla guardiola. Pochi metri ed ecco apparire da un punto imprecisato tra i cespugli una delle guardie, un uomo di mezza età, di corporatura robusta e dagli occhi glaciali. A quel tempo parlavo un miscuglio di russo di cui avevo malamente imparato poche parole in famiglia – era sì la lingua che i miei nonni e mia madre continuavano a parlare, ma per me, nata e cresciuta in Italia, era una lingua vietata, riservata agli adulti – che mischiavo a qualche frase in ucraino trascritta velocemente su un quaderno, su cui, all’occorrenza per comunicare, disegnavo in modo da farmi capire. Mostrai la fotografia riassumendo brevemente che nessuno della mia famiglia era più tornato in quel luogo e che ero nata in Italia dove si erano trasferiti nel 1957 da Mosca. Non spiegai che tutti i parenti di mio nonno erano stati sterminati in quanto ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale e che per questa ragione a Jamna si erano consumati i giorni più bui della mia storia familiare, ma aggiunsi che mio nonno era venuto a mancare qualche anno prima e che avevo deciso di intraprendere quel viaggio per conto mio. Gli chiesi di potermi avvicinare alla casa che intravedevo in fondo al vialetto. Il guardiano non si mosse di un passo, osservò con attenzione la fotografia e dopo qualche istante concluse che non era possibile. Lui che era un ex-poliziotto, aveva esperienza come fisionomista ed era fuori discussione che la casa fosse quella, tantomeno avrebbe potuto scortarmi fino a lì. Mi resi conto che fino a quel momento, pur avendola cercata ossessivamente per settimane, non avevo preso in considerazione l’eventualità che la casa sarebbe potuta realmente esistere al di fuori della fotografia; erano passati quasi cent’anni ed era una possibilità davvero remota. Mi impuntai e provai a insistere, mi sarebbero bastati pochi minuti, il tempo di raffrontare quell’immagine con l’edificio reale. La guardia, inamovibile, mi riaccompagnò fino alla strada e mi lasciò un biglietto da visita, come molti da quelle parti aveva qualche stanza da affittare e se fossi tornata in vacanza, avrei potuto contattarlo. L’assurdità di quella situazione stabilì il punto di partenza di un lavoro che mi ha accompagnata per oltre sei anni e che è confluito nel 2019 in un film, La strada per le montagne e in diversi progetti installativi.

«Come si distinguono gli oggetti immersi nel tempo da quelli che non ne sono mai stati toccati? Che cosa significa che le ore di luce e quelle di oscurità sono segnate nella medesima circonferenza? Perché in un certo luogo il tempo è estremamente immobile e in altro scorre veloce e incalzante? Non si potrebbe sostenere, disse Austerlitz che il tempo stesso, per i secoli e i millenni,  è rimasto asincronico?» (Sebald, 2002, p.112). 

Della casa a Jamna ricordo in maniera vivida, con esattezza, la disposizione delle stanze, i corridoi che profumano di abete, il freddo che si insinuava d’inverno in mansarda, l’odore delle conserve nella dispensa…Sono ricordi che ho involontariamente assimilato attraverso storie che, anno dopo anno, mi venivano ripetute. Memorie-feticcio appartenute a qualcun altro e non per questo meno reali, che per molto tempo ho dato per scontate. Figlia di genitori entrambi immigrati in Italia – mio padre è nato a Gerusalemme da madre indiana e padre iraniano – ho sempre avvertito con chiarezza un profondo senso di sradicamento. L’idea stessa di un luogo delle origini sfumava in geografie astratte ed esotiche, paesi da cui ero inevitabilmente esclusa perché non c’era più nessun legame diretto. La distanza era profonda, l’unica lingua che avevo in comune col resto della mia famiglia era l’italiano. Un italiano neutro, astratto, completamente privo di inflessioni dialettali che mia madre e mio padre avevano imparato a scuola e di cui avevo cercato di liberarmi rapidamente per contraffare le mie origini e mimetizzarmi tra i miei coetanei. 

Diversi anni dopo, il ritrovamento inaspettato di quella fotografia e di svariati documenti redatti tra il ’39 e il ’47, in russo, ucraino, polacco, che insinuavano versioni differenti di una narrazione che fino a quel momento avevo dato per certa, aprivano una voragine all’interno dell’unico territorio che pensavo di conoscere a fondo. Tutto quel che mi era stato raccontato, mi appariva dubbio, contraddittorio e pieno di omissioni. Cosa c’era di vero? Cosa era falso? Perché mio nonno aveva dichiarato di non avere mai saputo con esattezza come fossero morti suo padre, sua madre e il fratello quando invece ognuna di quelle morti era stata descritta, nero su bianco, con precisione? 

Fotografia ritrovata del 1919, collezione personale

Simbolicamente, nella realtà così come nel film, le uniche testimonianze a cui affidarmi per provare ad arginare almeno parzialmente quei vuoti, sono materiche: l’immagine di quella casa e il lungo elenco di oggetti di cui è rimasta traccia nei fogli di via delle dogane di Mosca, Varsavia e Milano, che la famiglia di mia madre portò con sé nel 1957. Fu un viaggio di sola andata, mia nonna, ebrea di Odessa, divenne apolide e non rivide mai più la madre, il padre e la sorella; mia madre aveva cinque anni. Era vietato portar via denaro contante e lo investirono in beni di valore, ma anche in vestiti e stoviglie che sarebbero stati rivenduti in caso di necessità. Per quanto riguarda tutti gli altri documenti, attestati, certificazioni che avevo ritrovato, erano inattendibili, sarebbe stato impossibile verificare le circostanze in cui erano stati prodotti sotto l’Unione Sovietica. 

Tuttavia, quella che era nata essenzialmente come una ricerca personale si è ampliata prima ancora che in un film, in un lungo processo di indagine che ho condotto per diversi anni all’interno dei meccanismi della memoria collettiva di quella comunità e dei suoi rimossi. Qualche anno fa, quando iniziai a raccogliere racconti e leggende legate alla storia di quelle valli, prima in forma di semplici registrazioni audio, successivamente come vere e proprie interviste filmate, in paese erano rimasti in vita solamente tre anziani in grado di testimoniare gli anni della guerra e quelli successivi, non meno cupi, in cui si era instaurato il regime sovietico. Circa ottant’anni separano le vicende della mia famiglia da quelle di quella valle e l’eredità di quella storia comune è ora in mano alle generazioni successive, ai figli e ai nipoti che non hanno avuto un’esperienza diretta con quanto accaduto, ma ricordano, esattamente come me, dei fatti arbitrari, di cui hanno sentito parlare. La questione è resa ancor più complessa dal fatto che Jamna si trova all’interno di un territorio di confine, la cui identità etnica, culturale, persino linguistica è mutata di continuo negli ultimi secoli, spesso in maniera brusca, in funzione di specifici interessi o di determinati equilibri geopolitici. Qui abitavano Polacchi, Ruteni, Ebrei, Armeni… e fin dalla metà del XIX secolo, quando ancora la regione apparteneva formalmente all’impero Austro-ungarico, sono numerosi i testi di eruditi e accademici che tentavano di definire una sorta di comunità nazionale in grado di porre le basi per successive entità di ordine politico. 

Come ricostruisce attentamente lo storico Larry Wolff nel testo The Idea of Galicia, History and Fantasy in Habsburg Political Culture, in questo tipo di operazioni che avevano un preciso fine ideologico la linea tra realtà e finzione è sottile. Ne sono un esempio i volumi di Hipolit Stupnicki [2] nel 1849 e di Maksimilian Nowicki [3]  nel 1865, che ricorrono a precisi censimenti topografici, di flora, fauna e insetti per delineare parametri scientifici di un’unità territoriale, i cui confini nella realtà risultavano ben più fluttuanti e meno evidenti. D’altro canto, negli anni trenta del secolo scorso, quando già da diverso tempo l’area era entrata a far parte della Polonia, le passate influenze austro-ungariche continuarono a mantenersi vive e il tedesco rimase la lingua impiegata in molte comunicazioni d’ufficio.

Schedario, 746 schede, 22x21x22 cm, Collasso Analitico - Casa Testori, Micol Roubini, 2021

Mio nonno fuggì da Jamna, in una data imprecisata tra il ’39 e il ’42, a quel punto delle genti che originariamente avevano abitato queste terre ne erano rimaste meno della metà; all’arrivo dei Russi, la maggior parte degli ebrei erano già stati uccisi. Chi aveva origini polacche o apparteneva ad altre minoranze e non era riuscito a fuggire, veniva mandato oltre il confine o esiliato ai lavori forzati in Siberia. Altri ancora, Ucraini per lo più, che provenivano da regioni diverse, venivano dislocati da un paese all’altro e finirono per stabilirsi in queste valli. Seguirono cinquant’anni in cui parlare di queste vicende era pressoché proibito.

Nel 1995, quattro anni dopo al caduta del muro, in Jenseits des Krieges, la regista Ruth Beckermann, filma i visitatori di una mostra che si tiene a Vienna sulla Wermacht nazista, Vernichtungskrieg, Verbrechen der Wehrmacht 1941 bis 1944. Nei primi minuti, si vede un ex-soldato dei reparti dell’aviazione nazista, un uomo anziano, d’aspetto distinto, che commenta con candore la propria sorpresa e sofferenza nello scoprire per la prima volta i crimini di guerra commessi una cinquantina d’anni prima, di cui, lo ribadisce più volte, non è mai stato al corrente. Il dispositivo filmico, estremamente semplice e diretto mostra subito dopo un altro visitatore: anche lui ha combattuto nei reparti della Luftwaffe, ma al contrario del precedente, commenta con pacatezza di essere a conoscenza delle violenze che le fotografie esposte documentano; lui non vi ha mai preso parte a differenza di molti suoi commilitoni. Le interviste si susseguono una dopo l’altra, lasciando allo spettatore la possibilità di uno sguardo sulla fragilità dei meccanismi con cui si ridefinisce continuamente persino la narrazione del nostro passato più recente, quello di cui per certi versi possiamo avere ancora prove tangibili, legate all’esperienza.

«Tutto ci sfugge. Tutti. Anche noi stessi […] la mia stessa esistenza se dovessi raccontarla per iscritto la ricostruirei dall’esterno a fatica come se fosse quella d’un altro. Dovrei andare in cerca di lettere, di ricordi d’altre persone, per formare le mie vaghe memorie. Sono sempre mura crollate, zone d’ombra» (Yourcenar, 2014).

L’idea centrale de La strada per le montagne, ruota attorno a una riflessione legata al presente prima ancora che al passato, non tanto ricostruzione univoca di un evento traumatico, quanto racconto delle zone d’ombra, dei vuoti che perdurano, a distanza di anni, nel presente.

In questo senso la casa appartenuta a mio nonno e quell’area inaccessibile protetta da guardie armate costituiscono il primo punto d’incontro, il pretesto da cui prende avvio l’indagine, ma l’area di ricerca è altrove. L’anno seguente a quel primo viaggio, tornata a Jamna in compagnia di un ragazzo che mi faceva da interprete, iniziammo con discrezione a prendere nota delle vite degli abitanti del luogo; fu un lavoro lungo e metodico, durato oltre tre anni e volto a costruire le fondamenta necessarie alle riprese del film vere e proprie. Ascoltammo contadini, ex-partigiani, guardaboschi, preti, insegnanti, meccanici, casalinghe, politici, guardie private, albergatori, commesse, antiquari, cacciatori, scrittori, ragazzini e anziani…Passata una prima diffidenza iniziale più che legittima, in fin dei conti ero una forestiera all’interno di una piccola comunità montana, gli incontri iniziarono a prodursi con una certa naturalezza e, a poco a poco, quelle lunghe conversazioni lasciarono spazio a riflessioni più ampie. 

Spesso le domande iniziali, sapevano di quella casa? dell’ex-sanatorio? avevano fotografie dell’epoca? … venivano disattese, ma ognuno portava altri aneddoti, racconti e riflessioni, che andavano a costruire un ritratto piuttosto complesso della storia recente di quel luogo. Circolavano versioni contraddittorie persino su quali fossero le reali attività di quelle guardie che sembravano proteggere il nulla o su come da un giorno all’altro, una ventina d’anni prima, quell’area era stata recintata e sottratta per sempre al resto del paese. Ben presto, riascoltando più e più volte quelle testimonianze, ci accorgemmo che c’era un modo preciso con cui, inavvertitamente, venivano eluse le questioni che mettevano in crisi il senso identitario di quella comunità e su cui, negli anni, era stato lasciato cadere un velo di silenzio che più nessuno aveva osato rimuovere. Il sentire comune prevedeva che Stepan Bandera e i combattenti UPA [4] suoi seguaci, che avevano operato in quella regione per scacciare l’Armata Russa durante e dopo la Guerra e che nel farlo avevano collaborato coi nazisti macchiandosi di crimini terribili, venissero sempre e solo ricordati come eroi, alla stregua di partigiani immacolati. Che in molti dicessero, quasi senza rendersene conto, che gli ebrei, così numerosi in quei territori da costituire un tempo un terzo dell’intera popolazione, se n’erano andati via. Dove fossero finiti non è chiaro. Ricordo con esattezza il giorno in cui, diversi anni dopo, quando le riprese del film erano quasi terminate, andammo alla ricerca di una lapide che era stata eretta qualche anno prima nei pressi di Delatyn, un paese a pochi kilometri da Jamna, in memoria della notte in cui duemila ebrei furono fucilati dai Tedeschi con l’aiuto della popolazione locale. Non c’erano indicazioni e ci aggirammo a lungo tra quelle poche case grigie prima di provare a chiedere dove fosse il memoriale, ma nessuno ne sapeva niente e insistemmo mostrando l’immagine che avevo trovato in rete diverso tempo prima. Il primo a rispondermi fu un uomo di mezza età che quasi urlando ci disse di andarcene da lì, il compagno a fianco aggiunse con cupo sarcasmo che la parola “memoriale”, in Ucraino non esiste. Dopo diversi tentativi ci fu indicato un sentiero abbandonato, la lapide distava poco più di un centinaio di metri dalle prime case del paese, in corrispondenza di quella che con ogni evidenza era stata una fossa comune. Su quel terreno dissestato crescevano giovani alberi dai tronchi esili, ovunque intorno il bosco prosperava rigoglioso.

Parte di questi racconti sono confluiti nel film vero e proprio, parte in una video installazione Appunti per un Film Ucraino in cui le memorie dell’anziano partigiano Petrò e di Yura, il tassista di Jamna che ha trascorso diversi anni in Siberia, entrambi protagonisti del film, si alternano a quelle di uno dei più importanti scrittori ucraini contemporanei, Taras Prokhasko e di Mikola Soya, che nel dopoguerra è stato direttore di un centro scout all’interno dell’area oggi sorvegliata da guardie.

Rispetto alla casa di mio nonno, negli anni, i dati che ho potuto ricostruire con certezza sono pochissimi, ma altresì sorprendenti e quella che pensavo fosse una storia piuttosto marginale, si è rivelata centrale per molti. Mio nonno, che frequentava un ginnasio nella città di Ivano-Frankivsk, un tempo chiamata Stanyslaviv, a una cinquantina di kilometri da Jamna, riuscì a fuggire poco dopo l’uccisione dei suoi famigliari. Non ho idea se li rivide o meno, ma la casa rimasta abbandonata divenne sede per alcuni mesi di un commando tedesco. Alla fine del conflitto fu usata dal comune come riparo per i numerosi orfani di guerra. Poi, dall’inizio degli anni cinquanta, fu scelta come sede del Прикарпатський Артек, (letteralmente Artek dei Precarpazi), uno dei più grandi centri-scout dell’Unione Sovietica e ragazzini provenienti da ogni parte vi soggiornarono nei periodi estivi e invernali fino alla fine degli anni ottanta, quando il centro venne definitivamente chiuso. Ho ritrovato alcune fotografie che mostrano giovani scout marciare in fila nel cortile, sventolare bandiere che inneggiano al comunismo dai gradini del patio di casa e ho conosciuto diverse persone, persino in città, che ricordano quel luogo bucolico, espressione di un mondo del tutto scomparso.

Sono tornata a Jamna un’ultima volta, a dicembre del 2019. Dopo diversi festival europei il film era parte di una distribuzione che prevedeva numerose proiezioni in alcune città tra cui Kiev, Leopoli, Odessa e in molti paesini sperduti. Fu un viaggio molto diverso dai precedenti. Giravamo accompagnati da organizzatori locali che cercavano di sensibilizzare le persone riguardo all’eredità storica lasciata dal secolo precedente; di guerra e Olocausto in Ucraina si è parlato poco e i vuoti dovuti alla mancanza di questo confronto con il proprio passato sono tangibili. Per me era un test, il film in sé è costruito come un noir, una sorta di battaglia a guardia e ladri con quell’area inaccessibile: questo il filo narrativo centrale su cui si intersecano man mano le storie degli abitanti di Jamna e, in maniera molto velata, i rimossi del passato. Non c’è giudizio e sta allo spettatore ricavarne le proprie riflessioni. 

A Leopoli, dove mi aveva raggiunto Bohdan Shumylovic, lo storico con cui mi ero confrontata durante la realizzazione del film, al termine della proiezione una donna mi urlò contro di avere infangato il suo paese di cui avevo ritratto il lato più oscuro. Nei giorni successivi ho attraversato quei territori che erano stati la patria di Joseph Roth, Bruno Schulz e Paul Celan, di ognuno mi venivano mostrati i luoghi in cui un tempo c’era stato un mercato, una sinagoga, un cimitero ebraico e dove ora sorgevano stazioni degli autobus, bazar e abitazioni. Presentammo il film a persone di ogni tipo ed estrazione sociale persino a scolaresche dei licei e delle medie; una sera ci ritrovammo nel mezzo del niente, in aperta campagna, all’interno di un vecchio edificio scolastico sovietico; arrivò tutto il villaggio, una cinquantina di persone, quella mattina a messa il prete aveva parlato loro della proiezione. Ogni volta al film seguivano lunghi e intensi dibattiti per me in parte difficoltosi perché mi accorgevo di rappresentare ai loro occhi quello che la generazione di mio nonno rappresentava ai miei. Ero testimone di qualcosa che avevo vissuto a mia volta in maniera indiretta. Su tutte, c’era una domanda che in molti modi affiorava continuamente e su cui ancora oggi mi interrogo. Come si può conciliare l’immagine del nostro passato fornitaci dalla Storia che tenta di introdurre una visione unitaria dei fatti, con quella ben più complessa, spesso contraddittoria e piena di lacune, costituita dalle testimonianze e dalle memorie dei singoli?

L’area dell’ex-sanatorio, Jamna, Micol Roubini, dicembre 2019

Note

[1] maršrutka, termine che indica solitamente un piccolo autobus privato utilizzato per gli spostamenti, molto comune in tutti i paesi dell’Est
[2] Si veda Larry Wolf, 2010, p.195, Hipolit Stupincki, Galicia, 1849
[3] Si veda Larry Wolf, 2010, p.212, Maksimilian Nowicki, Insecta Haliciae, 1865
[4] UPA, Ukrains’ka povstans’ka armija, Esercito Insurrezionale Ucraino, attivo tra il 1942 e il 1954

 

Bibliografia

Barthes R., La camera chiara, Collana Piccola Biblioteca, Einaudi, Torino, p. 78, 2003
Meschiari M., Disabitare, Antropologie dello spazio domestico, Meltemi, Varese, 2018
Pollack M., Galizia, viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa
Sebald W. G., Austerlitz, Adelphi, Milano, p.112, 2002
Wolf L., The Idea of Galicia, History and Fantasy in Habsburg Political Culture, Stanford University Press, 2010
Yourcenar M., Le memorie di Adriano, Einaudi, Torino, 2014
Zanini P., Significati del confine, i limiti naturali, storici, mentali, Mondadori, Milano, 2012

Micol Roubini è artista e regista. Realizza video, installazioni sonore e multimediali incentrate sulla memoria e sull’analisi dello scorrere del tempo in territori spesso marginali. Il suo primo lungometraggio, La strada per le montagne, è stato presentato nel 2019 al 41°Cinema du Réel a Parigi e in numerosi altri festival internazionali. Nel 2020 il film ha vinto il Premio Corso Salani. È co-fondatrice de l’Altauro, con cui si occupa della produzione di lavori di arte, cinema e documentario d’autore.