§anche le statue muoiono
Memoria interattiva.
Contro-monumenti in realtà aumentata.
di Roberto Paolo Malaspina e Sofia Pirandello

Jacques Le Goff sosteneva che ogni documento è anche un monumento attraverso cui le società storiche restituiscono un’immagine di sé. «Al limite» continua Le Goff «non esiste un documento-verità. Ogni documento è menzogna […] e un monumento è in primo luogo un travestimento, un’apparenza ingannevole, un montaggio» (Le Goff, 1978, p. 43). La contemporaneità si è costantemente interrogata su tale travestimento, per svelarne le condizioni che lo hanno generato. 

Il monumento pubblico è tradizionalmente considerato una materializzazione cosciente e parziale di una determinata istituzione di potere che decide di erigere per veicolare precisi messaggi e valori. Il concetto di monumento è dunque necessariamente intrecciato con quelli di memoria e materialità. Un monumento inserito in uno spazio pubblico diviene un “lieu de mémoire” (Nora, 1989), un oggetto dalle caratteristiche peculiari che funge da collegamento tra una società storicizzata, che ha rinunciato alla memoria collettiva orale e non materializzata, con un passato comune e fondativo dal punto di vista identitario. Una concezione di monumento tipica anche della “statuomania (Michalski, 1998) relativa ai consolidamenti degli stati nazionali fra XIX e XX secolo. Un processo dunque storico con cui le realtà urbane devono ancora oggi fare i conti. 

Nel corso del XX secolo e a seguito dei conflitti mondiali le svolte nel pensiero urbanistico e della sociabilità architettonica hanno determinato un forte implemento dell’interrogazione sul monumento, sulla sua materialità simbolica e sulla sua agentività negli spazi pubblici. Diversi gli orientamenti e le interpretazioni che hanno caratterizzato tale discorso: dalle modalità di rilettura reattiva dei monumenti esistenti alle possibilità di una loro costruzione ex novo consapevole. La riflessione intorno al concetto e al ruolo del monumento ha portato inevitabilmente anche alla sua messa in questione e alla generazione di opere dal carattere contro-monumentale (Osborne, 2017).  

Il contro-monumento può qui essere definito a partire da alcune sue caratteristiche. In primis la natura paradossale di inevitabile catalizzatore di memorie e paradigmi identitari che però non si impongono sul contesto urbano e sui cittadini al pari dei monumenti tradizionali. 

Il contro-monumento inaugura uno specifico rapporto, sul piano concettuale e tangibile, con la temporalità e lo spazio che abita. Esso può essere effimero, può muoversi all’interno dell’ambiente, sfidando la caratteristica immobilità del monumento tradizionale, poiché non si radica necessariamente sempre nello stesso luogo e tempo e non si propone quale rappresentazione cristallizzata di modelli storico-culturali. 

Il contro-monumento sfida nella sua impostazione la glorificazione celebrativa di un soggetto o di un evento, prediligendo una sua codificazione formalmente astratta [1] o un’esplicita opposizione a determinate personalità materializzate dal monumento. Il monumento tradizionale delimitato dal basamento, si eleva sul pubblico cittadino, instaurando un rapporto individuato da una dinamica di separazione con i corpi che incontra e determinando un impulso centripeto, di cui costituisce il nucleo in quanto soggetto personificato o simbolico.

Il contro-monumento stabilisce piuttosto un rapporto partecipativo con i gruppi sociali con cui entra in contatto: se anche il monumento tradizionale prevede sempre dei momenti di aggregazione che ne attivano e riattivano il ruolo nel suo contesto urbano (es. inaugurazioni, commemorazioni, celebrazioni nazionali), il contro-monumento richiede una partecipazione costante. Esso imprime un moto centrifugo sia concettuale che architettonico, fondandosi sul richiamo alla collaborazione e alla performatività dei cittadini. Un rapporto che esplicita e scuce il travestimento del monumento, aprendone la struttura e mostrando le trame metaforiche che lo costituiscono. Tali caratteristiche contro-monumentali sono state variamente impiegate in spazi pubblici e possono essere in questa sede analizzate secondo due prospettive: quella di monumenti costruiti seguendo un iter istituzionale ma che per le loro caratteristiche formali e la loro connotazione politica rientrano nell’ottica contro-monumentale e i contro-monumenti spontanei, determinati da azioni extra istituzionali e solitamente definite in reazione a specifici e problematici monumenti tradizionali.

Il primo orientamento è ben esemplificato da una serie di operazioni che hanno caratterizzato la Germania degli anni ’80 e ’90, che più di altre nazioni europee ha fatto urbanisticamente i conti con il suo passato totalitarista (Huyssen, 1996; 1997), grazie a una modalità che ricalca la semiotica monumentale tradizionale (commissione pubblica, alto budget ecc.) ma che ne ribalta le caratteristiche sintattiche, impostandosi su formalismi astratti, intervento collettivo e anti-personalismo. È il caso del Monument Against Fascism (1986-1993) di Amburgo degli artisti Esther Shalev-Gerz e Jochen Gerz. Il contro-monumento in questo caso è costituito da una colonna quadrangolare di dodici metri ricoperta di piombo, sulla superficie della quale i cittadini sono invitati a incidere i loro nomi, frasi o commenti. Progressivamente, tra il 1986 e il 1993, le porzioni del monolite ricoperte da scritte sono state fatte scendere sotto il piano di calpestio, fino al suo completo assorbimento – metaforico e concreto – nel tessuto urbano. 

Un contro-monumento effimero che fa della progressiva erosione un suo punto programmatico [2]: attraverso l’invito all’attacco della sua superficie il Monument Against Fascism non solo si spoglia del travestimento monumentale, ma esplicita il problematico rapporto tra materialità e memoria. Un rapporto biunivoco che emerge dalla relazione tra il corpo dei cittadini e il corpo collettivo della città. L’opera di Shalev-Gerz e Gerz assume le sembianze di un contro-obelisco che rinuncia alla sua natura fallica e nella lenta e spontanea “aggressione” collettiva mette in evidenza la necessità di risemantizzare costantemente la memoria materializzata che il monumento esemplifica per suo statuto. La seconda prospettiva contro-monumentale è esemplificata da esperienze e azioni extra-istituzionali. È il caso di #vendesiroma, operazione di protesta di un collettivo anonimo di artist* vicini alla Casa delle Donne Lucha y Siesta di Roma. In risposta alla decisione della giunta Raggi di sgomberare l’edificio sede fisica del progetto, la sera del 5 settembre 2019 su alcuni dei principali monumenti della città (il Pantheon, la Piramide, il Tempio di Vesta, la Bocca della Verità, Piazza Navona) è stata proiettata la scritta “vendesi”. L’operazione, presto immortalata da molteplici scatti amatoriali, ha immediatamente attirato l’interesse virale dei social network. 

Il messaggio è chiaro come il titolo del progetto: la monetizzazione e riconversione spregiudicata di contesti dall’alto valore sociale così come una generale gentrificazione delle città storiche per mezzo del loro patrimonio artistico e monumentale inquina e depaupera il tessuto sociale che lo compone. La sintassi scelta dal collettivo di artist* lavora sulla superficie monumentale di Roma, la sveste del suo fascino opaco e ne illumina il potere capitalizzante. La logica contro-monumentale in questo caso è caratterizzata non solo dalla natura spontanea, politica ed extra istituzionale, ma anche da un suo preciso gradiente informazionale. La contro-monumentalità reattiva, definisce una forma di resistenza parassitaria, nel senso che utilizza l’organismo storico e concettuale del monumento, vi si insinua sovversivamente per aggiungere strati di senso alla materia architettonica che lo costituisce. Essa genera una forma di aumento che può funzionare sia come modalità di disvelamento di sistemi rappresentativi e politici di un singolo monumento sia, come nel caso di #vendesiroma, per attivare un modello che coinvolge il concetto stesso di bene monumentale per informare i cittadini di una situazione socio-economica critica.
Tale pratica di augmentation, che richiama l’attenzione e la partecipazione collettiva, è forse la caratteristica fondamentale del contro-monumento. Un aumento culturale dell’ambiente si è sempre ampiamente verificato con mezzi analogici e vive oggi un potenziamento, dovuto alla diffusione di dispositivi digitali, portatili e indossabili.

L’affermarsi di tecnologie informazionali ha contribuito a modificare lo statuto esperienziale della città, determinando importanti conseguenze per chi la abita, per la disposizione puntiforme dei monumenti e per l’evoluzione delle pratiche contro-monumentali. Il cambio di statuto nella concezione informazionale dello spazio concreto urbano appariva chiaro già dall’avvento dei primi mass-media andando progressivamente a mettere in evidenza la co-costituzione di ambiente fisico e mediale. «Il mutamento che si verifica nelle situazioni e nei comportamenti sociali quando si aprono o si chiudono porte o quando si costruiscono pareti, corrisponde oggi al leggero contatto di un microfono che si accende, a un televisore che si illumina, o al momento in cui si prende in mano la cornetta per rispondere ad una chiamata» (Meyrowitz, 1993, p. 114). L’accensione e lo spegnimento dei media elettronici determinano l’alterazione dello spazio, di un paesaggio e della sua percezione. 

A partire dagli anni novanta, l’utilizzo di tecnologie multimediali digitali si è esteso tanto da generare un’addomesticazione del virtuale, la cui presenza è sempre più diffusa in uno spazio d’azione abituale (Manovich, 2006). L’ambiente è diventato così uno spazio aumentato, un «physical space overlaid with dynamically changing information» (Ibid., p. 220). Ne consegue una commistione fra concreto e digitale, che in misura crescente coesistono nella costruzione del mondo reale. Nel suo articolo del 2006, il teorico dei media Lev Manovich discuteva, fra gli altri, il caso degli “audio walks” con cui l’artista canadese Janet Cardiff invitava il fruitore ad ascoltare del materiale audio seguendo un percorso tracciato attraverso la città. Nel corso degli anni, Cardiff ha proseguito la sua ricerca costruendo narrazioni più complesse, che comprendevano anche immagini e video. La vicenda narrata, musiche e suoni venivano sovrapposti all’ambiente, determinando un cortocircuito fra ciò che si percepiva nello spazio e quello che si vedeva e si ascoltava grazie a un dispositivo mobile, fra il presente e il passato, fra realtà e finzione. La città assumeva così significati inediti.

La strategia di aumento digitale della realtà si è nel tempo modificata e accresciuta, fino a includere l’inserimento di veri e propri oggetti virtuali nello spazio concreto. Tra le pratiche di una più generale “augmentation” digitale si è scelto in questa sede di considerare il caso specifico della realtà aumentata AR [3], che, impiegata negli ambiti più disparati, fin dalla sua nascita ha rivelato una spiccata vocazione politica ed è per questo particolarmente adatta al suo utilizzo in termini contro-monumentali. Per AR si intendono tutte quelle tecnologie che comportano la sovrapposizione di elementi virtuali sul reale, siano essi testi, informazioni oppure oggetti 3D inseriti nello spazio di azione quotidiano, che garantiscano un potenziamento delle possibilità operative e percettive del soggetto, ampliando la sua esperienza dell’ambiente (Liberati, 2016). Fruiti perlopiù attraverso dispositivi mobili o con caschi e occhiali che consentano di continuare a percepire i dintorni, gli oggetti in AR sono entità reali, seppure non concrete, dal momento che hanno delle conseguenze trasformative sul mondo. Immagini che costituiscono delle interfacce operative (Hoel, 2018), forniscono indicazioni riguardo alle possibilità di manipolazione e di intervento sull’ambiente (Fedorova, 2015), e possono comportare la modifica e l’aggiunta di elementi al suo interno. Nel 2011, il collettivo artistico Manifest. AR ha preso parte alle proteste dell’Occupy Movement, saturando, attraverso l’uso di una app, gli spazi intorno alla Borsa di New York con centinaia di opere in AR, che prendevano la forma di messaggi, installazioni e sit-in virtuali organizzati e fruiti con i propri dispositivi mobili, capaci di eludere le operazioni di controllo della polizia [4].

A partire da quel momento, l’AR è stata in più occasioni utilizzata a fini di protesta o di riflessione politica Skwarek, 2018. Ormai ampiamente sfruttata dagli street artist, poiché consente, grazie a dei semplici QR Code, la sovrapposizione di elementi digitali allo spazio cittadino, l’AR è di recente approdata nelle grandi istituzioni d’arte contemporanea a livello globale. Ne è un esempio l’app Actual RealityOS di Hyto Steyerl (2019), realizzata per la Serpentine Galleries di Londra, parte di un più vasto progetto che indaga il concetto di potere. Inquadrando una serie di marker nei dintorni dell’edificio del museo, l’opera riferisce delle condizioni di salute, abitative e di lavoro della comunità locale in forma di immagini e suoni che alterano l’architettura della Serpentine. Actual Realityos rivela informazioni altrimenti non percepibili dal visitatore, rendendo visibile l’impatto concreto di vasti fenomeni sociali, come la disuguaglianza nella redistribuzione della ricchezza [5]. In particolare, si intende qui discutere l’esempio di due casi in cui l’AR è stata scelta come strumento per la realizzazione di contro-monumenti digitali, spontanei ed extra-istituzionali, nel contesto del dibattito scatenatosi nel corso del 2020 intorno alla necessità (o meno) di rimuovere i monumenti a rappresentanza di fatti e personaggi della storia ritenuti problematici. A seguito della morte di George Floyd, soffocato da un agente di polizia il 25 maggio 2020 a Minneapolis, il movimento politico Black Lives Matter [6] è riuscito a raggiungere l’appoggio di intere comunità, coinvolgendole in una protesta divenuta presto di portata globale. Nata da manifestazioni di dissenso contro il razzismo della polizia locale (e americana in generale), la protesta si è estesa a diversi monumenti simbolo di violenza razziale, colonialismo, ingiustizia sociale e patriarcato, dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda, dal Belgio alla Francia al Regno Unito, in Sud America e in Canada, per fare solo alcuni esempi (Malaspina e Pirandello, 2020; Pinotti, in corso di pubblicazione).

Molte statue sono state imbrattate, sfregiate o distrutte. Di altre è stata chiesta la rimozione da parte delle istituzioni. Esiste però un’altra strategia praticabile, resa possibile grazie all’utilizzo dell’AR. In un’ottica di decolonizzazione della città, portando avanti la protesta contro la statua di Indro Montanelli, di cui varie associazioni hanno richiesto la rimozione fin dalla sua inaugurazione nel 2006, il 18 ottobre 2020 il centro sociale Cantiere di Milano ha installato nei Giardini Pubblici di Porta Venezia una statua dedicata a Thomas Sankara, rivoluzionario panafricanista e Presidente del Burkina Faso negli anni ottanta. La statua è stata smantellata il giorno seguente perché non aveva ricevuto un’autorizzazione ufficiale. Per tutta risposta, il 24 ottobre il Cantiere ha inaugurato una seconda statua, a forma di punto interrogativo: la Statua che non c’è.

La Statua che non c'è courtesy: Cantiere, Milano 2020
La Statua che non c'è courtesy: Cantiere, Milano 2020

Se inquadrata utilizzando la app Artivive, la statua era un marker che rivelava la scultura di Sankara nel luogo dove era stata installata. Per evitare che anche la Statua che non c’è venisse rimossa, gli stessi attivisti del Cantiere l’hanno poi sostituita con una serie di QR Code sparsi per i Giardini. Al momento attuale, dunque, la Statua che non c’è (pure nella sua versione diffusa) rappresenta un vero e proprio “monumento alla rimozione del colonialismo” [7] dal discorso pubblico e dalla memoria collettiva, come dimostra il tentativo costante di normalizzare ed estinguere il dibattito intorno alla figura di Indro Montanelli, al suo ruolo in Etiopia e al suo matrimonio con la dodicenne Milena.

In una direzione analoga vanno le operazioni del collettivo di artisti e attivisti Movers and Shakers di New York. Oltre a chiedere la rimozione delle statue che celebrano i soldati confederati americani, i Movers and Shakers hanno infatti realizzato il Monuments Project, disponibile a partire dal febbraio 2021, durante il Black History Month. Il progetto, rivolto principalmente alle scuole, consiste di un catalogo di monumenti in AR, che ritraggono donne, rappresentanti della comunità afroamericana e icone LGBTQIA+ che i fruitori sono liberi di installare a piacimento, fotografare e  condividere con altri utenti. Già a partire dal 2018, il collettivo aveva rilasciato una app per Android che consentiva di visualizzare una scultura virtuale dell’atleta Colin Kaepernick [8] ogni volta che si inquadrava una mappa della metropolitana per le strade di New York.

Partendo dal presupposto che la cultura occidentale tende a glorificare le vicende di uomini bianchi, l’attivismo di Movers and Shakers mira a riscrivere i valori condivisi dalla cittadinanza codificati nello spazio delle città, mettendo in luce le vicende delle comunità marginalizzate, per restituire un’idea plurale e inclusiva della storia americana. Sia nel caso della Statua che non c’è che in quello del Monuments Project, senza bisogno di autorizzazione e a un costo ridotto, è stato possibile realizzare contro-monumenti che celebrassero eventi e personaggi sistematicamente e deliberatamente lasciati ai bordi della memoria e della società. Grazie all’AR si possono quindi “erigere” contro-monumenti per eccellenza. Si tratta di opere effimere, una monumentalità scesa da cavallo che non domina a colpo d’occhio le piazze, imponendosi sullo spazio cittadino. La forza della monumentalità in AR risiede invece nella sua potenziale diffusione capillare e nella sua gestione collettiva. In questo caso i monumenti possono essere attivati da chiunque possieda un dispositivo mobile, al fruitore è richiesta una collaborazione attiva affinché la statua appaia.

L’irruzione del virtuale nell’ambiente concreto ha un effetto produttivo dal momento che comporta una riflessione sulle modalità con cui solitamente si interagisce con lo spazio e con gli oggetti e gli individui al suo interno (Fedorova, 2015). L’AR ha dunque una vocazione fortemente relazionale, sia perché si completa sempre in connessione a un contesto di cui aumenta le possibilità operative e di cui determina una nuova comprensione, sia perché spinge l’utilizzatore a fruirla interagendo con altri nello spazio pubblico. Essa viene inoltre progettata pensando alle possibili scelte future che verranno effettuate dagli utenti, non solo in termini di semplicità ed efficacia dell’utilizzo operativo dello strumento tecnico, ma anche della sperimentazione creativa che esso consente. In questo senso, Ksenia Fedorova ne ha parlato come di una tecnologia che mobilita una propriocezione collettiva Fedorova, 2020. Al contrario della realtà virtuale, l’AR non mira alla sostituzione del mondo fisico, quanto piuttosto a un suo potenziamento grazie all’aggiunta di funzioni elettroniche Wellner, Mackay e Gold, 1993, che arricchiscono la città di nuovi livelli di significato. Come ha dimostrato il celebre caso di videogiochi in AR quale Pokémon Go, si tratta di vere e proprie porzioni di realtà, che finiscono per influenzare tanto la vita dei giocatori quanto quella dei non giocatori (Liberati, 2018).

Nel caso specifico, la contro-monumentalità in AR può modificare il punto di vista dei cittadini, in modo da accrescere la loro consapevolezza e costruire narrazioni in cui identificarsi. Nell’attesa che le istituzioni decidano il destino delle statue di cui si richiede la rimozione, l’AR offre un valido strumento per far sentire la propria voce. A ben guardare, è possibile che faccia anche qualcosa in più. Rimuovere o distruggere un’immagine o un monumento significa in ultima analisi riconoscerne la forza e la vitalità (Pinotti e Somaini, 2016), correndo peraltro il rischio di eliminare insieme alla figura di un oppressore anche la memoria delle sue azioni e le domande che queste sollevano. D’altra parte, eradicare una statua dal luogo in cui era stata eretta per conservarla in un museo potrebbe disinnescare la potenza (sia positiva che negativa) del suo significato. Né si dovrebbe demonizzare la contestazione di monumenti esistenti, che non rappresentano mai valori che siano validi oggettivamente, ma sempre frutto di una posizione e della scelta di un singolo o di un determinato gruppo. L’approccio adottato dall’attivismo in AR è, invece, di natura dialogica: «ci consente di guardare allo spazio pubblico e ai suoi monumenti così come sono, e al contempo, con un semplice clic dello smartphone, di vedere altro, di sovrapporre strati di senso, senza distruggere l’esistente e senza cancellare le tracce del conflitto e del dissenso. Di realizzare cioè immagini dialettiche» (Pinotti, in corso di pubblicazione).

L’attivismo in AR consente di mettere in luce l’ideologia incarnata nei monumenti, proponendo un confronto e una alternativa. Collocare una statua virtuale in un luogo fisico specifico porta la cittadinanza a riflettere su nodi problematici della propria storia comune. L’interazione che richiede la loro attivazione, nonché la libertà di costruire racconti di volta in volta differenti (scattandosi dei selfie o fotografando le statue in altri contesti, per poi modificare e condividere i risultati) sollecita una riflessione sulla fabbricazione della propria identità, individuale e collettiva. Costruire e installare nuove statue può richiedere molto tempo e denaro. Questo non vuol dire che non ci sia più bisogno di monumenti concreti. In un mondo abituato a considerare reale la commistione fra concreto e digitale è probabile però che i monumenti virtuali si moltiplicheranno e diventeranno sempre più comuni. Il digitale permette forme alternative di materializzazione della memoria attraverso operazioni che ne consentono l’espansione orizzontale, risultante da una contrattazione continua che combatte l’abitazione percettiva a cui sono sottoposti i monumenti tradizionali. Con una certa dose di improvvisazione, in collaborazione e condivisione costante con gli altri, essi consentono infatti di riscrivere la propria storia e immaginare un futuro possibile.

This project has received funding from the European Research Council (ERC) under the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme (grant agreement No. [834033 AN-ICON]), hosted by the Department of Philosophy“Piero Martinetti” (Project “Departments of Excellence 2018-2022” awarded by the Ministry of Education, University and Research).

Note

[1] È il caso dei molti monumenti in memoria dell’Olocausto, come il celebre Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa di Peter Eisenman e Buro Happold.
[2] «One day it will have disappeared completely and the site of the Harburg Monument Against Fascism will be empty. In the long run, it is only we ourselves who can stand up against injustice». LINK
[3]
Per comprendere la differenza fra un generale aumento digitale dell’ambiente e l’AR si possono mettere a confronto due progetti, entrambi pensati per sensibilizzare il pubblico sulle conseguenze e i rischi generati dal cambiamento climatico: Waterlicht (2016-2020) realizzato dallo studio di design Roosegaarde e di Mel Chin. Nel primo caso un sistema di LED e di lenti consentiva di simulare, proiettandolo nello spazio, un flusso d’acqua in costante cambiamento, a seconda dei dati sulle piogge e sui venti rilevati da un sensore digitale. Nel secondo caso, il visitatore era chiamato a indossare un paio di Microsoft Hololens o a utilizzare il cellulare per vedere navigare sopra la propria testa una folla di imbarcazioni, facendo così esperienza di come sarebbe Times Square (New York) se il livello del mare si innalzasse fino a ricoprirla del tutto. Con Unmoored il mondo fisico veniva dunque popolato di oggetti virtuali, il cui movimento si rivelava e si modificava in funzione degli spostamenti dell’osservatore, laddove Waterlicht era una installazione ambientale che rimaneva indipendente dal movimento dei fruitori al suo interno.
[4] Manifestar blog
[5] 
Serpentine Galleries
[6] Nato nel 2013 a partire da un hashtag che denunciava la morte violenta di Trayvon Martin, un ragazzo afroamericano ucciso a diciassette anni da un poliziotto bianco.
[7] “La statua che non c’è”, Cantiere
[8] Giocatore di football americano, Colin Kaepernick è diventato famoso per la sua scelta, ripetuta più volte a partire dal 2016, di inginocchiarsi durante l’inno nazionale americano, rifiutandosi di mostrare orgoglio per la propria appartenenza a un paese che opprime la popolazione nera. Il gesto di protesta contro le violenze subite dagli afroamericani e la strutturale diseguaglianza alla base della società degli Stati Uniti è costato a Kaepernick la carriera, dal momento che nessuna squadra ha voluto più assumerlo.

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Roberto Paolo Malaspina ha conseguito la laurea magistrale in Arti Visive presso l’università di Bologna con una tesi sull’identità teorica dell’architettura postmoderna. Si è occupato della curatela per lo spazio indipendente Narkissos di Bologna. Ha frequentato CAMPO, corso per curatori della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
È attualmente dottorando in estetica presso l’Università Statale di Milano dove si occupa del rapporto fra percezione incarnata e New Media nella fruizione di immagini pornografiche.

Sofia Pirandello è dottoranda in estetica presso il Dipartimento di filosofia dell’Università Statale di Milano. Si è occupata in particolare di immaginazione nella letteratura, nelle arti visive e negli studi sulla schizofrenia. Ha frequentato CAMPO, corso per curatori della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Attualmente lavora sugli effetti di ritorno della tecnologia digitale sull’evoluzione cognitiva umana, studiando l’impatto dell’Augmented Reality sul ragionamento e creatività.