§anche le statue muoiono
Chi difende i monumenti?
Appunti su retorica e congelamento della memoria.
di Mario Panico

Introduzione

Al dibattito sulle azioni di protesta contro i monumenti che rappresentano i colonizzatori – partito dagli Stati Uniti d’America con il movimento Black Lives Matter (da ora BLM) e arrivato in alcuni paesi d’Europa, tra cui l’Italia – si è aggiunta una discussione sulla difesa di questi spazi, sulla protezione del loro valore storico, artistico e identitario. Come è facile immaginare, non tutti desiderano che i monumenti siano ricolorati, rimossi o sostituiti. Animati da motivi personali o da intenti più direttamente politici, esistono gruppi che nei monumenti trovano una forma irrinunciabile di autorappresentazione, difficile da mettere in discussione. 

Tutte le discipline che si occupano dell’oggetto “memoria” hanno ampiamente dimostrato come i monumenti normalizzino un preciso ritaglio del passato, rendendolo consuetudine, quindi producendo una sorta di riconoscibilità storica e identitaria rincuorante. Nella maggior parte dei casi i monumenti rappresentano la comfort-zone della memoria pubblica che per essere ridefinita necessita uno sforzo di ristrutturazione identitaria notevole a cui non tutti – a torto o ragione – sono disposti.

Questo significa che, quando in una comunità viene proposta una ridistribuzione valoriale del passato o un cambio di prospettiva sul racconto noto, coloro i quali sono troppo affezionati all’idea che i monumenti dicano di “noi” in maniera inattaccabile, finiscono col difendere e proteggere – nei discorsi, con il corpo o attraverso leggi apposite – il proprio patrimonio. Quest’ultimo è inteso non solo nella sua accezione archeologico-artistica ma, seguendo l’etimologia latina, come qualcosa che viene dal padre e che quindi ci caratterizza, che è nello stesso momento eredità e “genetica”.

Data questa premessa, l’obiettivo del mio contributo è analizzare “le parole in difesa” dei monumenti, cioè le argomentazioni usate nel 2020, in Italia, in seno al dibattito generato dall’attacco alla statua milanese che rappresenta il giornalista Indro Montanelli [1]. Per far ciò ho scelto un piccolo corpus composto dalle dichiarazioni di una politica di destra e un politico di sinistra che, con toni e retoriche differenti, hanno problematicamente ribadito il ruolo centrale che i monumenti hanno nella promozione di una certa idea di italianità. 

Le due dichiarazioni politiche prese in considerazione, una di Giorgia Meloni e l’altra di Beppe Sala, rappresentano due gocce nell’oceano di opinioni espresse dall’inizio delle proteste contro i monumenti. Questo significa che i prossimi paragrafi non hanno la presunzione di rappresentare in maniera esaustiva il discorso generale, ma di indagare come – sia a destra che a sinistra – il sistema di valori e le immagini convocate producano, dal punto di vista argomentativo, una difesa problematica. 

Prima di continuare, vorrei precisare cosa questo contributo non è. Non si tratta di una riflessione sulla “ragionevolezza” delle giustificazioni adottate da questo o quel politico, o di una ricerca sulla coerenza tra le enunciazioni e le verità fattuale del passato. Si tratta, più provocatoriamente, di guardare in controluce le argomentazioni, in modo da dimostrare quali stereotipi della memoria animino il dibattito intorno al colonialismo italiano e al passato fascista.

Difendere

Seguendo la definizione del vocabolario Treccani, difendere è «proteggere, preservare dal male, dai pericoli, dalle offese». La difesa, quindi, si configura sia come una reazione consequenziale ad un attacco, che come una strategia indipendente votata a prevedere una potenziale intromissione esterna, oltre che prevenire e preservare una data cultura e un dato immaginario. Adattando il ragionamento sul nostro caso, la difesa si è andata via via configurando come uno strumento retorico utile a controllare il terremoto semiotico messo in atto dalle pratiche di riscrittura mirate al sovvertimento della rappresentazione egemonica del passato. Infatti, la volontà di difendere ha portato in superficie le sempreverdi strategie di othering, in cui pullulano tutte le rappresentazioni del nemico (l’iconoclasta confuso con il vandalo, poi confuso con l’estremista politico o religioso) e le argomentazioni a favore del monumento come “segno” storico incontrovertibile della nostra identità.

Nella pratica di difesa si struttura un fenomeno interessante che interessa l’espressione del monumento e il suo contenuto. Le qualità materiali tipiche del monumento classico, cioè la solidità e la durevolezza, diventano anche le qualità della storia che “esprimono”: il passato è incontrovertibile, robusto e stabile. Il problema più urgente è che, in questa foggia del pensiero collettivo, non c’è manovra per intendere l’identità come una forma di produzione, «come un processo sempre in atto, mai esauribile» (Hall 2006: 243).


Non tutti i monumenti sono uguali

Il primo esempio che prendiamo in considerazione è datato luglio 2020 e riguarda Giorgia Meloni, leader del partito di destra “Fratelli D’Italia”. Durante la trasmissione “Quarta Repubblica” di Nicola Porro, di cui è ospite, invitata a commentare le azioni contro le statue dedicate a personalità legate al colonialismo, la politica tuona [2]: «Penso che dobbiamo focalizzare un fatto. Questi movimenti hanno un’avanguardia e quell’avanguardia erano i talebani. I talebani che cannoneggiavano le statue buddiste in Afghanistan, facevano esattamente la stessa cosa. L’Isis a Palmira ha fatto esattamente la stessa cosa».

No, e vediamo perché. Essendo il patriottismo e la difesa della patria le due principali cifre stilistiche della retorica politica di Meloni, non è tanto il contenuto generale delle dichiarazioni a essere sorprendente o emblematico – cioè ritenere ignobili gli attacchi ai monumenti, tanto da considerarli al pari di azioni estremiste contro la civiltà occidentale –, quanto le concatenazioni logico-argomentative delle tesi sostenute.

Meloni assimila le pratiche dei talebani a quelle dei gruppi del BLM [3] guardando solo al risultato ottenuto: il monumento riscritto o il monumento distrutto. Le intenzioni e le grammatiche utilizzate in Afghanistan e negli Stati Uniti sono molto diverse, nel primo caso si è trattato di distruzione come forma di annullamento dell’altro, nel secondo caso di riscrittura e di riposizionamento del punto di vista sulla rappresentazione di un momento traumatico della storia mondiale: il colonialismo. 

La premessa argomentativa di Meloni è fallace perché eguaglia le azioni solo in quanto ottengono un risultato generale simile. Essa, inoltre, propone una fuorviante concatenazione cronologica che lega i talebani ai manifestanti del BLM con l’obiettivo di proporre una genealogia peggiorativa della protesta. Per quanto riguarda gli USA, questo paragone non riconosce, da un lato, il casus belli che ha animato la pratica (l’omicidio di George Floyd, poi il razzismo sistemico…) e, dall’altro, il significato rivestito da un particolare monumento per una minoranza in quel dato momento storico. 

Nel caso americano non si tratta di distruzione o di una imposizione della propria visione del mondo per motivi religiosi o politici, mirando a cestinare ciò che è “diverso”. Nel caso di BLM, i monumenti sono stati considerati come gli avamposti simbolici e materiali di una certa idea di mondo che, ancora oggi, produce disuguaglianze e che quindi, per il bene di tutte e tutti, necessita una risemantizzazione.
Ritornando alle parole di Meloni, la politica dice: «A me spaventa l’ignoranza. Mi spaventa molto l’ignoranza cieca, la furia cieca, di un’ignoranza mista al politicamente corretto per cui tu devi rimuovere tutto quello che non ti rappresenta oggi come se potessi leggere quello che sei oggi identico a quello che eri 200-300-500-800 anni fa. Ma che senso ha?».

Un punto è molto condivisibile: non si può rimuovere tutto, come – per contrappasso – non si può raccontare tutto. Infatti, sia nella cancellazione/rimozione che nella produzione monumentale è preferibile la stratificazione dei significati, in modo da dare spazio e rappresentazione al più alto numero possibile di soggettività, evitando cacofonie. Questo equilibrio tra le voci è però utopico: qualcosa rimane sempre escluso, per pura economia del discorso. 

Da un punto di vista semiotico, la sfida sta nel capire quali dinamiche di potere alimentano una cancellazione. Per questo è necessario avere uno sguardo a infrarossi sulle dinamiche della memoria, in modo da vedere, per differenza e contrasto, quali non detti strutturano una narrazione che nei monumenti si normalizza e si rende accettabile. 

Meloni, però, usa l’argomento dell’impossibile rimozione di tutti i monumenti del passato in maniera “pigra”, proponendo una idea di contestualizzazione “salva tutti”, un meccanismo che fa corrispondere contesti solo perché sembrano somigliarsi. In questo senso, il monito di Meloni a contestualizzare non considera il frame entro il quale inserire le proteste BLM e decide di guardare a un periodo molto lontano che, per fortuna, non ha conseguenze, se non turistiche, nel nostro presente. Mi riferisco a quando, nella stessa intervista, la politica cita il Colosseo come esempio di monumento che, pur essendo stato teatro di stragi, regna ancora su Roma tanto da essere diventato il suo monumento-logo (Pezzini 2006).
«Certo che noi dobbiamo raccontare la nostra storia, non vuol dire per forza condividerla. Puoi anche non condividerla. […] Io sono affezionatissima al Colosseo ma non è che vorrei far mangiare i cristiani dai leoni, cerchiamo di essere dotati di senno. Con la scusa che tutto è razzista alla fine non si capisce più chi lo sia davvero».

Il paragone con il Colosseo è, dal mio punto di vista, improduttivo per molte ragioni. La più banale di queste riguarda il fatto che il grande simbolo di Roma oggi ha una vita semiotica che non rimanda direttamente al dolore, a leoni inferociti e cristiani perseguitati. Nessuno, in Italia, interpreta – se non per provocare – il Colosseo come il segno di un trauma dai contorni incerti o irrisolti, o come il rimando a una ferita aperta e sanguinante nella cultura contemporanea. Questo non perché l’impero romano sia stato cancellato (anzi spesso è usato come unità di misura nostalgica di una antica gloria), ma perché esiste una distanza temporale e culturale notevole tra l’evento traumatico (e le condizioni in cui si è prodotto) e le ripercussioni effettive che produce o alimenta nel presente (Violi 2020).

Adottare questo paradigma per l’Italia significa non riconoscere le rimozioni culturali legate al colonialismo e al fascismo. Anche se si fa fatica ad ammetterlo, il colonialismo fa – ancora! – all’Italia quello che la luna fa col mare della Terra. Questo perché non si è mai arrivati a una chiara ammissione delle colpe, dal punto di vista legale e culturale, e perché si tratta di una storia di cui siamo ancora – in modalità diverse – “testimoni”.  

Chi è senza peccato scagli la prima pietra contro il monumento

A Milano, la richiesta da parte del movimento dei Sentinelli di togliere la statua dedicata a Indro Montanelli e la pratica con la vernice rossa messa in atto da un gruppo di studenti ha scatenato un dibattito anche all’interno del consiglio comunale della città. Nelle stanze del palazzo i politici si sono espressi sul futuro della statua “giovane” (è stata eretta nel 2006). 

Per placare le polemiche, l’attuale sindaco di sinistra, Beppe Sala, ha pubblicato sui suoi canali social un video indirizzato direttamente ai cittadini, con l’obiettivo di presentare le sue (e del comune) ragioni sul mantenimento della statua esattamente lì dov’è. Nei due minuti circa di monologo vengono presentati una serie di punti a supporto dell’idea di dover lasciare la statua del giornalista nei giardini che portano il suo nome, nonostante quel che è successo in Africa: «Io ho rivisto più volte quel video in cui lui confessa quello che è successo in Africa e, personalmente, non posso che confessare, a mia volta, il mio disorientamento rispetto alla leggerezza con cui Indro Montanelli confessa un comportamento del genere. Però Montanelli è stato di più: Montanelli è stato un grande giornalista. È stato un giornalista che soprattutto si è battuto per la libertà di stampa. È stato un giornalista indipendente. Forse per tutti questi motivi è stato gambizzato» [4].

Il sindaco del PD costruisce il suo argomento intrecciando numerose questioni tra loro. Dopo aver ammesso, attraverso l’uso di eufemismi, il suo sconcerto per le dichiarazioni pubbliche di Montanelli [5] sul “comportamento del genere”, “su quello che è successo in Africa”, con un deciso “però” avversativo, Sala inverte il senso di marcia dell’enunciazione lodando le competenze giornalistiche di Montanelli, quelle che – a detta sua– dovrebbero contare più di ogni altra cosa nel ricordo del giornalista. 

“Dipinto” come un martire della verità, tanto da far leva sull’episodio della gambizzazione, il sindaco di Milano, a mio parere, sposta il baricentro del problema, annacquando il dibattito sull’eredità del colonialismo parlando delle competenze professionali e intellettuali di Montanelli. Pur riconoscendo la tragicità dell’evento di cui Montanelli è stato vittima nel 1977, non è chiaro, logicamente, come l’esperienza della sparatoria o l’essere stato un bravo giornalista possano essere rilevanti rispetto alla “leggerezza” – usando sempre un eufemismo di Sala – con cui Montanelli ha raccontato, in interviste televisive e rubriche sui giornali, lo stupro di una ragazzina eritrea. 

Sembra, stando a questo video, che Sala abbia frainteso “il capo d’accusa” al monumento. Per questo, ritengo necessario focalizzare l’attenzione sul fatto che, ad essere giudicato negativamente non è solo (o tanto) il gesto violento di Montanelli messo in atto in Africa durante le campagne coloniali, ma la sua attitudine violenta nel racconto, cioè le modalità con cui, in diverse occasioni, anche lontane nel tempo, ha parlato dell’acquisto e della violenza nei confronti di Destà, adottando come giustificazione una fuorviante e stereotipante esoticizzazione delle norme e delle tradizioni africane: “in Africa ci si sposa a 12 anni”[6].

Nel discorso di Sala, quel che sembra non essere ben definito è che Montanelli monumentalizzato (quindi glorificato, quindi osannato, quindi mitizzato) sta per il mito autoassolutorio di una intera nazione che, ogni volta che ha potuto, ha sempre minimizzato o sotterrato i propri crimini in Africa orientale, autorappresentandosi come brava gente (cfr. Del Boca 2005, Focardi 2013, Giuliani 2020). La protesta non si occupa solo dell’“uomo Montanelli”, o dell’ubriacatura ideologica e fascista che lo ha spinto da giovane a non tematizzare i comportamenti violenti in tempo di guerra. Il vero problema ha una “taglia” più grossa e culturale e riguarda il contesto italiano che, in più occasioni, ha “concesso” a un uomo di parlare di violenza senza particolare contraddittorio (si ricorda solo la provocazione mossa dalla giornalista Elvira Banotti).

Sala, sguardo in camera, continua a parlare ai suoi video-ascoltatori, ponendo due domande, delle quali sembra sottovalutare la portata. La prima è «cosa chiediamo a personaggi che vogliamo ricordare con una statua, una lapide, col nome di una via o di una piazza, o di un giardino? Chiediamo una vita senza macchia? Una vita in cui tutto è stato estremamente giusto? È possibile. Però ne rimarrebbero pochi da ricordare». 

Il sindaco di Milano inverte le responsabilità del messaggio-monumento dal destinante al destinatario. In altri termini, non è più chi costruisce (o permette la costruzione de) il monumento, decidendo cosa e come mettere in narrazione un evento attraverso scelte estetiche e formali precise, a doversi chiedere «che cosa vogliamo che veicolino questi spazi?». Al contrario, sembra che il destinatario debba arrendersi all’essere umani (troppo umani) dei personaggi rappresentati, sottacendo richieste di riscrittura su ciò che è reso memorizzato. Stando all’argomento di Sala, il destinatario non deve dubitare della natura costruttiva della memoria, che propone sempre (a livello individuale come collettivo) solo una versione dei fatti. Conviene evitare questo atteggiamento dubbioso perché, alla fine di ogni possibile percorso di ricerca, anche del più approfondito, troverebbe davanti il muro della giustificazione più nota: tutti sbagliamo.  

Inoltre, la fallibilità proverbiale degli esseri umani, diventa deterrente per appiattire la gravità dei crimini commessi e raccontati senza senso di colpa da Montanelli in vita. Errare è umano, ma certo è diverso commettere una violenza o rubare una caramella al bar. L’idea che il destinatario del monumento pretenda troppo da chi viene monumentalizzato appiattisce e annichilisce qualsiasi tipo di riscrittura critica della memoria, contribuendo a deformare il dibattito verso una generalizzazione cattolica che permette il diritto di critica (o di scagliare la prima pietra) solo a chi – quasi nessuno! come precisa Sala – è senza peccato. 

La seconda domanda, conseguente alla prima, insiste sull’argomento del peccato, generando, a mio avviso, una contraddizione. Dice Sala: «ma noi, quando giudichiamo le nostre vite, possiamo dire che la nostra vita è senza macchie, è senza cose che non rifarei? Io metto le mani avanti: la mia vita no. Ho fatto errori, ho fatto cose che vorrei non aver fatto. Ma le vite vanno giudicate nella loro complessità. Per tutti questi motivi io penso che la statua debba rimanere lì. Cionondimeno sono disponibile a qualunque confronto sul tema del razzismo e sul tema Montanelli, quando volete».

Ancora, sembra che la responsabilità di memoria dipenda dal destinatario, che sia quasi lui/lei/loro a doversi “colpevolizzare” per aver pensato male di Montanelli, per essere stato affrettato nel giudizio. 

Perché, come dice Sala, una vita va giudicata nella sua complessità. Mi chiedo, provocando, se non è proprio questo sguardo totale sugli eventi ad aver prodotto le azioni di protesta delle attiviste di Non Una di Meno, prima, e degli studenti, poi. Mi domando se non sia grazie a uno sguardo complessivo sulla vita di Montanelli che si ritaglia lo spazio proficuo per il dibattito sulle eredità culturali del colonialismo, su quello che i monumenti possono normalizzare e su quello che, quando “ricolorati”, provano a mostrare anche ai più miopi.

Scongelare 

In conclusione, prendo in prestito un’immagine, a mio avviso davvero efficace, sul funzionamento delle memorie narcotizzate che, a un certo punto, possono tornare a vedere la luce e occupare una posizione centrale nella cultura di riferimento. A proporla è Umberto Eco in un passaggio del suo discorso tenuto all’ONU nel 2013 dal titolo Contro la perdita di memoria. Occupandosi degli eventi perduti e non presenti nella cultura mainstream, Eco dice: «Non so se queste tragedie perdute possano essere ritrovate da qualche parte, come accadde con le pergamene del Mar Morto. Ma so che vi sono individui specializzati (come gli storici e gli archeologi) che sono in grado di riportare alla luce molti dati cancellati.

In questi casi, la memoria collettiva recupera questi dati e li restaura nella nostra enciclopedia condivisa. A volte, al contrario, una civiltà decide che questi dati possono essere utili per ricerche specifiche ma che sono irrilevanti per la gente comune e li abbandona in qualche ‘riserva indiana’, ovvero nelle enciclopedie specialistiche. In questo modo una civiltà matura decide di relegare alcune informazioni in uno stato di latenza. L’informazione in eccesso, quindi, è o è stata congelata in modo che quando si riveli necessaria gli esperti possano metterla in un microonde e riesumarla, ad esempio per decifrare un antico documento di recente scoperta. Questi luoghi di latenza sono rappresentati dal modello di una biblioteca o di un archivio come gli indispensabili contenitori di una saggezza che può ancora essere rivisitata anche se non era stata riesumata per secoli.»

Provando a calare questa citazione nel contesto delle politiche della memoria sulla quale si struttura tutto il ragionamento sul futuro dei monumenti, è interessante notare come avvenga lo “scongelamento delle memorie” nel dibattito post-coloniale.

Le riscritture e le ricolorazioni dei monumenti (discorso diverso necessiterebbe l’abbattimento e la rimozione) sono serviti a rendere polifonico il discorso pietrificato nel monumento, smascherando possibili stereotipi o discorsi nazionalisti troppo autoassolutori (Raimo 2019: 72) e a scongelare una riserva di informazioni che era stata programmaticamente silenziata (Connerton 2008: 61) perché non corrispondente all’immagine che i vincitori hanno deciso di dare a se stessi. Guardando all’Italia, il rosa e il rosso sulla statua di Montanelli sono simbolicamente stranianti perché modificano i ruoli narrativi. Le manifestanti e i manifestanti hanno il ruolo di “specialisti” che forzano un esame di coscienza collettivo e danno nuova voce attiva alla giovane Destà (cf. Giuliani 2020) che diventa metonimia della violenza coloniale, mettendo in ombra (non cancellando) il “bravo giornalista”, per focalizzare l’attenzione su una storia che la riguarda (e ci riguarda) da vicino.

Una operazione di fantasia "visuale".

Note
[1] Faccio riferimento, in particolare, a due eventi: quando l’8 marzo del 2018, il gruppo trans-femminista “Non una di Meno” copre il monumento con della vernice rosa e quando, invece, nel giugno 2020 un gruppo di studenti cita le manifestanti femministe e ricolora il monumento con della vernice rossa.
[2] Fonte: pagina Facebook di Giorgia Meloni
[3] Mi riferisco alle pratiche di riscrittura e ricolorazione dei monumenti messe in atto del movimento BLM (si veda per esempio le operazioni sul monumento dedicato a Robert E. Lee, a Richmond, USA). Non considero, in questo caso, le operazioni di rimozione violenta di statue.
[4] Queste dichiarazioni sono la trascrizione del discorso fatto in video da Beppe Sala e riportato dai maggiori giornali. La fonte di questa trascrizione e di quelle successive è al seguente VIDEO
[5] Montanelli parlerà pubblicamente del suo “matrimonio” con la giovane Destà tre volte: durante la trasmissione “L’ora della verità” nel 1969, durante un’intervista con il giornalista Enzo Biagi nel 1982, e ancora nel 2000 nella sua rubrica “La stanza di Montanelli” sul Corriere della Sera.
[6] Mi riferisco alla giustificazione usata dal giornalista per rimbalzare le critiche mosse dalla giornalista Elvira Banotti durante la trasmissione “L’ora della verità” (1969).

Bibliografia
Connerton, P., Seven Types of Forgetting, Memory Studies 1(1), 2008, pp. 59–71.
Eco, U., Against the loss of memory, Lecture at the United Nation headquarters in New York, 2013.
Hall, S., Il soggetto e la differenza. Per una archeologia degli studi culturali e post-coloniali (a cura di Miguel Mellino), Meltemi, Roma, 2006.
Raimo, C., Contro l’identità italiana, Einaudi, Torino, 2019.
Focardi, F., Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe nella seconda guerra mondiale, Laterza, Roma- Bari, 2013.
Pezzini, I., Visioni di città e monumenti logo, in Marrone, G. e Pezzini, I. (a cura di) Senso e metropoli. Per una semiotica posturbana, Meltemi, Roma, 2006, pp. 39-48.

Sitografia
Gaia Giuliani su colonialismo e azione statua Indro Montanelli Milano di Non Una diMeno – Milano, video, 2020.
Violi, P. On memory and monument, “The Connecting Memory Podcast di Paul Leworthy, podcast, 2020.

Mario Panico è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna e membro del centro di ricerca “Trame – Centro per lo studio semiotico delle memorie culturali”. Ha scritto di monumentalità, nostalgia e rappresentazione del ricordo collettivo e culturale. La sua ricerca attuale indaga il rapporto tra emozioni e spazi della memoria.