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Nuove pratiche sul monumento
di Michela Bassanelli

Nelle prime righe del saggio “La scultura nel campo allargato”1, Rosalind Krauss sembra riprendere un passo di Adolf Loos tratto dal celebre scritto “Parole nel vuoto”2, dove l’architetto espone una chiara e semplice definizione di quello che per lui è architettura: «Se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura»3. Nelle frasi iniziali di Rosalind Krauss si ritrova una sorta di ulteriore specificazione dello spazio descritto da Loos. La storica dell’arte raccontando l’opera Perimeters/Pavilions/Decoys dell’artista Mary Miss fa intravedere qualcosa di più:

Verso il centro del campo si trova un piccolo tumulo, una sorta di gobba sul terreno, unico indizio della presenza dell’opera. Avvicinandosi si può vedere l’apertura quadrata della fossa, nonché l’estremità della scala necessaria per discendervi. L’opera vera e propria è completamente sotterranea: metà atrio, metà tunnel, limite tra l’interno e l’esterno, fragile struttura di travi e pilastri di legno4.

In entrambe le descrizioni ritroviamo due tumoli che potrebbero essere identificati come due luoghi di sepoltura, il primo ben definito nelle dimensioni e il secondo dotato di una spazialità più complessa. Il parallelismo tra le due citazioni offre lo spunto per riflettere sul monumento come opera a cavallo fra architettura e scultura. Ancora Loos afferma più avanti: «Soltanto una piccolissima parte dell’architettura appartiene all’arte: il sepolcro e il monumento. Il resto, tutto ciò che è al servizio di uno scopo, deve essere escluso dal regno dell’arte»5. Anche Krauss rileva come la logica della scultura sia legata intrinsecamente a quella del monumento. Per secoli la scultura ha avuto principalmente un ruolo commemorativo e simbolico; collocata in luoghi precisi si ergeva su piedistalli che segnavano il distacco tra terra e cielo. L’evoluzione del monumento si inscrive a pieno titolo all’interno dei cambiamenti che hanno investito la scultura nell’ultimo secolo, contribuendo alla codificazione di nuovi linguaggi. Potremmo definirlo monumento nel campo allargato per usare le parole di Rosalind Krauss, dichiarazione che racchiude una serie di interventi artistici non più relativi al solo campo della scultura, ma che includono anche architettura, paesaggio e arte pubblica nella loro accezione più ampia. Il monumento con le relative influenze scatenate dalle correnti artistiche a lui contemporanee, è passato da forme puntuali, incentrate sul tema dell’opera come scultura figurativa, a vere e proprie architetture complesse, dotate di una loro spazialità e a interventi diffusi nel paesaggio. Il monumento è inoltre il riflesso delle rivoluzioni politiche ed estetiche che hanno caratterizzato la storia. Tutti i maggiori avvenimenti hanno, infatti, segnato e modificato le pratiche commemorative e le forme ad essi connesse:

As intersection between public art and political memory, the monument has necessarily reflected the aesthetic and political revolutions, as well as the wider crises of representation, following all of this century’s major upheavals—including both the First and Second World Wars, the Vietnam War, and the rise and fall of communist regimes in the former Soviet Union and its Eastern European satellites. In every case, the monument reflects both its socio historical and aesthetic context: artists working in eras of cubism, expressionism, socialist realism, earthworks, minimalism, or conceptual art remain answerable to the needs of both art and official history. The result has been a metamorphosis of the monument from the heroic, self-aggrandizing figurative icons of the late 19th century, which celebrated national ideals and triumphs, to the antiheroic, often ironic and self-effacing conceptual installations that mark the national ambivalence and uncertainty of late 20th-century postmodernism6.

Qualche nota di carattere etimologico. Monumento deriva dal latino monumentum che a sua volta deriva dal verbo monere (ricordare) ed è legato nell’immaginario collettivo a un’opera caratterizzata da una precisa iconografia. Si erge su un piedistallo che funge da mediatore tra la terra e il cielo ed è realizzato con materiali destinati a durare nel tempo come il marmo, il granito e il bronzo. Spesso indifferente al luogo, il monumento spicca per la sua retorica, ieraticità e ipertrofia dimensionale. Ogni monumento nasce con l’obiettivo di tramandare una memoria, è quindi portatore di un significato e ha una funzione simbolica che lo rende una delle massime espressioni del ricordo, sia esso sotto forma di scultura, obelisco o opera dotata di una spazialità complessa. Francesco Milizia nel 1781 definisce i monumenti come «qualunque opera di architettura o di scultura per conservare la memoria degli uomini più illustri e degli avvenimenti più venerandi»7. Nel dizionario della memoria e del ricordo di N. Pethes e J. Ruchatz, monumento indica «tutte quelle opere plastiche che – in contrapposizione ai monumenti non intenzionali del primo gruppo – vennero erette consapevolmente per la salvaguardia del ricordo di una persona, di un gruppo di persone o di un evento storico»8. Il monumento è il simbolo del ricordo, è una temporalizzazione dello spazio ovvero è portatore di una memoria che si esprime in determinato luogo.

Peter Eisenman, Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, Berlino, 2005

L’appartenenza del monumento al campo della scultura e/o dell’architettura è un interrogativo presente nel pensiero di storici, critici e progettisti che hanno fornito opinioni diverse a seconda degli atteggiamenti. Loos definisce il monumento e il sepolcro come unici oggetti che appartengono all’architettura quanto all’arte. Max Bill nel saggio “Denkmal” descrive il Monumento al prigioniero politico ignoto (1952, non realizzato) come opera che esprime la sintesi di architettura, scultura e pittura9. Peter Eisenman definisce il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa (Denkmal fur dii ermordeten Juden Europas, Berlino 2007) un’opera architettonica:

Così, per quanto riguarda il Memoriale di Berlino, sono due gli aspetti che ne fanno Architettura. Il primo è il riconoscimento del cambiamento di paradigma, spostatosi verso l’esperienza affettiva di oggetti, lontano dalla loro natura critica, linguistica e testuale. Il nostro Memoriale, un po’ per caso e un po’ intenzionalmente, ha trattato meno della sua possibilità di rappresentare un testo simbolico e più del soggetto individuale avendo un’esperienza prima facile nel presente.  E non si tratta di un’esperienza legata ai campi di concentramento in sé. I campi possono essere visti e poi assimilati psicologicamente nell’esperienza quotidiana. Non è ciò che succede con il nostro Memoriale, il quale provoca l’esperienza di provare l’effetto di essere soli, incarcerati, di sentirsi persi nello spazio, se mai una tale condizione fosse possibile. […] Ed è ciò che la rende Architettura: un’esperienza fisica che non si basa sulla rappresentazione della Shoah come la sua narrativa principale, ma piuttosto cerca di presentare ciò che l’Architettura è e può essere10.

Il monumento è, infatti, una delle forme artistiche che ha sperimentato maggiormente le influenze di linguaggi fra arte e architettura, essendo realizzato molto spesso da sodalizi tra architetti e scultori. Nei monumenti ai caduti, in particolare dalla Rivoluzione Francese in avanti, prevale una logica incentrata sul tema dell’opera come scultura figurativa, un esempio è il soldato nel ruolo di San Giorgio che uccide il drago11. Alla fine del primo conflitto mondiale steli, lapidi, cippi sono presenti in modo capillare in tutte le città, eretti per volontà delle singole comunità. È proprio nel Novecento, e in particolare dalla fine della seconda guerra mondiale, che il monumento subisce un processo di trasformazione tale da ridefinire alcuni elementi fondamentali, in ambito simbolico e formale:

Se infatti nell’arco della storia, dal mondo antico fino al finire dell’Ottocento, si possono osservare persistenze (formali e simboliche) accanto a evoluzioni, ma non si registrano sostanziali mutamenti, nel secolo appena trascorso – e soprattutto nella sua seconda metà – la riflessione attorno al monumento ha generato forme e tratti concettuali estremamente distanti dalla tradizione, se non in dichiarata antitesi12.

Il 1945 rappresenta per molti studiosi come, Aleida Asmann, Reinhart Koselleck, Peter Reichel, Richard Serra e Jay Winter13, un vero punto di rottura rispetto alla concezione passata del monumento. Dal punto di vista del linguaggio architettonico i monumenti del secondo dopoguerra acquistano spazialità complesse, sono luoghi da percorrere «concependo degli spazi da attraversare, dentro cui entrare, da abitare, che hanno anche una funzione, se pur minima o ridotta: spazi per meditare, spazi per riflettere, spazi per ricordare»14. Il primo monumento che apre una pagina nuova nella storia delle opere commemorative è il Mausoleo delle Fosse Ardeatine15 a Roma: «non solo per la prima volta un monumento è concepito come percorso dinamico anziché come oggetto statico, ma gli episodi architettonici e artistici posti in relazione corrispondono esattamente a quelli della storia da ricordare, consentendoci di riviverla e attualizzarla»16.

Mario Fiorentino e Giuseppe Perugini, Mausoleo delle Fosse Ardeatine, Roma, 1947-49. (ph. by Michela Bassanelli)

Il Mausoleo non è più un oggetto figurativo, astratto e solitario da dover contemplare, ma diventa un percorso da vivere fisicamente ed emotivamente, fatto da elementi che coinvolgono natura, scultura, architettura. In questo caso l’opera coinvolge elementi di discipline diverse ma che sono ancora trattati come singoli episodi: il percorso nelle cave di pozzolana, luogo dell’uccisione, il luogo delle sepolture, un enorme masso perfettamente squadrato che fa da copertura alle singole lapidi e l’incombente scultura di Coccia, che raffigura tre uomini con le mani legate simbolo di tutte le età. Natura, architettura e scultura partecipano alla realizzazione e riuscita del memoriale. Il luogo come testimone e l’idea di un percorso strutturato attraverso episodi diversi, sono elementi cardine del memoriale di Treblinka (1964), nato dal sodalizio tra l’architetto Adam Haupt e lo scultore Franciszek Duszenko. In questo caso scultura e paesaggio collaborano nella definizione di un luogo memoriale altamente evocativo. Definito dal critico James Yung come il più espressivo dei memoriali dell’Olocausto, si presenta come un vasto campo ricoperto da circa 17.000 pietre di granito disposte attorno ad una pietra maggiore su cui è scolpita una menorah. Le pietre rievocano l’immagine di un cimitero, un ricordo e un simbolo per chi ha perso la vita in quel luogo. Il memoriale presenta inoltre degli evidenti richiami alla corrente artistica della Land art; collocato in un contesto specifico ristabilisce un legame con la natura che diventa in questo caso simbolo di ritorno alla vita. É il Memoriale del Vietnam di Maya Lin che rappresenta in modo più esplicito l’integrazione fra architettura, paesaggio e scultura. Nel 1982, anno del concorso per la realizzazione del memoriale ai soldati americani caduti nella guerra del Vietnam, Maya Lin era ancora una studentessa dell’università di Yale. Nonostante i 1400 concorrenti, questo giovane architetto vince il concorso e realizza un’opera nuova e controversa rispetto alla tradizionale concezione dei monumenti di guerra americani. Un lungo muro di granito nero lucido, su cui sono incisi i 58.195 nomi dei caduti, scompare nel terreno come una ferita inflitta nel corpo dell’uomo. Questa lama, lunga 150 metri, penetra nella terra attraverso un movimento discendente verso gli “inferi”, oltre tre metri nel punto più basso. Il visitatore che percorre lo spazio si riflette nel granito lucido creando un contrasto tra ciò che è assente e quindi solamente nominato e ciò che è presente e vivo.

Maya Lin, Vietnam Veterans Memorial, Washington, 1982. (ph. by Nicholas Wang, creative commons)

Il muro di Maya Lin si inserisce all’interno della corrente minimalista che si ritrova in altre opere nate in quegli anni: «Si trattava dello stesso genere di minimalism misto a environmentalism che veniva portato avanti, proprio in quegli anni, nell’opera di altri artisti americani, come per esempio in quella di Richard Serra, notissimo scultore, poi coinvolto insieme a Peter Eisenman, nel primo progetto per il Memoriale dell’Olocausto di Berlino»17. Spazio da attraversare, griglia urbana che richiama le strutture modulari di Donald Judd ma anche la matericità del Cretto di Burri nei moduli in cemento grigio, il Memoriale di Berlino18 si installa nella città diventandone parte integrante. 2700 parallelepipedi ad altezze diverse creano un campo del ricordo dove il visitatore può immergersi e lasciarsi disorientare.

Il progetto di Ludovico Barbiano di Belgiojoso e di Ernesto Nathan Rogers per il memoriale di Gusen (1965) anticipa, invece, gli spazi dedalici di Robert Morris, come i labirinti litici di Celle e Pontevedra. Il progetto del memoriale si basa sulla creazione di un percorso labirintico che conduce allo spazio centrale del crematorio. Gli schizzi mostrano il rapporto tra la figura umana e le nuove pareti che racchiudono e proteggono questo luogo di memoria. I muri a mano a mano che ci si avvicina verso l’interno crescono in altezza, passando dai 2 metri iniziali ai 3,60 finali, e si restringono in pianta, da 6 metri a 3,50. Il muro, elemento base dell’architettura ma anche rappresentazione della deportazione, diventa lo strumento di costruzione di uno spazio performativo: «Le pareti diventano sempre più alte e gli spazi sempre più stretti, così da creare nei visitatori il senso di angoscia della prigionia»19. Nel Labirinto di Morris (1982) il percorso provoca nello spettatore un profondo disorientamento:

Un angusto vano d’entrata, tale da consentire l’accesso a una sola persona per volta, immette lo spettatore all’interno di un corridoio obbligato che si snoda in pendenza tra angoli fortemente acuti. Il traguardo di questo lungo e tortuoso tragitto unidirezionato della lunghezza di sessanta metri, è costituito da un muro bloccante, un cul-de-sac, che obbliga il fruitore a tornare sui propri passi. In uscita della struttura, viene offerta una differente lettura dell’opera rispetto a quella proposta mediante l’esperienza diretta nel disorientante sentier20.

L’oggetto scultoreo diventa esperienza emozionale di confusione e smarrimento che ben si coniuga con il linguaggio dei memoriali che vogliono sempre più diventare momenti di forte impatto emotivo.

BBPR, Gusen Memorial, Gusen, 1965

Robert Morris, Labirinto, Collezione Gori, Fattoria di Celle, 1982. (ph. by Vanni Bassetti, creative commons)

Negli esempi descritti si va delineando un’idea di monumento come forma che ha allargato i suoi confini simbolici e spaziali, iniziando a sperimentare nuovi linguaggi. Le uniche opere che sembrano voler richiamare il modello formale del monumento, ma desacralizzandolo sono i contromonumenti: opere che seguono «la mutazione, il deperimento e la scomparsa»21 e dove diventa centrale il rapporto tra oggetto e visitatore che viene stimolato a riflettere in prima persona sull’evento. Caso esemplare è il Monumento contro il fascismo, la guerra, la violenza – per la pace e i diritti umani (Mahnmal gegen Faschismus, Krieg, Gewalt für Frieden und Menschenrechte, Amburgo 1986) della coppia Jochen e Ester Shalev Gerz. Si tratta di una “monumentale” colonna quadrata alta dodici metri (1200x100x100 cm) e destinata alla lenta scomparsa nel suolo dopo sette anni. Un memoriale temporaneo dove gli abitanti sono chiamati attivamente a scrivere commenti sulla superficie esterna:

We invite the citizens of Harburg, and visitors to the town, to add their names here to ours. In doing so, we commit ourselves to remain vigilant. As more and more names cover this 12 meter tall lead column, it will gradually be lowered into the ground. One day it will have disappeared completely, and the site of the Harburg monument against fascism will be empty. In the end, it is only we ourselves who can rise up against injustice22.

L’opera dei Gerz è quindi memoria di un monumento assente poiché la memoria diventa quella viva dello spettatore che, attraverso la sua firma, diventa parte integrante della realizzazione.

Jochen Gerz and Esther Shalev-Gerz, Mahnmal gegen Faschismus (Monument against Fascism), Harburg – Hamburg, 1986, © Jochen Gerz, VG Bild-Kunst, Bonn 2014, image coutesy Gerz studio

Se i contromonumenti segnano una prassi mnemonica nuova, servendosi di un linguaggio legato ancora all’iconografia del monumento ma che viene ribaltato, nella contemporaneità sembra emergere una dimensione disciplinare aperta, dove paesaggio, spazio pubblico e arte si mescolano sulla scia del concetto di Sculpture in the Expanded Field di Rosalind Krauss23: «è il corpo espanso e allargato della scultura che emerge dopo che essa perde la sua finitezza come corpo chiuso rispetto alle circostanze spaziali e temporali in cui è collocata»24. Su questo concetto lavora l’arte pubblica, ovvero l’arte che ha fatto dello spazio pubblico il luogo privilegiato d’intervento e che trasforma il visitatore in una persona che deve interagire attivamente con il luogo, la memoria e l’opera stessa. Il saggio identifica tre approcci che rappresentano nuove modalità di espressione dei monumenti il cui scopo è un lavoro attivo, indipendente e critico sulla memoria.

 

Monumento come Insinuazione

Alcuni atteggiamenti dei monumenti contemporanei mostrano una volontà di intromissione nella vita e nei gesti quotidiani delle persone, non con la presenza di grandi forme monumentali seppur capovolte nella logica del contromonumento, ma con operazioni minime, sottili, quasi invisibili. Gli Stolpersteine di Gunter Demnig, chiamati anche pietre d’inciampo, sono un musaico di memorie oggi diffuso in 17 paesi europei e 898 città tedesche. I sampietrini rappresentano un modo inusuale di richiamare la memoria, cercano un contatto con le persone ma in modo libero e non obbligato. La stessa etimologia delle parola stolpern rimanda sia al verbo “inciampare” sia a quello di “attivare la memoria”. Il progetto consiste in un piccolo sampietrino d’ottone posto davanti alla porta della casa in cui abitò il deportato e sul quale sono incisi il nome della persona, l’anno di nascita, la data e il luogo di deportazione e, quando nota, la data di morte. I piccoli pezzi che compongono questa geografia diffusa si pongono in netta contrapposizione ai caratteri principali del monumento: negano il principio di verticalità essendo interrati e di forte presenza visiva, si notano solo quando vi si inciampa. È la diffusione e l’insinuazione nella topografia di luoghi della città a rendere questo monumento un’opera fondamentale nell’espressione di un linguaggio memoriale contemporaneo che richiede una modalità di fruizione dinamica e temporalizzata.

Gunter Demnig, Stolperstein, Rome, (ph. by Michela Bassanelli)

Monumento come Interazione 

Un secondo tratto distintivo dei monumenti contemporanei riguarda la temporalità. In questo genere di opere la partecipazione diventa la base dell’opera stessa. Lo stesso atteggiamento si ritrova nella scultura contemporanea con le opere, per esempio, di Thomas Hirschhorn; realizzate con materiali di scarto e riciclo richiedono un costante e diretto coinvolgimento dello spettatore:

I miei monumenti richiedono la partecipazione della popolazione del luogo in cui sono stati costruiti. I miei monumenti sono temporanei […]. I miei monumenti producono qualcosa, non sono fatti per essere guardati, le persone possono usarli come luoghi d’incontro e solo se li usi puoi comprenderli. Per me la scultura è un evento, un’esperienza non uno spettacolo25.

Per monumento temporaneo si intende, quindi, una installazione o performance, nello spazio pubblico e nel paesaggio, in grado di riattivare, secondo modalità mitopoietiche e evocative, la memoria dell’evento per una durata limitata. È questo il caso del fiume rosso formato dalle sedie nella città di Sarajevo26 e del progetto The fallen27 che ha riattivato per un giorno le coste dello sbarco in Normandia. Il Future Monument di Jochen Gerz richiama un altro tipo di temporalità, insita nel suo stesso farsi. L’opera è iniziata nel 1998 ed è stata inaugurata nel 2004. Il monumento si trova nella città di Coventry, prima città inglese ad essere stata bombardata e ridotta a un cumulo di macerie nel 1940. L’artista pone un quesito agli abitanti “chi sono i nemici del passato?” invitandoli a riflettere su una questione scomoda. Dopo alcune difficoltà iniziali generate della stampa locale che ritiene il quesito provocatorio, seimila persone rispondono alla domanda. L’opera è un obelisco di vetro illuminato dall’interno dove ai piedi sono state posizionate delle placche con le seguenti iscrizioni “To our German friends – To our Spanish friends – To our Russian friends – To our American friends – To our British friends – To our French friends – To our Turkish friends”. I nomi dei vari gruppi nascono dall’azione di collaborazione con gli abitanti della città chiamati in prima persona a fare un elenco delle nazioni che erano state nemiche del loro paese nel passato; tra tutti sono stati scelti gli otto nomi più ricorrenti. Questo lavoro mostra come sia difficile cercare di definire delle memorie che siano il più possibile condivise. L’obelisco di vetro richiama, inoltre, una temporalità passata attraverso l’uso di una forma consueta, tipica di una certa volontà di espressione. Guardandolo con maggiore attenzione si nota però come l’obelisco sia di vetro, materiale trasparente e fragile, e sia privo di basamento, elemento fondamentale di collegamento fra terra e cielo. Il monumento contemporaneo non gioca con l’eternità ma con la volontà di creare nello spettatore un’azione forte, dove lui stesso è spesso attore, creando nell’interazione il ricordo dell’evento.

Jochen Gerz, Future Monument, Coventry, 2004, © Jochen Gerz, VG Bild-Kunst, Bonn 2014, Image Courtesy Gerz studio

Monumento come Rigenerazione 

Esiste, infine, un legame sempre più intimo tra elementi naturali e forme commemorative. Natura e paesaggio diventano degli strumenti in grado di rigenerare le memorie attraverso la vita che essi stessi incarnano. È quello che accade per esempio nel National 9/11 Memorial di Michael Arad and Peter Walker. I visitatori possono abbandonare la vita frenetica quotidiana ed entrare in un’area pubblica definita da un fitto bosco di 416 querce e da due fontane che riprendono il perimetro delle due torri richiamando il tema del vuoto. Il progetto risponde ai requisiti previsti dalla giuria nel bando di concorso: realizzare un memoriale in grado non solo di commemorare ma anche di ricostruire, uno spazio per la memoria della distruzione passata e per la vita presente e le nuove generazioni: «The result is a memorial that expresses both the incalculable loss of life and its consoling regeneration»28. In particolare la presenza del verde all’interno della piazza simboleggia una forma viva e di rigenerazione della vita stessa: «[…] memory itself is lost, that like life itself, memory needs to be cultivated and attended to»29. Il progetto del giovane artista polacco Lukasz Surowiec30 Berlin-Birkenau per la Settima Biennale d’arte di Berlino (2012)31 lavora con il verde come simbolo di coltivazione di una memoria nel tempo; principio che si ritrova anche nel Giardino dei Giusti. In diversi luoghi di Berlino32 l’artista pianta 320 betulle provenienti dal campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau e altre piccole piantine sono state esposte nel Kunst-Werke con la possibilità per chiunque di prenderne una, assicurando la volontà di averne cura: «Tutto questo – dice Surowiec – crea un memoriale personale la cui sopravvivenza dipende da ciascuno, un monumento vivente per le vittime dell’Olocausto perché non siano dimenticate»33. Il memoriale diventa parte della città e della vita dei cittadini che sono chiamati a occuparsi in prima persona dei piccoli alberi. Il cittadino diventa responsabile e garante di quella memoria, che coltiva per se ma anche a nome della collettività.

Andy Moss, Jamie Wardley, The Fallen 9000, Normandy beach, September 21 2013 (courtesy of the artists)

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1 R. Krauss, “La scultura nel campo allargato” (1978) in L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti (1985), Roma, Fazi, 2007, pp. 283-297.
2 A. Loos, Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972.
3 A. Loos, op.cit., p. 255.
4 R. Krauss, op. cit., p. 283.
5 A. Loos, op.cit., 241-256.
6 J. E. YUNG, Memory and Counter-memory, in Harvard Design Magazine, n.9, http://www.harvarddesignmagazine.org/issues/9/memory-and-counter-memory
7 G. P. Consoli, Forme antiche per monumenti moderni: architettura celebrativa in Italia 1797-1814, in M. Giuffré, F. Mangone, S. Pace, O. Selvafolta, a cura di, L’architettura della memoria in Italia: cimiteri, monumenti e città, Milano, Skira, 2007, pp. 25-32.
8 N. Pethes, J. Ruchatz, Gedächtnis und Erinnerung. Ein interdisziplinres Lexicon, Reinbek, Rowohlt Taschenbuch Verlag, 2001 (trad. it. Dizionario della memoria e del ricordo, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p. 353).
9 «The objection was raised that my project was not sculpture but architecture. Sculpture and architecture have a common characteristic, namely the composition of space. The case we are discussing is actually a border-line case, in which spatial development, in the plastic sense, is achieved by the use of architectonic means… The result is a compositive work, a synthesis of sculpture-architecture-painting»[9], M. Bill, Denkmal, in T. Maldonado, Max Bill, Buenos Aires, Nueva Vision, 1955, p. 70.
10 P. Eisenman, Architettura e Rappresentazione, Lectio magistralis tenuta all’Accademia di Brera il giorno 27 gennaio 2012, http://www.arcduecitta.it/2012/07/architettura-e-rappresentazione-peter-eisenman/
11 «Fu proprio la guerra mondiale a produrre in quasi tutti i paesi una nuova trasformazione. Ora troviamo il soldato semplice che, in figura di cavaliere, uccide il drago, come a Marylebone in Inghilterra o a Regen nella foresta bavarese. Ma una volta che il primo soldato semplice è innalzato sul dorso di un cavallo, è facile constatare che in seguito, quando si ricorrerà al motivo del Giorgio a cavallo, saranno ormai solo i soldati ad assumerne il ruolo», R. Koselleck, “I monumenti: materia per una memoria collettiva?”, in «Discipline Filosofiche», n. 2, anno XIII, 2003, p. 13.
12 E. Pirazzoli, “Fra assenza e afasia. Crisi e ridefinizione del monumento di fine Novecento”, in S. De Maria, V. Fortunati, Monumento e Memoria. Dall’antichità al contemporaneo, Bononia University Press, 2010, p. 233.
13 J. Winter, Sites of Memory, Sites of Mourning: The Great War in European Cultural History, Cambridge e New York, Cambridge University Press, 1995.
14 F. Cardullo, “Architettura come ammonimento. Il significato simbolico dell’architettura”, in Architettura e città, Milano, Di Baio Editore, 2006, p. 122.
15 Dopo la liberazione il Comune di Roma istituisce un bando per la progettazione di un monumento da erigere a ricordo dei Martiri e caduti di guerra. Vincitori ex aequo sono i gruppi “Risorgere” e “Uga” costituiti da: N. Aprile, C. Calcaprina, A. Cardelli, M. Fiorentino, G. Perugini, M. Basaldella, F. Coccia a cui si aggiunge lo scultore Mirko.
16 A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli, Roma, 2014, p. 6.
17 M.C. Ruggeri Tricoli, Trauma. Memoriali e musei fra tragedia e controversia, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2009, p. 43.
18 Un processo lungo e travagliato ha riguardato tutta la fase del dibattito preliminare. Il concorso bandito nel 1994 aveva ricevuto la partecipazione di 528 progetti; il sito prescelto era localizzato tra la porta di Brandeburgo e la Potsdamer Platz, dove sorgevano i Giardini Ministeriali prima dei bombardamenti del 1945. Il progetto vincitore del primo concorso, ma non realizzato, del gruppo di artisti con il nome di Christine Jacob Marks, prevedeva un’enorme lastra quadrata di cemento dove vi erano incisi quattro milioni e mezzo di nomi. Il progetto riguardava inoltre l’affissione, sul monumento in cemento, di diciotto schegge di roccia provenienti da Masada (il monumento commemorativo per eccellenza della storia nazionale israeliana). Questo primo progetto venne rifiutato in quanto raccontava due momenti diversi della storia ebraica. Venne indetta una seconda fase concorsuale che portò al centro dell’attenzione la proposta di Peter Eisenman e Richard Serra: un “campo del ricordo” in cui erano poste 4000 steli di cemento di diversa altezza. L’artista Richard Serra a causa dei continui cambiamenti imposti al progetto decise di ritirarsi mentre l’architetto scelse di proseguire, e modificò il memoriale riducendo il numero dei parallelepipedi da 4000 a 2700. A fronte di numerose critiche venne costruito anche un piccolo museo sotterraneo, un luogo dell’informazione suddiviso in quattro stanze: una Stanza del silenzio, una Stanza dei nomi, una Stanza dei destini ed una Stanza dei luoghi.
19 L. Galmozzi, Monumenti alla libertà. Antifascismo Resistenza e pace nei monumenti italiani dal 1945 al 1985, Milano, La Pietra, 1986.
20 A. Acocella, I labirinti di pietra tra architettura e paesaggio, in “Architettura di pietra”, ottobre 2008, accessibile http://www.architetturadipietra.it/wp/?p=2010
21 E. Pirazzoli, op. cit., p. 241.
22 «Invitiamo i cittadini di Harburg, e i visitatori della città, ad aggiungere qui i loro nomi. Nel fare questo, stimoliamo noi stessi a riflettere. Moltissimi nomi copriranno i 12 metri di colonna che scomparirà lentamente nel terreno. Un giorno il monumento sarà completamente interrato, e il sito che ospita il monumento di Harburg contro il fascismo rimmarà vuoto. Alla fine è solo con noi stessi che è possibile superare le ingiustizie», J. Vickery, The Past and Possible Future of Countermonument, in «public art online», March 14, 2012, from http://www.publicartonline.org.uk/whatsnew/news/article.php/The+Past+and+Possible+Future+of+Countermonument (T.d.A.)
23 R. Krauss, Sculpture in the Expanded Field, in «October», vol. 8, 1979, pp. 30-44.
24 L. Perelli, Public Art. Arte, interazione e progetto urbano, Milano, FrancoAngeli, 2006, p. 76.
25 B. Buchloh, A. Gingers, C. Basualdo, Thomas Hirschhorn, Phaidon, London-New York, 2004, p. 65.
26 In ricordo del ventesimo anniversario dall’inizio dell’assedio di Sarajevo (6 aprile 1992) la città e la compagnia teatrale Est-West decidono di dedicare la giornata alla commemorazione dell’evento. L’installazione principale dell’artista Haris Pašovic riguarda la messa in scena nella via principale della città di 11.541 sedie rosse vuote, disposte su 825 file, corrispondenti ai morti durante i quattro anni di assedio. Su alcune di esse i passanti lasciarono fiori, giocattoli e caramelle. 643 sedie erano di piccole dimensioni per rappresentare gli altrettanti bambini uccisi. Nella giornata erano previsti anche concerti, performances e esposizioni.
27 Il progetto, denominato The Fallen è un omaggio ai civili, le forze tedesche e alleate che hanno perso la vita durante l’Operazione Nettuno avvenuta il 6 giugno 1944. Secondo le parole del progettista l’idea è di creare una rappresentazione visiva di quello che difficilmente è immaginabile, ovvero il numero di vite umane perse durante il conflitto. La marea durante il giorno ha cancellato poco a poco i corpi dalla sabbia che erano stati semplicemente scavati attraverso delle sagome. Si tratta di un’operazione fortemente metaforica che attraverso il coinvolgimento delle persone ha creato un nuovo memoriale per un tempo limitato.
28 «Il risultato è un memoriale che rappresenta sia la perdita incalcolabile di vite umane sia una rigenerazione» in J. E. Young, “The Stages of Memory at Ground Zero”, in O. Baruch Stier, J. S. Landres, a cura di, Religion, Violence, Memory and Place, Bloomington, Indiana University Press, 2006, p. 232.
29 «la memoria in se stessa è persa, come la vita stessa, ha bisogno di essere coltivata e seguita» in Ivi, p. 228.
30 Lukasz Surowiec (1985) è un giovane artista polacco poliedrico.
31 Il titolo della settima Biennale di Berlino è “dimenticare la paura”. I temi che affronta riguardano l’arte e la politica: “Vogliamo presentare un’arte che lasci il suo segno, che apra uno spazio per la realizzazione della politica. Queste opere—spiega Zmijewski—creano eventi politici, sia che affrontino problemi urgenti della società o siano legate più a lungo termine alla politica della memoria”, P. Lepri, “Occupy Biennale, a Berlino l’arte è politica”, Corriere della Sera, 29 aprile 2012, p. 35.
32 http://maps.google.com/maps/ms?ie=UTF8&oe=UTF8&msa=0&msid=206394778263636734265.0004aeb2ca3943de4cc53
33 P. Lepri, op. cit., p. 35.

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Riferimenti bibliografici
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Michela Bassanelli è architetto, dottore di ricerca e docente a contratto del Politecnico di Milano in architettura degli interni e allestimento. Le sue ricerche si focalizzano sia sulla museografia e sulle pratiche di diffusione della memoria collettiva sia sui temi dell’abitare e degli interni domestici. Attualmente è art director della Galleria Colleoni Arte dove svolge attività di ricerca sull’arte contemporanea e sul design ed è coinvolta nel progetto europeo TRACES – Transmitting