§Ricco Patrimonio/Povera Patria
Oltre il patrimonio, agire l’eredità comune.
Una riflessione collettiva sul processo ecomuseale del Simeto in Sicilia
di Vincenza Piera Bonanno, Carmelo Caruso, Valentina Del Campo, Medea Ferrigno, Agata Lipari Galvagno,
Marianna Nicolosi, Domenico Pappalardo e Giusy Pappalardo

Introduzione

Il portato della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità [1] culturale per la società fatta a Faro nel 2005 invita a ragionare su possibilità di esistenza e margini d’azione per quei soggetti collettivi che tale Convenzione definisce comunità di eredità: gruppi che attribuiscono “valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale” e che desiderano “sostenerli e trasmetterli alle generazioni future, nel quadro di un’azione pubblica”. Sebbene le dichiarazioni di principio contenute nella Convenzione di Faro siano pienamente condivisibili, i suoi risvolti pratici e le sue implicazioni di policy restano ancora questioni da esplorare.
Diversi sono gli interrogativi aperti dalla Convenzione: come si configura nel concreto una comunità di eredità? Con quali sfide si trova oggi a confrontarsi? Verso quale orizzonte può operare per garantire che le dichiarazioni di principio possano tradursi in azione efficace nei territori, in particolare nei luoghi marginali e fragili come i contesti più svantaggiati del Meridione d’Italia?

Il presente scritto prova ad affrontare questi interrogativi attraverso una riflessione elaborata nell’ambito di una partnership di reciprocità costruita con una prospettiva di lungo termine tra Università e comunità locale (Reardon, 2006).
In particolare, si tratta di una partnership di ricerca-azione promossa dal Laboratorio per la Progettazione Ecologica e Ambientale del Territorio (LabPEAT) dell’Università di Catania e un soggetto collettivo denominato Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto, organizzazione nata nella cornice di un accordo volontario di governance territoriale condivisa – il Patto di Fiume Simeto – cui hanno aderito nel 2015 una decina di enti locali lungo il medio corso del Fiume Simeto e circa 60 associazioni, oltre all’Università stessa (Gravagno et al., 2011; Saija, 2016; Pappalardo et al., 2020).

Sono diversi gli scritti [2] che affrontano criticamente le diverse fasi evolutive di un processo in atto da ormai oltre un decennio e in continuo mutamento.
Questo testo, in particolare, restituisce alcune riflessioni maturate da un gruppo di giovani co-ricercatori aderenti alla partnership, in assetto dialogico e auto-analitico, come esito di un momento di confronto su aspetti pratici specifici e implicazioni di carattere più generale sul tema dell’eredità comune.
A partire da un approfondimento sul tema dei commons, abbiamo riflettuto collettivamente sul compito che un’organizzazione come il Presidio può assumere oggi nel tentativo di dare nuova vita a un’eredità territoriale comune sempre più in disfacimento, che rischia di dissolversi nelle contraddizioni e distorsioni della contemporaneità.
Nello specifico, lo scritto restituisce alcuni tratti di un processo ecomuseale in atto (de Varine, 2017), messo in campo come dispositivo organizzativo specifico sul tema dell’eredità natural-culturale (Latour, 2000), nelle sue molteplici sfaccettature (Pappalardo, 2020), alla prova oggi di alcuni fatti gravi che hanno riguardato la Sicilia e non solo, durante la calda estate 2021. Si tratta dei devastanti incendi che hanno distrutto diversi ettari di suolo agricolo, pascoli, boschi, zone umide, ecc. (Pappalardo & Saija, in stampa), parte di quell’eredità natural-culturale che l’Ecomuseo del Simeto stava con fatica provando a rigenerare.
La prima parte dello scritto restituisce i nodi problematici del dibattito sui beni comuni che abbiamo discusso, alla luce di quanto esperito sul campo nell’ambito della partnership di ricerca-azione. La seconda parte è dedicata ad alcuni degli aspetti più significativi della più recente fase dell’esperienza di campo della partnership e restituisce alcuni nodi problematici dell’agire emersi nel tentativo di costruire una comunità di eredità attraverso il percorso dell’Ecomuseo.

 

Di quale eredità comune parliamo?

Nel riferirci al dibattito sui commons (beni comuni), facciamo principalmente riferimento a quanto emerso nel contesto anglofono [3] e diffuso su scala internazionale a partire dal 1968, a seguito del celebre articolo di Garrett Hardin The tragedy of the commons, fino a raggiungere l’apice nel 2009 con l’assegnazione del premio Nobel per l’economia a Elinor Ostrom, autrice del seminale Governing the Commons (1990). Le domande da cui prende le mosse tale dibattito sono molteplici. L’interrogativo di fondo riguarda, in particolare, la possibilità di percorrere una terza via per la gestione di alcune categorie di beni (principalmente risorse naturali come acquiferi, boschi, pascoli, ecc., ma anche manufatti antropici, ecc.), al di là della tradizionale logica binaria di “bene pubblico” e “bene privato”, concependo un sistema di fruizione delle risorse (naturali e non) che sia insieme ecologicamente sostenibile, inclusivo e democratico. Sono questioni centrali anche per ripensare gli attuali modelli di sviluppo e di partecipazione democratica: un ripensamento che oggi si ripropone con sempre maggiore urgenza nel discorso politico globale.

La comparsa dei beni comuni ha dunque messo in crisi il concetto di proprietà nell’accezione dicotomica “proprietà privata versus proprietà pubblica” (Hardt e Negri, 2010). Il concetto di bene comune introduce il tema della titolarità diffusa: i beni comuni appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono potervi accedere e nessuno può vantare pretese esclusive su di essi e, pertanto, occorre che siano amministrati partendo da un principio di solidarietà.
In questa prospettiva, il concetto di bene comune supera la logica dell’individuazione di un unico gestore del bene perché, potendo tutti gli interessati usarlo e accedervi direttamente, dovrebbe essere sufficiente che ne siano definite le condizioni d’uso. Come sostiene Rodotà (2012), è il modo stesso con cui il bene viene costruito a renderlo accessibile a tutti gli interessati.
Tuttavia, il tema dell’accesso diretto ai beni comuni apre svariate questioni problematiche. In primo luogo, ciascuno dovrebbe essere messo nelle condizioni di fruire e difendere tali beni, anche agendo in giudizio. Tale imperativo si scontra con alcuni nodi chiave sulle reali dinamiche di potere esercitate nei contesti collettivi e sulle eventuali discriminazioni di accesso che possono portare alla fruizione solo in modo parziale e privilegiato di tali beni.
Inoltre, il dibattito su beni comuni – in particolare in Italia a seguito di quanto evidenziato dallo stesso Rodotà (ivi) – si intreccia con le questioni dell’esercizio dei diritti fondamentali intesi come arricchimento dei poteri in capo a ogni persona quale precondizione per l’effettiva partecipazione al processo democratico. In questo senso, Rodotà estende il concetto di bene comune, spostando l’attenzione da un’accezione legata principalmente alle risorse materiali a un’accezione più vasta, che comprende tutti quei beni funzionali all’esercizio dei diritti, tra cui l’accesso alla conoscenza come questione di democrazia.

Ancora in Italia, il concetto di bene comune negli anni conquista una dimensione che va oltre l’ambito dei diritti, fino a riguardare la sfera del governo del territorio (Magnaghi, 2012) e della tutela e cura del paesaggio (Settis, 2013). Riteniamo dunque che l’eredità natural-culturale stratificata nei territori e visibile nei paesaggi – fatta da beni materiali e immateriali – possa considerarsi essa stessa bene comune e in quanto tale è opportuno che venga trattata.

Le diverse accezioni del dibattito hanno come denominatore comune il fatto che alcune categorie di beni non possono essere oggetto di chiusura, di privatizzazione; in altre parole, non possono essere sottoposti alla logica del mercato; al contrario, è auspicabile che siano aperti e permeati da dinamiche di condivisione, di creazione e rafforzamento dei legami sociali, di iniziative collettive come manifestazione di valori condivisi, non solo a vantaggio di una comunità abitante uno specifico contesto, ma dell’intera comunità vivente. I beni comuni, intesi in tal senso, rappresentano dunque il “vantaggio comune” della salvaguardia degli elementi costitutivi dell’ecosistema Terra. Di conseguenza, essi pongono la questione delle responsabilità comuni necessarie per garantire diritti fondamentali che non sono solo quelli dei cittadini che vivono nell’oggi e in un determinato territorio, ma anche dei cittadini di altri territori e di altre epoche, dei cittadini di domani. I beni comuni incorporano quindi la dimensione del futuro, nella quale si riflette una solidarietà che non può che essere intergenerazionale.

Dunque, poiché si oppongono all’individualismo proprietario – e tutti possono accedervi e nessuno può vantare diritti esclusivi – i beni comuni presuppongono il riconoscimento e la necessità di alimentare poteri diffusi volti ad agevolare effettive forme di partecipazione e agency da parte di tutti gli interessati, perché sia effettivamente protetto, conservato e garantito un vantaggio comune e non un privilegio.
Passare dalla logica proprietaria dualistica all’aspirazione ampia incorporata dai beni comuni è senza dubbio un processo faticoso e problematico che si svolge a molti livelli, al quale è necessario che partecipi – per la natura stessa dei beni comuni – una molteplicità di attori chiamati a coalizzarsi e utilizzare lo straordinario potere di fare rete (Benkler, 2007).

I beni comuni, dunque, pongono con forza una novità democratica: sperimentare e definire nuove forme di organizzazione (governance) per dare vita ad altre forme di cittadinanza scaturite dall’interazione sociale. In definitiva, i beni comuni possono creare legami sociali più forti, più intensa presenza democratica (Costa, 2012) e nuove forme di solidarietà intese come ritrovate funzioni del principio costitutivo della convivenza, a patto che tali dinamiche non degenerino in polarizzazioni di potere ma siano foriere di un potenziamento orizzontale e diffuso.

Come tradurre tutto questo in pratica? Come fruire l’eredità naturale-culturale di un territorio in termini di bene comune? Da anni, nella Valle del Simeto è in atto un processo che tenta di lavorare in questa direzione. La seconda parte di questo scritto, a seguire, offre una breve ricostruzione delle premesse e alcune riflessioni relative alle sfide che attualmente ci troviamo ad affrontare.

 

Il processo ecomuseale del Simeto

L’idea di un Ecomuseo nella Valle del Simeto in Sicilia è parte di un lungo processo che ha preso avvio da un primo conflitto ambientale tra una coalizione di soggetti locali e il Governo Regionale in contrapposizione al Piano Rifiuti del 2002 che prevedeva la costruzione di un mega-inceneritore in un’area S.I.C. a ridosso del Fiume Simeto. Da quella mobilitazione sociale, la società civile ha avviato una partnership di lungo termine con il Laboratorio per la Progettazione Ecologica e Ambientale del Territorio dell’Università degli Studi di Catania che ha preso avvio da una prima fase di mappatura di comunità condotta in forma sperimentale tra il 2009 e il 2010 (Saija & Pappalardo, 2018), fino alla stipula di uno strumento volontario di governance del territorio condivisa denominato Patto di Fiume Simeto (Gravagno et al., 2011; Saija, 2016; Pappalardo et al., 2020 tra gli altri), coinvolgendo 10 Comuni della Valle [4].

Nel 2015, le associazioni coinvolte nella
partnership si sono aggregate nel Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto, continuando un percorso complesso di organizzazione comunitaria, tutela proattiva e sviluppo locale, in sinergia con l’Università nonché con gli Enti Locali coinvolti oggi nel Patto di Fiume Simeto.
Il percorso di Patto ha generato, tra le altre cose, l’idea di alimentare la costruzione e vita di un ecomuseo, inteso come dispositivo comunitario per lo sviluppo locale, attraverso un percorso di approfondimento, riconoscimento e cura dell’eredità simetina comune – naturale e culturale, materiale e immateriale – provando a generare nuove catene del valore.

La decisione di rileggere alcuni aspetti di quanto già fatto (come la mappatura di comunità) e di proseguire il percorso in chiave ecomuseale emerge durante l’Assemblea dei soci del Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto del 2019, anche a seguito dei lavori condotti in fase di co-progettazione della Strategia Nazionale Aree Interne, di cui la Valle del Simeto è Area Sperimentale di Rilevanza Nazionale (Pappalardo & Saija, 2020).
Il Gruppo Ecomuseo del Presidio Partecipativo inizia così a coinvolgere gradualmente diversi soggetti interessati a contribuire al percorso ecomuseale, avendo come riferimento anche quanto previsto dalla L.R. 16/14, Istituzione degli Ecomusei della Sicilia. In poco più di anno, si aggregano circa 100 persone appartenenti sia ad associazioni già socie del Presidio, sia singoli cittadini interessati a contribuire, tra cui numerosi esperti e appassionati di storia locale, archeologia, antropologia, ecologia, ecc.

L’intensa attività del Gruppo Ecomuseo si può distinguere in due fasi, segnate dalla sottomissione dell’istanza di riconoscimento alla Regione Siciliana ai sensi della L.R. 16/14. Durante la prima fase, il Gruppo Ecomuseo sviluppa una serie di riflessioni assieme a una classe di studenti [5] del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura dell’Università di Catania nell’ambito della partnership di lungo termine, come una delle azioni concrete del processo di mutuo-apprendimento tra ricercatori e comunità. Gli studenti, oltre a presentare una serie di esperienze ecomuseali di interesse, hanno sistematizzato i diversi dati emersi dalla prima mappatura di comunità sperimentale in poi, per individuare i beni di comunità: beni riconosciuti tali a prescindere dal loro regime proprietario, su cui è stato proposto un ragionamento in termini di condizioni d’uso e di effettiva possibilità di accesso.
Nonostante le restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19, le attività dell’Ecomuseo sono andate avanti, sperimentando anche modalità nuove di ingaggio e partecipazione. Prende forma una nuova mappatura di comunità, online, che amplia i confini dei paesaggi e dei luoghi di interesse che la comunità riconosce come parte di un’eredità comune.
Dopo mesi di brainstorming durante i tavoli di lavoro online e raccolta dati, è stata formulata una pianificazione delle attività tramite dei progetti pilota di comunità da avviare nella fase di rodaggio dell’Ecomuseo:

• Esiste un Fiume – Dedicato alla memoria di Luigi Carlo Puglisi
• Paesaggi inclusivi
• Il Museo va in Campagna
• Nuove catene del valore – Dedicato alla memoria di Andrea Distefano

La progettualità emersa nel contesto di ciascuno di questi progetti pilota e i valori condivisi sono stati formalmente definiti nel Manifesto dell’Ecomuseo, sottomesso tra gli allegati all’istanza di riconoscimento ai sensi della L.R. 16/14.
Durante la fase post-candidatura, le proposte di comunità sono state riorganizzate in azioni trasversali ai quattro progetti pilota. Tra queste, menzioniamo l’inventario partecipativo, inteso come forma di mappatura permanente dei corridoi ecologici e culturali, (figura 1) (gli itinerari che cuciono trasversalmente i progetti pilota), come censimento dei talenti, dei luoghi della cultura, ma anche inventario di storie dei soggetti più fragili e marginali, storie di donne e di fiumi, storie di tessuti e antichi mestieri, ecc.
Come si legge dal Manifesto, redatto collettivamente dai circa cento soggetti coinvolti e di concerto con le Amministrazioni Comunali: “il processo ecomuseale del Simeto – fondandosi su una leale collaborazione tra società civile organizzata e istituzioni pubbliche – intende promuovere e rendere attuabile il concetto di “bene comune”, riposizionando il patrimonio naturale e culturale in una prospettiva diversa da quella dell’appartenenza esclusiva. Il fine è quello di stimolare un senso di responsabilità condivisa, in opposizione alla mercificazione del patrimonio locale e degli ecosistemi, verso l’attivazione di nuove economie capaci di garantire la qualità della vita per tutte e tutti, nel rispetto della Biosfera”.

Passeggiata mappante del patrimonio culturale simetino, Ecomuseo del Simeto, Troina 2020. Archivio fotografico del Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto, 2020.

In tal senso, l’Ecomuseo del Simeto si inquadra nel dibattito ampio sui beni comuni, come presentato nella prima parte di questo scritto. Tuttavia, il percorso prosegue non senza insidie, come di seguito discusso nei prossimi paragrafi.


Agire nonostante le insidie

La Valle del Simeto bene comune – con la sua eredità naturale e culturale – è stata vilipesa nel tempo in diverse occasioni. Recentemente, nella torbida estate 2021, è stata tormentata da numerosi episodi incendiari che hanno avuto la meglio su anni di sudore e sacrifici da parte degli agricoltori, degli allevatori e degli abitanti di questa comunità. I roghi hanno distrutto migliaia di ettari di coltivazioni, pascoli, aree naturali, tra cui l’Oasi di Ponte Barca, in territorio di Paternò, lo stesso luogo in cui l’11 agosto è morto un giovane agricoltore nel tentativo di spegnere l’incendio divampato in quell’area [6]. Chi svolge servizio antincendio spesso non è messo nelle condizioni di poter agire tempestivamente, lasciando spesso ai criminali vita facile.
Buona parte degli itinerari – corridoi ecologici e culturali – progettati nell’ambito dell’Ecomuseo è andata quindi distrutta. Ma ciò non ha fermato i lavori del Gruppo Ecomuseo all’interno del Presidio tutto, che si è mobilitato per esprimere solidarietà a coloro i quali hanno visto distrutti il proprio lavoro e i propri sogni, attraverso diverse iniziative, tra cui due esposti alle Procure di Catania e di Enna, assemblee pubbliche con agricoltori e allevatori, reti sociali e comunitarie, un mutualismo a scala locale e regionale e diverse iniziative di supporto e riorganizzazione (figura 2).

Assemblea pubblica con agricoltori e allevatori della Valle a seguito degli incendi di luglio, Ecomuseo del Simeto, Oasi Ponte Barca 2021. Archivio fotografico del Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto, 2021.

È emersa una comunità di eredità che è anche comunità di azione: non solamente nel chiedere a gran voce interventi strutturali e ordinari, di prevenzione, sensibilizzazione; ma anche attivandosi direttamente con azioni concrete. In particolare, sono stati portati avanti i lavori intrapresi nell’ambito dei progetti pilota dell’Ecomuseo integrandoli con le questioni scaturite dall’emergenza incendi, utilizzando la mappatura civica quale strumento di conoscenza e consapevolezza che ha consentito di raccogliere informazioni dal basso in aggiunta a quelle istituzionali, legate anche alla sfera percettiva del fenomeno.

Ogni intervento ha provato a proporre sconfinamenti di sguardo, approccio, operatività, per guardare contemporaneamente e in modo integrato a diverse questioni, nella consapevolezza che la volontà politica e istituzionale è uno dei nodi chiave per accompagnare le reti comunitarie affinché le azioni dal basso continuino a svilupparsi e diventino una realtà consolidata.

Gli incendi hanno assunto, infatti, nella Valle del Simeto una dimensione ricorrente. Le estati, qui, spesso, significano anche disastro ambientale: seppur questa definizione si utilizzi prevalentemente per altri tipi di eventi, le particolari modalità di questi incendi non possono che individuarli come tali. Essi hanno una natura sociale più che naturale, derivano da condizioni di fragilità territoriale pregresse e in costante accrescimento (Benadusi, 2015) e creano condizioni di sofferenza e traumi spesso misconosciuti dalle istituzioni. Al pari di altri disastri ecologici, gli incendi creano quelle che per la psicologia dell’emergenza sono considerate vittime di primo livello [7], oltre a coinvolgere l’intera comunità quale vittima di quarto livello. Non potendo ignorare questi aspetti di crisi ambientale e volendo individuare soluzioni integrate, ci siamo dunque impegnati in una riflessione sui modi di vedere i disastri e su quelli di agire l’eredità natural-culturale, rivelando frizioni latenti entro la comunità che si scopre, a valle della crisi, più complessa e suscettibile a nuove semantizzazioni.
Gli abitanti della Valle, avvistando i fumi degli incendi hanno iniziato a costituire una “comunità oculare” (Alliegro, 2017), sempre più afflitta dai roghi, impegnata nelle segnalazioni e indignata di fronte alle cause; i diversi componenti di tale comunità hanno vissuto con angoscia crescente un fenomeno mai visto con tale intensità e continuità. Tuttavia, lo sguardo verso l’altrove ha sviluppato una tensione che ha finito per accrescere la consapevolezza dell’eredità natural-culturale estendendo la percezione ad aree prima marginali o relegate al mero dato produttivo. È accresciuta dunque la consapevolezza che la Valle, nelle sue molteplici componenti, possa essere considerata bene comune e come tale difesa e valorizzata.

Gli agricoltori e allevatori della Valle hanno invece vissuto da una diversa prospettiva il disastro ambientale, per loro non vi era solo fumo distante, ma fuoco prossimo. Gli incendi hanno su di loro un profondo impatto esistenziale, modificano e mortificano in modo incontrollabile il paesaggio, distruggendo le fonti produttive e l’immagine complessiva che emerge dalle loro opere di coltura (Lai, 2000). A venire mortificato, tuttavia, non è solo il paesaggio – frutto della relazione tra la comunità che lo abita e il proprio ambiente di vita – ma la possibilità di “agirlo”. Il disastro ambientale sostanziato nei paesaggi arsi costituisce per gli agricoltori un momento critico dell’esistenza, di fronte a ciò si produce un disconoscimento conflittuale del paesaggio stesso, una forma di spaesamento.
Nel Simeto, come in molti casi, è avvenuto inoltre un processo in cui si de-storicizza il disastro ambientale: l’incendio, da evento singolare e situabile nel tempo, diviene elemento plurale e ciclico, come tale assume caratteri stabili di prevedibilità e universalità. In tal modo si presenta come una crisi comunitaria, contro cui è possibile prepararsi, al posto di un trauma individuale che irrompe nell’esistenza quale “crisi della presenza” (De Martino, 1948).

Le crisi ambientali forniscono la possibilità di ripensare le forme del rapporto con il paesaggio e con l’eredità del passato, ridefinendo le prospettive nel presente. L’Ecomuseo del Simeto ha rivolto con maggior profondità lo sguardo sia nei luoghi della produzione agricola sia, più in generale, verso l’eredità natural-culturale diffusa nella Valle, anche laddove per abbandono o assenza dell’uomo si ritrovano segni del terzo paesaggio (Clément, 2005).

Un percorso di tutela proattiva del territorio non può che guardare a questi spazi abbandonati dalla produzione, che non possono più sostentarsi solo con essa. La tensione verso l’altrove, sperimentata in questi giorni da molti attivisti, non può che mediare con forme di appaesamento degli agricoltori e nuove forme di governance territoriale. Le frizioni emerse dalla crisi possono condurre a una comunità che gestisce e valorizza l’eredità natural-culturale comune con sinergie nuove.

 

Agire la governance condivisa – Conclusioni

Alla luce di quanto esperito, emerge come gli attuali sistemi di gestione istituzionale del territorio presentino delle falle o, quanto meno, degli elementi di inefficacia. In risposta, stiamo provando a sperimentare da anni un percorso di costruzione di una governance condivisa attraverso il Patto di Fiume e, in questa cornice, attraverso l’Ecomuseo del Simeto, come dispositivo per la valorizzazione e cura della Valle bene comune e dell’eredità natural-culturale stratificata in essa. Seppur ancora nella sua incompleta ed imperfetta realizzazione, il Patto e L’Ecomuseo hanno già segnato una traiettoria di cambiamento (figura 3).

Passeggiata mappante del patrimonio culturale simetino. Il ponte, simbolo della traiettoria di cambiamento, Ecomuseo del Simeto, Ponte Failla, Troina 2020. Archivio fotografico del Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto, 2020.

In primo luogo, si è innescato un processo in cui sempre più persone stanno assumendo la consapevolezza di essere parte di una comunità di eredità (e di azione) – nei termini della Convenzione di Faro – imparando a pensare e agire collettivamente, in modo organizzato, a leggere in modo critico e analitico se stessa, i propri bisogni, i propri limiti e le proprie risorse e provando a elaborare una visione chiara di cosa vuole e può diventare per migliorare le condizioni della propria qualità della vita. Questo è stato possibile anche grazie al lungo processo di apprendimento collettivo e di empowerment messo in campo dai ricercatori-in-azione dell’Università. Sarebbe utile adesso raggiungere lo stesso livello di consapevolezza sul piano istituzionale e la ricostruzione delle relazioni di fiducia e collaborazione su questo piano.

Un secondo elemento è dato dagli strumenti che possano far funzionare gli ingranaggi di questa nuova forma di governance: valorizzare le relazioni tra le parti, distribuire il sistema democratico di pesi e contrappesi dei meccanismi decisionali. È fondamentale stabilire sin dall’inizio che tali strumenti non possono essere assoluti e immutabili, poiché hanno bisogno di essere rodati, modellati, adattati alle circostanze, che possono variare nel tempo e nei diversi contesti territoriali. Altrimenti si rischia la trappola dell’esclusività e del privilegio, così come emerge dal dibattito critico sui beni comuni.

Un terzo elemento chiave è la dimensione territoriale vasta per fronteggiare le sfide di un mondo sempre più globalizzato. Quasi tutte le scommesse vinte da questo territorio, negli ultimi anni, derivano dal fatto che i suoi abitanti, o quanto meno una parte consistente di essi, ha smesso di pensarsi come l’abitante di un singolo Comune e ha iniziato a concepirsi quale abitante della Valle del Simeto.
In conclusione: lo scritto ha provato a restituire i tratti di una comunità di eredità/di azione in fieri che sempre più identifica i propri territori e paesaggi come beni comuni (Magnaghi, 2012; Settis, 2013) e che, nonostante disastri e traumi, continua a lavorare sulle forme organizzative (governance) atte a garantire una reale possibilità di accesso ai beni comuni quali beni funzionali all’esercizio dei diritti e alla salute della democrazia (Rodotà, 2012).

Note
[1] L’uso della traduzione di heritage come eredità anziché come patrimonio, in questo scritto, non è casuale. Sebbene infatti il testo italiano di ratifica della Convenzione di Faro del 2005 – avvenuta nel Paese dopo 15 anni mediante L. 133/2020 – utilizzi il termine patrimonio culturale, le autrici e gli autori del presente scritto concordano con la sollecitazione aperta dalla call di questo numero di Roots&Routes. In particolare, concordiamo nel considerare criticamente il nesso “semantico tra patrimonio e possesso/proprietà che arriva agli estremi con la cartolarizzazione dei beni immobili pubblici”, proponendo di esplorare la dimensione del comune, sul solco del dibattito sui commons (Hardin, 1968; Ostrom, 1990; Rodotà, 2012; ecc.) approfondito nei prossimi paragrafi.

[2] Sono state redatte circa 40 pubblicazioni scientifiche esito della partnership di ricerca-azione in corso.

[3] Per quanto ci sarebbe molto altro da dire, a complemento, sulla questione degli usi civici, che in questa sede, per brevità, non trattiamo. Si veda, per esempio: Grossi (2019).

[4] Adrano, Belpasso, Biancavilla, Centuripe, Motta Sant’Anastasia, Paternò, Ragalna, Santa Maria di Licodia, Troina, Regalbuto. Si è recentemente aggregato anche il Comune di Catenanuova.

[5] A essi dovevano affiancarsi studenti, i ricercatori e docenti dell’edizione 2020 della Scuola Estiva Community Planning and Ecological Design (CoPED Summer School), rinviata a causa del Covid-19.

[6] Si tratta del giovane Andrea Distefano, cui è stato recentemente dedicato uno dei progetti pilota dell’Ecomuseo, Nuove Catene del Valore. L’idea che l’Ecomuseo possa occuparsi della memoria di storie di vita i cui insegnamenti vanno tramandati alle generazioni future era già emersa in precedenza: il progetto pilota Esiste un Fiume, infatti, sin da subito è stato dedicato alla memoria di Luigi Carlo Puglisi, insegnante ed ecologista che negli anni ha agito concretamente per tutelare e valorizzare il territorio.

[7] Chi subisce in prima persona il disastro, con specifiche ripercussioni psicologiche e necessità di supporto. In questo caso, possono essere considerate vittime di primo livello gli agricoltori ed allevatori. Il secondo e il terzo livello afferiscono a ripercussioni indirette e al sistema dei soccorsi. Mentre la comunità coinvolta che esprime un alto grado di sensibilità nei confronti del disastro – in questo caso quella simetina – è considerabile vittima di quarto livello in quanto interessata collateralmente.

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Settis S., Il paesaggio come bene comune, La scuola di Pitagora Editrice, Napoli 2013

Vincenza Piera Bonanno, laureata in Ingegneria Gestionale presso l’Università degli Studi di Catania, è ricercatrice presso i Laboratori Nazionali del Sud dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (CT) dove si occupa di project management dei progetti di ricerca. Da anni è attivamente coinvolta nei processi di sviluppo sostenibile e tutela proattiva del territorio della Valle del Simeto e più recentemente componente del Consiglio Direttivo del Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto con ruolo di Tesoriere. Sin dall’assemblea del 2019 contribuisce alla definizione e allo sviluppo dell’Ecomuseo del Simeto.

Carmelo Caruso, dopo aver conseguito la laurea in ingegneria Edile-Architettura, ha conseguito un master di II livello in Management Pubblico dello Sviluppo Locale. Ha collaborato con il Laboratorio per la Progettazione Ecologica e Ambientale del Territorio dell’Università di Catania per le attività di mappatura di comunità e definizione degli strumenti di governance partecipata nella cornice del Patto per il Fiume Simeto. È fondatore e vicepresidente del Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto, membro del gruppo di coordinamento dell’Ecomuseo del Simeto, educatore scout ed ingegnere libero professionista.

Valentina Del Campo è attualmente docente di Storia dell’Arte. Dopo la Laurea triennale in Lettere Moderne, ha conseguito la Laurea Magistrale in Storia dell’Arte e Beni Culturali presso l’Università di Catania con una tesi in Museologia inerente la fruizione delle collezioni archeologiche del Museo Regionale di Adrano, comune nella Valle del Simeto, attraverso la mediazione museale. Da anni è attiva sul territorio nell’ambito dell’associazionismo; è membro del Consiglio Direttivo del Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto e sta contribuendo allo sviluppo delle attività dell’Ecomuseo del Simeto.

Medea Ferrigno ha 29 anni e vive a Regalbuto, un piccolo paese della Valle del Simeto. Dopo la laurea in Ingegneria edile-architettura nel 2017 ha conseguito un master di II livello in Management Pubblico dello sviluppo locale all’Università di Catania. Adesso, frequenta un master di I livello in Progettazione Partecipata presso lo IUAV di Venezia. Socia del Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto, si occupa di progettazione collaborativa per lo sviluppo locale e lavora come esperto della Commissione Europea per il progetto BiodiverCities. Da agosto 2020 ricopre anche la carica di assessore al Comune di Regalbuto.

Agata Lipari Galvagno, laureata nel gennaio 2019 cum laude in Ingegneria Edile-Architettura presso l’università degli studi di Catania, ha concluso il suo percorso di studi con una tesi volta a contribuire al processo di sviluppo locale per la comunità in cui vivo, nella cornice del Patto di Fiume Simeto. Durante gli anni di formazione universitaria ha deciso di prendere parte attiva alla vita civile e sociale del territorio della valle del Simeto contribuendo alla nascita del Presidio Partecipativo.

Marianna Nicolosi, laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Catania, dove è stata anche membro della clinica legale Coesione e Diritto. Attualmente è praticante avvocato e da sempre impegnata in azioni di innovazione sociale e sviluppo sostenibile del territorio della Valle del Simeto, attraverso il Presidio Partecipativo del patto di Fiume Simeto alla cui fondazione ha contribuito. In questo, contesto è parte del gruppo di Coordinamento dell’Ecomuseo del Simeto.

Domenico Pappalardo è uno studente di Scienze Filosofiche presso l’Università di Catania, ha conseguito la laurea in Filosofia con una tesi sul pensiero magico nel medioevo latino. Da diversi anni è attivista all’interno del Presidio Partecipativo ed altre associazioni del territorio. In tale cornice ha sviluppato interesse per l’antropologia e ha iniziato a studiare i processi sociali nella valle del Simeto; sta attualmente dedicando il suo lavoro di tesi specialistica all’Ecomuseo del Simeto.

Giusy Pappalardo è ricercatrice in Tecnica e Pianificazione Urbanistica presso l’Università di Catania e fa parte del Laboratorio per la Progettazione Ecologica e Ambientale del Territorio. Ha conseguito la Laurea in Ingegneria Edile-Architettura nel 2010 con una tesi sulla mappatura di comunità nella Valle del Simeto e il Dottorato di Ricerca in Pianificazione e Progetto per il Territorio e l’Ambiente nel 2014 dopo un periodo di ricerca negli Stati Uniti grazie a una Fulbright Fellowship. Partecipa da anni al processo di ricerca-azione simetino. Attualmente, svolge una ricerca nell’ambito del PON AIM e focus sull’Ecomuseo del Simeto, che assieme ad altri ha promosso e coordina.