§afrofuturismo
Per un approccio critico alla ruralità.
Una conversazione con Leandro Pisano sul Manifesto del Futurismo Rurale
a cura di Cecilia Guida
Manifesto del Futurismo Rurale, Melbourne, Australia, 2019

Cecilia Guida: Caro Leandro, quali sono le ragioni che hanno spinto te e Beatrice Ferrara a scrivere il Manifesto del Futurismo Rurale?

Leandro Pisano: Redatto nella forma finale da me insieme a Beatrice Ferrara, ma risultato di un processo collettivo di riflessione che ha coinvolto artisti, curatori, critici, studiosi internazionali ma anche le comunità che vivono e operano sui territori di riferimento, il Manifesto del Futurismo Rurale è un testo che rivendica per i territori marginali e rurali, che sono considerati invisibili o destinati a scomparire nei discorsi del modernismo e del capitalismo contemporaneo, la possibilità di trasformarsi in spazi e luoghi di azione e immaginazione di futuri possibili.
Si tratta di un documento che testimonia una lunga ricerca, durata circa quindici anni, in diversi territori del Sud Italia, dall’Irpinia al Sannio beneventano, da alcune aree della Puglia al Molise, dal Cilento alla Sicilia, attraversando geografie e territori in emersione dal contesto post-globale. Aree rurali, luoghi abbandonati, zone ai margini affiorano attraverso modalità di ascolto e pratiche artistiche che le rivelano come spazi “aumentati”, sia dal punto di vista sensoriale che delle risonanze del pensiero.
All’interno dei dibattiti politici ed ecologici contemporanei, la ruralità emerge come elemento in costante oscillazione fra “alterità” e “identità”: non un semplice spazio geografico, quindi, ma una sorta di “posizione”, anche di tipo politico. In questo scenario di tensione interpretativa, è possibile accostarsi al concetto di ruralità in senso critico, provando a immaginare altri futuri per le comunità, i territori e i luoghi, al di là della stringente dicotomia “alterità/identità” e di una serie di discorsi che tendono a considerare la ruralità stessa come una componente marginale del mondo contemporaneo. Il Manifesto del Futurismo Rurale è un tentativo in questa direzione: una prospettiva in cui i molteplici punti di vista e di ascolto forniti dall’arte, e in particolare dalle tecnoculture, mettono in discussione i termini manichei sui quali si costruiscono i discorsi attuali sulla ruralità, ovvero autenticità e utopia, anacronismo e provincialismo, tradizione e senso di stabilità, appartenenza ed estraniamento, sviluppo e arretratezza.

Miguel Carvalhais e Pedro Tudela a Barsento Mediascape 2013 (foto Giuliano Mozzillo)

CG: Perché avete scelto questo titolo che rimanda direttamente al movimento del Futurismo italiano?

LP: Il Manifesto è un testo che, più che riferirsi al Futurismo italiano di marinettiana memoria, con il quale condivide però un approccio irriverente e anche ironico, si riconnette direttamente – in senso concettuale e pratico – ai futurismi “minori” di ambito postcoloniale, come l’Afrofuturismo, in cui le tecnologie diventano strumenti di presa di coscienza e di resistenza per affermare una serie di contro-narrative in relazione a posizioni di subalternità, disuguaglianza e differenza.
In questo senso, il territorio rurale può essere riconfigurato come uno spazio critico, performativo e di narrazione condivisa, attraverso le pratiche estetiche offerte dal suono e dai linguaggi dei nuovi media, che diventa un luogo di interazione e sviluppo di azioni culturali che generano flussi dialogici con i molteplici elementi che gli danno forma. Attraverso le narrazioni dell’arte, è possibile rilevare tracce di percorsi che eccedono la visione di un territorio fermo nella propria marginalità, in tensione verso il recupero di una forza attiva che devia lo sguardo al di là di ogni visione strumentale e razionale. Nelle pieghe di questi spazi, è possibile avvertire l’eco di un tessuto culturale pulsante, che risuona di storie dimenticate, trascurate o rimosse. Storie altre, che riempiono di significati nuovi anche concetti come quello di “tradizione”, sottratto al ruolo di immobile simulacro e inserito invece nel dinamismo dei flussi di traduzione, trasformazione, transito che ritornano, come fiumi carsici, latenti ma indelebili, dall’inconscio. Il paesaggio rurale, in questa prospettiva, diventa potenzialmente la sovrapposizione di diversi paesaggi possibili: sonoro, visuale/visivo, corporeo, mediale, letti come «nuovi territori, nuovi spazi del territorio contemporaneo in costante contaminazione e ibridazione», come ha scritto Viviana Gravano (Gravano, 2012, p. 13). Allo stesso tempo, partendo dall’idea che una regione limitata geograficamente e più o meno “omogenea” dal punto di vista culturale possa offrire una serie infinita di possibilità estetiche, il territorio rurale può trasformarsi in uno spazio per sperimentare relazioni inattese tra artisti e comunità locali, con l’obiettivo di entrare in contatto e comunicare sul territorio, attraverso un approccio a partire dal quale i linguaggi estetici e le tecnologie stesse si tramutano in nuove forme di condivisione. Ritorna qui l’idea del territorio rurale come nuovo medium, sul quale abbiamo lavorato fin dalle prime edizioni del festival di arti e nuove tecnologie “Interferenze”, che può considerarsi il progetto da cui ha avuto origine la nostra ricerca in termini di pratiche e riflessione teorica intorno al concetto di ruralità e nuove tecnologie.

Liminaria 2016 (foto Andrea Cocca)

CG: Claudio Magris ricorda come «il noto e il familiare, continuamente scoperti e arricchiti, sono la premessa dell’incontro e dell’avventura […]. Il viaggio più affascinante è un ritorno, un’odissea, e i luoghi del percorso consueto, i microcosmi quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca.» (Magris, 2005) In che modo, secondo te, oggi possiamo considerare la ruralità una posizione politica a tutti gli effetti?

LP: Il termine “rurale” è di per sé controverso, dal momento che il suo inquadramento sfugge a ogni vincolo geografico univoco e che esso viene adoperato in contesti disparati per evocare, singolarmente o in maniera combinata, autenticità e utopia, anacronismo e provincialismo, tradizione e senso di stabilità, appartenenza ed estraniamento. Questa considerazione prelude all’impossibilità di definire una categorizzazione della ruralità, come ha notato anche Jennifer Davy, che scrive che il concetto di rurale «eredita una certa qualità di tensione che mantiene intatta l’immensità della propria ‘alterità’ e della propria ‘identicità’: [esso] è una posizione e non un luogo» (Davy, 2010, p. 21). È in questa tensione che è possibile trovare il fondamento di una ri-configurazione in senso dinamico della ruralità, che consenta il superamento di una visione statica e identitaria che la vincola a una serie di letture stereotipate e marginalizzanti, attraverso la teorizzazione di quella “ruralità critica” definita da Iain Chambers (Chambers, 2010).
Dalle produzioni agricole e dalle filiere del cibo fino ai processi di trasformazione della materia, dell’energia e dei modi di produzione, il mondo rurale è chiamato a essere parte attiva nell’ambito delle dinamiche economiche, sociali, culturali che avvengono su scala globale sovvertendo l’ordine tassonomico di una città vocata a dirigere lo sviluppo e di un mondo rurale marginale, residuale rispetto a questo esercizio di potere. Gli spazi rurali riempiono così il vuoto dei modelli urbani e dell’idea di “progresso”, attraverso una decostruzione della storia, della politica, della cultura come prodotto di una proiezione cosmopolitana. È una visione che evita qualsiasi rappresentazione nostalgica di una realtà persa per sempre o che si cerca di conservare, tentando invece di ricollocare la categoria del rurale nel milieu della modernità, come una sua componente rimossa o subalterna o a volte rifiutata. È l’apertura di uno spiraglio per ripensare la modernità alla luce della ruralità, riconsiderando il ruolo centrale delle aree rurali rispetto al pensiero dominante della cultura metro/cosmopolitana.

Sarah Waring a Liminaria 2018 (foto Speranza De Nicola)

CG: Un approccio critico alla ruralità, al di là dell’attenzione rivolta dalle tendenze del momento, implica necessariamente una riflessione sull’identità, sull’io, sui luoghi di appartenenza, sul proprio tempo, sul proprio mondo. Penso all’identità come a un’azione, a un movimento, a una ricerca continua dell’essere che richiede una pienezza di esperienze, che è disponibile al cambiamento quotidiano, allo scambio con gli altri e alla condivisione dei luoghi che si abitano. In questo senso qual è l’apporto della ruralità al termine “identità”?

LP: L’intuizione che oppone avanguardia rurale e modernismo è alimentata da un paradigma che fa del radicamento nella tradizione, di un rapporto “lineare” con il passato e di un approccio archeologico i suoi cardini. In questo modo, essa elude ogni possibile revisione in senso critico e dinamico del concetto di ruralità e, conseguentemente, delle idee di comunità e identità alle quali si richiama. È in questa tensione che è possibile trovare il fondamento di una ri-configurazione in senso dinamico della ruralità, che consenta il superamento di una visione statica e identitaria che la vincola a una serie di letture stereotipate e marginalizzanti. In questa luce, andrà riconsiderata anche la questione dell’identità: liberata da una lettura monodimensionale alla quale è spesso confinata, a mo’ di baluardo di bieche pulsioni territoriali, essa si innerva nel dinamismo di un movimento incessante determinato dagli incontri, dalle migrazioni, non solo dall’esterno verso il territorio rurale, ma anche da esso verso i luoghi metropolitani.
In questo senso, il concetto di identità riattiva un processo dinamico di ri-negoziazione del proprio senso del passato e dell’appartenenza rispetto a qualcosa che non è più solamente proprio, ma che si apre alle correnti degli incontri, degli interscambi, delle ibridazioni. Un fluire non solo di corpi, ma anche di culture e di idee, che partono dal livello locale fino ad estendersi – come dicevo in precedenza – alla dimensione planetaria.

Alyssa Moxley a Liminaria 2018 (foto Giuliano Mozzillo)

CG: Il Manifesto del Futurismo Rurale offre spunti di riflessione interessanti sulle narrazioni dell’abbandono, delle migrazioni, delle marginalità, e mi sembra che il desiderio insieme a una vera e propria urgenza della cura della ruralità siano gli aspetti sottotraccia del vostro documento e delle vostre azioni nei luoghi rurali. In che modo il suono e l’azione responsabile dell’ascolto diventano rispettivamente delle tecnologie e degli strumenti relazionali utili per conoscere, capire e provare a cambiare l’interpretazione dei territori rurali?

LP: Il suono permette un attraversamento di geografie e dei territori che emergono dal contesto post-globale: in questo senso, esso non è semplicemente un linguaggio o uno strumento, ma piuttosto un metodo e un dispositivo di indagine che invita a riconsiderare l’esperienza e la conoscenza dei luoghi secondo modalità differenti rispetto a quelle mediate dalle categorie del pensiero della modernità.
Quanto ai luoghi abbandonati del suono, ovvero quelli che rientrano nel cosiddetto “Terzo Paesaggio Sonoro” (Pisano, 2015), e agli spazi sonori della ruralità, essi vengono letti come ambienti di conflittualità e problematicità riverberata sul territorio e nello spazio sociale. L’ascolto, all’interno di essi, rende udibile tutto ciò che è invisibile, assente, intangibile, residuale in una sorta di geografia delle rovine: in questo senso, l’attraversamento sonoro palesa un’attenzione “ecologica” o “ecosofica” nel momento dell’incontro con il territorio.
Da un lato, l’arte e il suono permettono di ripensare ai flussi spazio-temporali in cui il territorio è collocato, di oltrepassare la fissità dei musei e delle gallerie, di riconfigurare gli assemblaggi degli elementi attraverso i quali si definisce fluidamente la condizione della ruralità contemporanea, mettendo in discussione i luoghi comuni di tutto ciò che è ereditato e il senso di appartenenza al territorio stesso. Attraverso il suono, riusciamo a cogliere la complessità e il dinamismo con cui il territorio si rivela secondo modalità e prospettive diverse. Ascoltarlo da vicino e in profondità, in immersione acustica, ci consente di “sentirne” le topologie, le dissonanze, le armonie, le risonanze che vibrano e si attivano nel momento stesso in cui questi processi si delineano, rivelando l’approccio “acustemologico” di conoscenza degli spazi e dei luoghi tramite l’ascolto (Kanngieser, 2014; Feld, 1996).
Dall’altro lato, il suono è una vibrazione che, percepita, si fa conoscenza attraverso la sua materialità, rivelandosi come un dispositivo critico che, grazie alle sue infinite risonanze di pensiero, dà forma alle geografie individuate, sondandole nella loro emersione e proponendole alla pratica dell’ascolto in tutta la complessità e la frammentarietà con cui esse si palesano.

Philip Samartzis, Perpetual Motion, “Wind Turbines 3.2”
È una traccia che si riferisce a delle registrazioni sul campo effettuate da Philip Samartzis nel corso dell’edizione 2017 di Liminaria, nel territorio del parco eolico di San Marco dei Cavoti, nell’area del monte San Marco (1007 m. slm), posto sull’Appennino Campano in posizione equidistante tra mar Tirreno e mar Adriatico. A un ascolto profondo, secondo un approccio di tipo ‘acustemologico’, questo paesaggio apparentemente silente rivela una stratificazione che evidenzia tra le sue pieghe le tracce di una serie di conflitti recenti. Il suono ripetitivo, ipnotico delle turbine eoliche disperse a macchia d’olio sul territorio dell’area del Fortore, le cui pale rotanti fendono l’aria come cadenzati colpi di smisurate spade, lascia affiorare una serie di tensioni politiche, culturali, economiche, che si materializzano attraverso le possibilità dell’ascolto di conoscere e abitare il mondo, di relazionarsi con la politica del linguaggio e con disparati ambienti, territori, geografie. Nella sua ineffabilità e nella sua materialità, il suono ci invita ad accostarci ad ambienti, spazi e paesaggi rivelandone i conflitti e le trasformazioni territoriali che investono gli ecosistemi ideologici, infrastrutturali e biologici dei quali siamo parte.

Field recordings di Jo Burzynksa a Torrecuso, Risonanze di Vino 2018 (foto Leandro Pisano)

CG: Il Manifesto del Futurismo Rurale è il risultato finale di un progetto di ricerca più ampio volto alla rigenerazione di alcune aree rurali del sud d’Italia dal titolo “Liminaria”, come siete riusciti a coinvolgere le comunità locali nelle vostre attività artistiche di ripensamento dei concetti di luogo, paesaggio e ruralità?

LP: “Liminaria” è un progetto di “narr-azione”, attraverso eventi culturali e performativi progettati e condotti in stretto contatto con le comunità locali e con gli artisti invitati in residenza, per raccontare il Fortore, microregione rurale posta al confine tra Sannio beneventano, Molise e Puglia e favorire la nascita di reti sostenibili dal punto di vista culturale, sociale ed economico. Al centro del progetto, ci sono una serie di dinamiche di interazione tra comunità e artisti sonori. Il punto di partenza è la possibilità di considerare il territorio rurale stesso come un laboratorio culturale in cui riassemblare, attraverso questa interazione, pratiche ed elementi culturali che sono già esistenti. Non più luogo nostalgico, il territorio rurale emerge, attraverso le pratiche dell’arte (sonora) e di un ascolto “profondo”, come uno spazio critico in cui mettere in questione il significato di termini come “comunità” o “identità” e individuare nuove modalità di traduzione anche rispetto alle tradizioni. L’incontro tra artisti e comunità, attraverso processi temporanei e imprevedibili di traduzione, lascia riaffiorare frammenti di un passato che si apre alle voci e alle risonanze del presente, alimentando un processo nel quale, a partire dalla rielaborazione dell’attuale, si può re-immaginare il territorio come un “paesaggio diverso”, al di fuori dei luoghi comuni di una ruralità ereditata e posta ai margini dai discorsi della modernità.
Ascoltare, in questo senso, prelude alla possibilità di “riguardare” il proprio territorio con occhi diversi, adoperando una metafora usata da Franco Cassano (Cassano, 1996). Credo che l’impatto di questo tipo di pratiche e riflessioni sia legato a una serie di questioni, che sono alla base dell’indagine su cui si costruisce tutta la nostra ricerca: è possibile che le pratiche artistiche sonore producano in qualche modo tensioni “agonistiche” rispetto alle forme egemoniche di soggettivazione, mettendo in discussione le dinamiche di dominazione? Possono aiutarci a rendere percepibili “altre” posizioni, nel momento in cui ci costringono a pensare e a sentire, a continuare ad apprendere? Se la risposta a queste domande è affermativa, allora possiamo, come scrive Owen Hatherley, “cercare di scavare l’utopia” (Hatherley, 2009, p. 17).

Manifesto of Rural Futurism, Istituto Italiano di Cultura di Melbourne, luglio 2019 (foto Daniela D’Arielli)

CG: Qualcosa bolle in pentola per il futuro, nuovi progetti che avvierete nei prossimi mesi?

LP: Dopo il primo ciclo quinquennale di “Liminaria”, intorno al quale avevamo costruito l’intero progetto, originariamente focalizzato in maniera specifica sul territorio del Fortore, siamo ora in una fase di ripensamento che riguarda la possibilità di proseguirlo e le eventuali modalità di trasformazione del progetto stesso. Stiamo riflettendo su una serie di azioni da pianificare per il 2020 in diversi territori, e su una riconfigurazione complessiva che possa preludere a una fase nuova nella nostra ricerca. Dopo la mostra che abbiamo curato insieme a Philip Samartzis e che si è recentemente chiusa all’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne, ci piacerebbe riproporre i lavori presentati in Australia anche in altri contesti, anche in area mediterranea. Allo stesso tempo, continueremo a lavorare alle connessioni che abbiamo sviluppato negli ultimi anni in America Latina, attraverso una mostra che racconterà la collaborazione con il festival “Encuentro Lumen” nella Patagonia cilena e un libro sull’arte sonora in Sud America al quale sto lavorando personalmente e che dovrebbe essere pubblicato in doppia edizione (in italiano e spagnolo) nella primavera del prossimo anno.
Milano-Napoli, ottobre 2019

Bibliografia
Cassano F.
, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996.
Chambers I., Irpinia blues: verso una ruralità critica, “Comunità provvisoria”, [blog entry], 29 giugno 2010, (ultimo accesso il 19 ottobre 2019).
Davy J., Rural Economy: How Much for that Donkey or is that a Cow?, “Art Lies”, vol. 65 Spring, 2010.
Feld S., Acoustemology, in Novak, D. & M. Sakakeeny (eds), Keywords in Sound, Duke University Press, Durham, NC 2015, pp. 12-21.
Ferrara B., Pisano L. (eds.), Liminaria 2015-2016: Unmapping Time / Rural Futurism, Interferenze edizioni, San Martino Valle Caudina 2017.
Gravano V., Paesaggi attivi. Saggio contro la contemplazione, Mimesis, Milano-Udine 2012.
Hatherley O., Militant Modernism, Zero Books, Winchester 2009.
Kanngieser A., A Proposition Toward a Politics of Listening (Geographies and Atmospheres), in Castro, R. & M. Carvalhais (eds.), Invisible Places | Sounding Cities. Sound, Urbanism and Sense of Place, Proceedings of the 2014 Invisible Places | Sounding Cities Symposium, Jardins Efémeros, Viseu 2014, pp. 462-467.
Pisano L., The Third Soundscape, “Third Text”, vol 29, n. 1-2, 2015, pp. 75-87.
Pisano L., Nuove geografie del suono. Spazi e territori nell’epoca postdigitale, Meltemi, Milano 2017.

Cecilia Guida (1978) è curatrice, docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti “Brera” a Milano. PhD in Comunicazione e Nuove Tecnologie dell’Arte, si occupa delle relazioni tra pratiche artistiche partecipative, pedagogie radicali e spazio pubblico contemporaneo. Attualmente è responsabile del public program di “ArtLine Milano”, progetto di arte pubblica del Comune di Milano nel nuovo quartiere di CityLife. È autrice di vari saggi, tra cui Spatial Practices. Funzione pubblica e politica dell’arte nella società delle reti (Franco Angeli, 2012), e curatrice della versione italiana di Inferni Artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa di Claire Bishop (lucasossella editore, 2015).

Leandro Pisano (1973) è curatore, critico e ricercatore indipendente, che si occupa delle intersezioni tra arte, suono e tecnoculture. PhD in Studi Culturali e Postcoloniali del Mondo Anglofono, ha fondato il Festival internazionale di new arts “Interferenze” e lavora a progetti che riguardano la sound art e le arti elettroniche, come “Liminaria”. Ha curato mostre di arte sonora in Italia, Cile e Australia. Collabora attualmente con l’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino.