§Cura: care - cure - curate
Per una politica dell’interdipendenza espositiva: la mostra arcHIV A Search for Traces presso lo Schwules Museum (Berlino)
di Matteo Patelli

Lo Schwules Museum (SMU) – tradotto in italiano come il “museo degli omosessuali (maschi)” – inaugura nel 1985 a Berlino, in piena crisi dell’HIV. L’istituzione si compone di uno spazio espositivo, di una libreria e di un archivio, la cui raccolta di oggetti e artefatti relativi all’HIV/AIDS è la più estesa a livello nazionale. 

Nel 2021 è stata allestita la mostra arcHIV A Search for Traces, che, come si legge da un saggio di uno dei curatori, tenta di scavare nella diversità delle collezioni del museo, chiedendosi quali storie si possano raccontare a partire dai materiali esistenti e quali “tracce” di gruppi, temi, narrazioni ed esperienze si possano trovare in essi (Schulze 2023). La mostra presenta prima una meta sezione, che riflette sulla categorizzazione dell’archivio, su come il museo esponeva l’HIV/AIDS in passato e sull’archiviazione come pratica. Sei sezioni aggiuntive sono state raggruppate attorno a temi specifici emersi durante la ricerca curatoriale. Una sezione è incentrata sul “dolore” e sul modo in cui il dolore e il lutto sono visibili nell’archivio. La sezione successiva si è concentrata sull'”attivismo” dell’AIDS e su come è visibile nell’archivio. Una terza sezione si è concentrata sulla “legge” e il suo collegamento con l’HIV/AIDS. Le due sezioni successive erano intitolate “volti” e “corpi”; mentre la prima si concentrava su chi è diventato il volto dell’HIV/AIDS in Germania, la seconda sezione si è concentrata sul ruolo che il corpo svolge nell’HIV/AIDS, ad esempio, come marcatore di malattia e strumento di piacere, così come l’intersezione della disabilità e dell’HIV/AIDS. Una sezione finale si è concentrata sulla “speranza” e le sue ambiguità.

"Image: Exhibition View "arcHIV. eine Spurensuche", Ygor Bahia/ Schwules Museum"

I materiali esposti sono tra i più disparati, e seguendo la divisione tra le sezioni – non sempre chiara e netta –, si potrebbe tentare un elenco imparziale: ritagli di giornali dell’epoca (spesso legati alla cronaca delle morti); farmaci antiretrovirali; spille di gruppi attivisti (tra le diverse, spicca anche quella con l’iconico logo di ACT-UP); détournements di fumetti usati nella sensibilizzazione (Superman diventa “Condoman”); opere di artisti coinvolti direttamente nel trauma (le appropriazioni del collettivo General Idea, il lavoro allegorico di David Wojnarowicz, un manifesto realizzato da Keith Haring); artisti contemporanei che riesplorano il tema (Karol Radziszewski, AIDS series, 2012-); la moda come strumento di attivismo (fra i vari manichini abbigliati, colpisce un vestito formato da preservativi ancora sigillati); i video dell’epoca (sia filmati amatoriali che produzioni nazionali), testimonianze attuali.

Tale diversità di documenti esposti sembra mimare quell’epidemia di significati – metaforici, ideologici e politici – di cui l’AIDS è stata investita durante gli anni più bui (Treichler 1987). Questa natura discorsiva frammentata, denunciata proprio per la sua costruzione sociale che alimenta disinformazione e stigma, è in realtà performata [1] tatticamente nella mostra del museo berlinese: se negli anni Ottanta e Novanta le mostre sul tema si focalizzavano esclusivamente sul corpo del malato (Crimp 2002: 58.), lo SMU evita la spettacolarizzazione di un corpo rappresentato solo in extremis (Watney 1987: 71-86). Con le varie sezioni la mostra non alimenta la mitizzazione del soggetto-vittima, quanto mai attuale nell’infosfera contemporanea (Giglioli 2014), ma propone una riconsiderazione della collezione. Infatti, sebbene quest’ultima sia composta, per la maggior parte, da documenti donati da omosessuali tedeschi, i curatori hanno sottolineato la volontà di esporre tracce più eccentriche, tentando di non rappresentare il fenomeno HIV/AIDS solo attraverso questo filtro (Schulze 2023). L’accostamento aggregativo di documenti non nazionali e non esclusivamente occidentali (la presenza già citata di ACT-UP, Wojnarowicz, Haring, e “Condoman”, eroe disegnato dalle comunità aborigene australiane) crea un discorso visuale che promuove il riconoscimento delle diversità culturali delle tante esperienze, o microstorie [2], all’interno della macro-cornice HIV/AIDS – pur non istituendo una precisa gerarchia tra esse. Basata quindi non su specifiche selezioni (in termini geografici, di genere o di orientamento sessuale), si potrebbe circoscrivere la natura aggregativa di tali documenti prendendo in prestito il concetto politico di moltitudine: «[l]a moltitudine è intrinsecamente differente, un soggetto sociale molteplice, la cui costituzione e le cui azioni non sono deducibili da alcuna unità o identità (più o meno indifferente), ma da quello che i soggetti che la compongono hanno in comune» (Hardt e Negri 2004: 123-124).

"Image: Exhibition View "arcHIV. eine Spurensuche", Ygor Bahia/ Schwules Museum"

Un aspetto che infatti i documenti esposti hanno in comune, come anche ribadito dal titolo, è la loro natura di traccia. Mentre la storia è intesa come una successione di eventi a grande scala fissati in narrazioni univoche, la memoria – che di tracce si nutre (Violi 2016) – è dinamica, sostenuta da gruppi vivi, aperta alla dialettica del ricordo e dell’oblio (Nora 1992). Per essere più precisi, vedendo l’eterogeneità delle tracce esposte nella mostra, si dovrebbe accennare tuttavia anche alla natura plurale della memoria: non esistono memorie sempre uniformemente condivise e collettive, a essere collettiva è la dimensione in cui tali memorie vivono (Lorusso 2020). È bene inoltre sottolineare come il ricordo per la posterità – ovvero la dimensione collettiva in cui le memorie vivono – sia spesso un progetto costruito, strategico, necessariamente mediato. Impiegata dal marxismo per orientare le lotte emancipatrici del passato verso il futuro (Traverso 2016), o continuamente editata in riferimento all’Olocausto (Lorusso 2020), il progetto della memoria inciampa sotto politiche e revisioni continue. 

Più che la mediazione, è l’aspetto strategico della memoria – l’agentività – che è rilevante approfondire qui, soprattutto in relazione al contenuto della mostra. Durante lo smantellamento del welfare state e l’emergere della soggettività autonoma neoliberale, si assiste alla mancanza di riconoscimento istituzionale della crisi sanitaria (e sociale) dell’AIDS. Nel momento massimo di stigma sociale, le politiche di sostegno per le soggettività coinvolte vengono attuate tramite iniziative dal basso che confluivano in gruppi e collettivi che domandavano più assistenza. Se la cura è intesa come una politica dell’interdipendenza (The Care Collective 2020), questo aspetto nella mostra si evince nei documenti esposti, nelle singole tracce che attestano, e ricordano, queste chiamate alla collaborazione tra le soggettività coinvolte. 

È questo, credo, l’uso strategico della memoria nella mostra: laddove la sieropositività è stata spesso vissuta come condizione di isolamento sociale ed esistenziale (Cherry & Smith 1993: 181-208) la mostra rifiuta questa narrazione nel momento in cui espone la collezione del museo, ricordando invece, allora e adesso, l’agire in comune delle varie soggettività della moltitudine: «[i]nvece di un corpo politico, con uno solo che comanda e gli altri che obbediscono, la moltitudine è carne vivente che si autogoverna» (Hardt & Negri 2004: 123-124, corsivo mio). Le tracce esposte, quindi, non tentano di resuscitare un passato in chiave melanconica (Foster 2004). Esse, al contrario, rivelando l’assoluta vitalità – informe, collettiva, porosa – delle storie e delle iniziative nate allora come reazione al fenomeno HIV/AIDS, e ci propongono implicitamente un modello da seguire come reazione alle contemporanee condizioni di crisi (The Care Collective 2020). Risiede qui il potere, l’uso strategico, della memoria: «[m]emory projects itself toward the future, and it constitutes the presence» (Derrida 1989: 57).

"Image: Exhibition View "arcHIV. eine Spurensuche", Ygor Bahia/ Schwules Museum"

L’allestimento della mostra, aspetto non approfondito nel testo del curatore (Schulze 2023) alimenta e performa queste politiche di cura. La selezione degli oggetti in arcHIV A Search for Traces è presentata in maniera irregolare, alternando pareti più ariose a porzioni di spazio fitte, quasi gravi, di documenti. Talvolta i documenti, gli oggetti, e le opere sono incorniciati, altre semplicemente appesi o esposti su plinti. I file multimediali sono riprodotti su schermi e tablet, o proiettati. In questa esposizione di innumerevoli cose, quasi un disordinato accumulo visivo, si ha l’impressione di trovarci davanti a un bric-a-braque allestitivo. 

A differenza del rigore del display modernista, è chiaro che questo non è un allestimento che vuole produrre l’autonomia estetica – esclusivamente, in quel caso, dell’opera d’arte pittorica. Se il display modernista doveva lasciare “the pictures stand on their own feet” (Staniszewskip 1998: 62), l’allestimento della mostra al SMU è un sistema di interfaccia dove, al contrario, ogni documento èper sé in quanto è per altro” – per ribadire l’aspetto di interdipendenza della cura usando la descrizione che Mario Perniola diede del “poroso” (Perniola 1994: 93). A un primo sguardo onnicomprensivo è arduo, infatti, isolare un documento dall’altro: Condoman è affiancato al manifesto di una marcia a Francoforte e al progetto Fight the fear with the facts, (un servizio di assistenza telefonica nato dall’AIDS Project Los Angeles, 1986). Nella sua forma, questo allestimento sembra evocare su larga scala la tipologia fototestuale dell’atlante: olistico e costruito per montaggi e aggregazioni, l’atlante, prevendendo più testi e immagini, è «significazione diffusa (più istanze autoriali o anonimia) in cui senz’altro prevale il ruolo della ricezione, chiamata a organizzare autonomamente il senso, attraverso letture sempre più complesse e comunque multidirezionali» (Cometa 2016: 94). 

Il merito di questa mostra non è quindi solo quello di aver allargato il discorso ben oltre la presenza dell’omosessuale maschio e tedesco – come dimostra anche l’attuale direzione curatoriale del SMU (Bosold e Hofmann 2022: 206-219). Se il recente turn verso le identity politics è stato inteso anche come processo di normalizzazione (Duggan 2002) e di self-branding (Winnubst 2015), arcHIV. A Search for Traces non promuove nuove mitologie del genio artistico da inserire in percorsi già tracciati. L’aspetto più radicale della mostra non sono i singoli contenuti, (sebbene comunque ci si possa abbandonare a una gradevole scoperta di ognuno di questi documenti), bensì i loro sistemi di relazioni, resi espliciti nella selezione e nell’allestimento. Abbandonate le classiche dialettiche tra opera/oggetto e cultura alta/cultura bassa – così come i rigidi display che performano tali ideologie – ciò di cui si fa esperienza è l’esplorazione, a tratti caotica ma non indistinta, della moltitudine di queste memorie, delle loro connessioni e delle loro politiche di riconoscimento. Anziché riservare quindici minuti di celebrità alla singola, nuova, soggettività, perché non esporre (anche) le sue interdipendenze?

"Image: Exhibition View "arcHIV. eine Spurensuche", Ygor Bahia/ Schwules Museum"

Note

[1] Per approfondire il concetto di performatività (derivante dalla teoria dell’atto performativo di J. L. Austin, e poi ripresa da Judith Butler per spiegare la costruzione del genere) in riferimento agli exhibtion studies si veda Liang-Kai 2018: 12-15.
[2] Ponendo l’enfasi su fatti minori e individuali e studiando gruppi oppressi e/o minoritari all’interno delle civiltà più avanzate, la categoria teorica e metodologica della “microstoria” si presta bene a descrivere le esperienze delle soggettività coinvolte nell’HIV/AIDS. Per un’introduzione alla microstoria si veda Raggio 2013. 

Bibliografia

Bosold B, Hofmann V., The “Year of the Women*” at the Schwules Museum Berlin: Activism, Museum, and LGBTQIA+ Memory—Notes on Queer-Feminist Curating in AA. VV., Radicalizing Care Feminist and Queer Activism in Curating, Sternberg Press, Berlino, 2022.
Cherry K. & Smith D. H., Sometimes I Cry: The Experience of Loneliness for Men with AIDS, in «Health Communication», 5:3, 1993.
Crimp D., Portraits of People with AIDS, in Melancholia and Moralism: Essays on AIDS and Queer Politics, MIT Press, 2002.
Derrida J., Memoires: For Paul de Man, Columbia University Press, New York, 1989.
Duggan L., The New Homonormativity: The Sexual Politics of Neoliberalism, in Castronovo R., Nelson D. D., (edited by) Materializing Democracy: Toward a Revitalized Cultural Politics, Duke University Press 2002
Foster H., An Archival Impulse, in «October» 110, Autunno 2004, pp. 3–22.
Giglioli D., Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Nottetempo, Roma, 2014.
Hardt M. e Negri A., Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Roma, 2004.
Liang-Kai Y., Performing Diverse Sexualities: Queer Curating or Curatorial Strategies of the Schwules Museum, tesi di laurea, Universiteit Leiden, 2018.
Lorusso A. M., Thinking about the Future: Memory and Posterity, in «Versus, Quaderni di studi semiotici» 2/2020, pp. 313-330.
Nora P. (a cura di), Les lieux de mémoire, 3 vol, Gallimard, Parigi, 1984-1992.
Perniola M., Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1994.
Raggio O., Microstoria e microstorie, in “Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Storia e Politica” (2013), consultato in “Trecani.it” (ultimo accesso 27 aprile 2023).
Schulze, H., HIV/AIDS in the context of a queer institution: The Schwules Museum, Berlin, in «Memory Studies», 16(1), 2023, pp. 146-153.
Staniszewskip M. A., The Power of Display: A History of Exhibition Installations at the Museum of Modern Art, MIT Press, Cambridge, 1998.
The Care Collective, The Care Manifesto: The Politics of Interdependence, Verso, Londra, 2020.
Violi P., Luoghi della memoria: dalla traccia al senso / Places of memory: from traces to meaning” in «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 2016, pp. 262-275.
Watney S., The Spectacle of AIDS in «October» 43, Inverno 1987.
Winnubst S., Way Too Cool: Selling Out Race and Ethics, Columbia University Press, New York, 2015

Matteo Patelli è laureando in Arts, Museology and Curatorship, laurea magistrale in Storia dell’Arte dell’Università di Bologna. Nel 2020 ha ottenuto un diploma di primo livello presso l’Accademia di Belle Arti G. Carrara (Bergamo). Nel 2021 ha preso parte all’IMMA International Summer School Art & Politics #3, organizzata dall’Irish Museum of Modern Art. Ha svolto periodi di stage presso Futurdome (Milano), Baco Arte Contemporanea (Bergamo), Philipp Vandenberg Foundation (Bruxelles). Recentemente è stato selezionato come Young Observer per Horizon Europe (programma di ricerca e innovazione dell’Unione Europea) assistendo alla valutazione di progetti nell’ambito dell’eredità e del patrimonio culturale.