i non-detti del museo
Un’infelice sineddoche.
Pensieri intorno a un possibile museo della storia del Fascismo a Predappio
di Mario Panico

Se si viene da Forlì, per arrivare a Predappio bisogna prendere la linea dell’autobus 96A dalla Stazione Centrale. Dopo la periferia forlivese, il mezzo inizia ad attraversare una serie di piccoli paesini, frazioni di poche case: San Lorenzo, Fiumana, Santagostino, Trivella… e il paesaggio si fa via via sempre più rurale e agreste. L’autobus sfila su strade alberate e curve, che giustificano il paesaggio collinare. A qualche chilometro da Predappio, la prima opposizione che non si può far a meno di notare è tra i cartelli turistici, quelli marroni che indicano i siti di interesse, che decantano il luogo come “la città del Sangiovese” e altri cartelli imbrattati di catrame (scoprirò poi essere un’azione messa in atto da gruppi antifascisti) dai quali a fatica si intravede un tricolore e si legge la scritta “Villa Mussolini”, a lettere cubitali e nere. Si tratta delle insegne che pubblicizzano Villa Carpena, ex residenza di Benito Mussolini che oggi ospita il museo privato “Casa Ricordi” e un centro di documentazione fascista sul fascismo, intitolato a Romano Mussolini.
Intanto il bus continua le sue curve. Mancano ormai poche fermate. A sinistra, dal finestrino, le colline si mostrano sempre più chiaramente e su una vecchia casa (forse) abbandonata, una scritta recita “Predappio città antifascista”, aprendo viale Giacomo Matteotti.
Sono arrivato a Predappio. Dopo circa 45 minuti di viaggio.
Se si scende alla prima fermata del paese si ha davanti l’intero viale principale e come punto di fuga prospettico la chiesa di Sant’Antonio da Padova, voluta da Benito Mussolini nel 1931, che sulla sua facciata di marmo bianco presenta ancora oggi un fascio littorio. Mantenendo la chiesa davanti a sé e attraversando il viale, ci si imbatte, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, in tre negozi di souvenir fascisti. Le loro vetrine sono colme di oggetti e gadget con il volto di Mussolini, con frasi a lui attribuite. Un’esplosione kitsch di fasci littori su occhiali da sole, magliette, bavaglini per bambini con su scritto “Educhiamoli da piccoli”, santini e calendari con la faccia dell’ex-duce. Sempre dritto, oltre l’ultimo e più famoso negozio “Predappio Souvenir”, a destra, tra le vie della città l’occhio cade sul cinema di Predappio, con l’ingresso squadrato, tipico stile razionalista. Ancora dritto, si finisce poi in una grande piazza, punteggiata su tutti i lati da palazzi con un forte valore simbolico: la chiesa, palazzo Varano (sede del Comune), la caserma dei carabinieri e la maestosa ex Casa del Fascio e dell’Ospitalità.

Foto 1. Negozio di souvenir a Predappio (luglio 2017) – foto dell’autore

Lasciandosi alle spalle la piazza, poi, proseguendo per circa due chilometri a piedi si arriva a un altro luogo importante nella biografia spaziale di questo comune romagnolo: il cimitero di San Cassiano, cimitero cittadino diventato tristemente noto perché ospita la cripta della famiglia Mussolini, in cui sono sepolti l’ex dittatore, i suoi genitori e altri componenti della sua famiglia. Tre volte l’anno, in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, della nascita e della morte di Benito Mussolini, questo spazio ospita pratiche neofasciste messe in atto da pellegrini arrivati da tutta Italia e – a volte – Europa, per celebrare la memoria del dittatore che in questo piccolo paese della provincia è nato e cresciuto, come socialista e giornalista, prima di diventare dittatore d’Italia.

Foto 2. Pellegrini nostalgici a Predappio (luglio 2017) – foto dell’autore

Sono a Predappio per la mia ricerca di dottorato: spazi della nostalgia e pratiche di rimpianto del passato. Il comune romagnolo è uno dei casi studio. Negli anni di ricerca ho avuto modo di studiare le pratiche che tre volte l’anno animano la piccola cittadina romagnola che – è giusto precisarlo – rifiuta e rifugge l’immagine di Betlemme Nera che le è stata affibbiata nel corso degli anni.
In questo contributo, metterò in fila le mie perplessità sulla scelta di questa città come luogo deputato a ospitare il primo museo italiano della storia del fascismo.
Prima di riprendere la passeggiata, però, è necessaria una breve digressione sul contesto polifonico in cui si inserirebbe questo museo.

Predappio, spazio difficile
Ho titolato questa parte del mio contributo “Predappio, spazio difficile”, giocando su un doppio binario teorico. Il primo, di natura semiotica, insiste sul fatto che studiare uno spazio urbano significa rendere più complesse le scelte di analisi, allargare lo sguardo ai satelliti e non solo al pianeta, interessandosi cioè non solo al testo spaziale in sé, ma considerare le enunciazioni urbane che lo animano, le soggettività, i discorsi prodotti su e intorno ad esso, oltre che le pratiche, in un continuo rimando tra cose e persone. Per questo Predappio è una difficile matrioska testuale.
Non lo dico certo per deresponsabilizzare possibili errori di interpretazione ma per sottolineare come il significato di Predappio sia frutto sincretico di una sommatoria tra più termini complessi. Per arrivare al suo significato, se mai ci si arriva, bisogna procedere per livelli di comprensione che si rifanno uno all’altro, in quanto incastrati uno nell’altro. Questa sommatoria è rappresentata da (I) la cripta della famiglia Mussolini, in cui è sepolto l’ex-duce; (II) la casa natale; (III) i negozi di souvenir che vendono cimeli “autentici” e fascisti; (IV) Villa Carpera, detta anche Villa Ricordi, ex-residenza del duce e ora museo privato, (V) l’ex-Casa del Fascio e dell’Ospitalità, come già accennato, al centro del dibattito per la realizzazione nei suoi spazi di quello che di quello che i giornali internazionali hanno definito il primo “Museo del Fascismo” italiano e di cui ci occuperemo nelle prossime righe.

Foto 3. Insegna stradale all’entrata sud di Predappio (luglio 2017) – foto dell’autore

Non solo rimandi semiotici, però. L’aggettivo “difficile” va letto anche una sotto un’altra luce bibliografica. In particolare, mi riferisco a un testo del 2006, Difficult Heritage di Sharon Macdonald che, studiando il patrimonio nazista nella città di Norimberga – città fortemente legata ai crimini nazisti oltre che sede del processo che, a secondo conflitto mondiale ormai terminato, ha incriminato i gerarchi di Hitler – definisce il patrimonio difficile, il difficult heritage appunto, come un patrimonio che è degno di essere ricordato, restaurato, preservato, ma che allo stesso tempo genera nella cultura in cui è inserito una serie di frizioni, paure, spaccature memoriali e conflitti diplomatici.
A questa prima discussione, Sharon Macdonald fa seguire un secondo punto, più legato alla costruzione delle identità collettive attraverso il patrimonio ereditato. Il punto interessante sta nel considerare la costruzione identitaria in uno spazio culturale post-bellico o post-traumatico. La letteratura sociologica, antropologica e geografica sui monumenti e sui memoriali ci ha abituato a considerarli come media of power, che veicolano particolari messaggi e costruiscono identità, dettando l’agenda sulle gerarchie valoriali e su ciò che può essere rappresentato e cosa no.
L’idea innovativa di Macdonald sta nel problematizzare non tanto la “costruzione” quanto la “conservazione”. Sposta cioè l’asticella temporale focalizzandosi su ciò che rimane.

I tre aspetti problematici
A proposito di ciò che rimane e di patrimonio difficile, torno un attimo indietro alla mia passeggiata. In particolare, davanti all’ex-Casa del Fascio, posta all’ultimo angolo di viale Matteotti prima che diventi piazza Sant’Antonio. Questo edificio, progettato dall’architetto Arnaldo Fuzzi e inaugurato nel 1937, oggi è al centro di un dibattito internazionale per la possibile costruzione – dopo il suo restauro – di un centro di documentazione e museo sulla storia dei fascismi e delle dittature.

Foto 4. Ex Casa del Fascio di Predappio (luglio 2017) – foto dell’autore

In particolare, l’idea è di allestire un centro in cui ricercatori e ricercatrici potranno svolgere attività di indagine storica e culturale sul Novecento, sulle guerre mondiali e sulle dittature che hanno segnato la storia mondiale. Leggendo i documenti del progetto preliminare (si possono scaricare qui) salta subito all’occhio il carattere multimediale e interattivo del museo. L’idea, davvero ben strutturata, mette al centro l’uso delle nuove tecnologie come strumento di educazione e comunicazione della storia. Il palazzo dovrebbe ospitare inoltre un archivio, una biblioteca, un’emeroteca, una videoteca e una fototeca, uno spazio per attività di formazione e comunicazione della storia, esposizioni temporanee e permanenti, un punto di ristorazione, un bookshop e un centro di informazione turistica.
Il racconto storico, stando sempre secondo i documenti proposti dal gruppo di storici e storiche che hanno contribuito alla progettazione, sarà dettagliato. Ci saranno sezioni dedicate all’interventismo e al nazionalismo, alla guerra di trincea e a Caporetto, fino alla nascita dei Fasci di combattimento nella Milano del 1919. E ancora, saranno raccontate la marcia su Roma, la nascita del partito fascista, il delitto Matteotti, le leggi fascistissime e la Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932, le campagne coloniali in Africa, la seconda guerra mondiale, la cultura fascista, l’architettura, il cinema, la propaganda.
In sostanza, non c’è motivo di dubitare che, dopo il restauro dell’edificio, l’ex-Casa del Fascio di Predappio potrebbe essere davvero uno dei primi nuovi musei [1] della memoria presenti sul territorio italiano.

Tutto convincente, se non fosse per la collocazione geografica scelta: Predappio.
Mi chiedo, a questo punto della mia riflessione: se è vero quello che dicono i semiologi e le semiologhe che lo spazio significa sempre altro da se stesso, dicendo qualcosa in più sulle culture che lo architettano, cosa significa allestire un museo del fascismo a Predappio? Serve davvero ad allontanare nostalgie e rimpianti del passato?
Sono molto d’accordo con chi, nel dibattito sul perché sì, perché no [2], ha dichiarato che un museo non si apre solo per contrastare azioni di nostalgici, pensando che un’azione come questa ­– per quanto davvero interessante e innovativa per il contesto italiano – possa intimidire gruppi di neofascisti, possa evitare la vendita di magliette con su scritto “Boia chi molla”.
Pensare che il museo possa essere un antidoto al turismo nostalgico sembra un’idea frettolosa che pecca di ottimismo. Sarebbe come pensare – come mi ha scritto una volta un mio collega dottorando Edoardo Maria Bianchi, durante uno scambio di mail informale sul progetto del museo – che per sconfiggere la mafia ce la si prenda con coppole e lupare. O ancora come ha scritto Carlo Ginzburg nel 2016: «Si è detto che il sindaco di Predappio – che non conosco, e che sarà animato dalle migliori intenzioni – vorrebbe contrastare con un museo i pellegrinaggi dei nostalgici, la vendita dei souvenir fascisti e via dicendo. L’argomento appare ingenuo, e stupisce che tanti (compresi studiosi di prim’ordine) l’abbiano fatto proprio. Un museo situato a Predappio identificherebbe il fascismo con l’individuo Mussolini, forzando fino alla caricatura il senso dell’impresa storiografica, discutibilissima, di Renzo de Felice».
“Narrare il Fascismo è una necessità”, si legge nella relazione dell’esposizione redatta dal comitato organizzativo. Niente di più vero. Specie in un paese come il nostro in cui – ­ per citare solo l’ultimo degli eventi in ordine cronologico ­– alla vigilia del 25 aprile 2019 un gruppo di tifosi della squadra di calcio della Lazio, in trasferta a Milano per seguire la partita della loro squadra, ha deciso di esibire in piazzale Loreto un manifesto con su scritto “Onore a Benito Mussolini”.
Raccontare il fascismo diventa, quindi, un bisogno culturale utile a superare stereotipi della memoria e amnesie che liquidano qualsiasi interpretazione della storia fascista italiana come se fosse stato solo un incidente, un evento drammatico capitato per caso e non previsto (Favero 2010). Non va sottovalutato, però, quanto fondamentali siano i contesti all’interno del quale si propone una determinata forma di racconto.

A tal proposito, ritengo problematica la scelta di Predappio per almeno tre motivi. Il primo riguarda la connessione automatica e automatizzata che si verrebbe a creare tra la figura del dittatore Benito Mussolini, il racconto e l’interpretazione del fascismo, assecondando e alimentando pericolose generalizzazioni e semplificazioni. Il secondo riguarda un motivo di ordine rappresentazionale e simbolico. Predappio non è stato un luogo influente nella memoria del fascismo. Non è stato teatro dell’ascesa politica della dittatura o palcoscenico della disfatta. Ultima questione, puramente turistica ed economica: Predappio è un piccolo paesino della provincia romagnola, interessante per i suoi aspetti che non sono legati a Mussolini, ma obiettivamente slegato da circuiti turistici nazionali.
Di seguito, elenco i tre punti che mi paiono particolarmente critici rispetto all’apertura del museo in questo luogo.

  1. Si avvalora una certa idea secondo cui il fascismo e Benito Mussolini siano da intendersi come sinonimi. Questa infelice sineddoche, che confonde la parte con il tutto, rischia di compromettere ancora di più l’interpretazione fumosa che nel contesto nazionale si ha del passato fascista.
    In più, non bisogna sottovalutare il fatto che Predappio è una città praticata nostalgicamente, cioè nei suoi spazi si mettono scena pratiche di commemorazione fascista che inevitabilmente (e tristemente) condizionano le modalità di interazione di questo spazio. Anche se si paventa la possibilità che la cripta rimanga chiusa per sempre, visitabile solo dalla famiglia Mussolini, rimarrebbero comunque i negozi di souvenir, villa Carpena a qualche chilometro di distanza o la casa natale che, pur essendo un edificio di memoria mussoliniana ma di proprietà del comune, viene considerato dai pellegrini nostalgici come traccia della vita passata del duce e quindi caricato di un valore fortemente agiografico. Come Italo Calvino (1972) fa dire a Marco Polo ne Le città invisibili, «gli elementi non posseggono (solo, aggiungo io) un significato intrinseco; il significato risulta dalla loro posizione». Non si può far finta che un possibile museo del fascismo non si inserisca in questa complessa stratificazione urbana.
  2. Predappio è nota come spazio della memoria fascista solo perché ha dato i natali a Benito Mussolini. Non stringe un rapporto indicale con la storia del Ventennio, non ha cioè stretta contiguità spaziale con un evento legato alla seconda guerra mondiale. Non è qui che il partito fascista è stato fondato, non è qui il balcone dal quale Mussolini ha dichiarato guerra agli alleati osannato dalla folla festante, non è qui che i partigiani hanno vilipeso il suo corpo appendendolo a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina. Sono in disaccordo con quanto scritto da Sergio Luzzato il 6 marzo del 2016 sulle colonne del Sole 24 Ore [3]: «I musei storici, i centri di documentazione, i memoriali, nascono spesso nei luoghi che sono stati teatro degli eventi ai quali si riferiscono. Le scolaresche francesi vanno a Verdun per imparare l’orrore della morte in trincea durante la Grande Guerra. Le scolaresche dell’Europa intera vanno ad Auschwitz per imparare la tragedia della Shoah. Perché – una volta garantiti, attraverso un comitato scientifico e quant’altro, il rigore culturale e la pertinenza espositiva di un Museo del fascismo – le scolaresche italiane non dovrebbero andare a Predappio per imparare in loco il disastro del Ventennio mussoliniano?»
    Predappio non ha a che fare con l’esperienza storica del fascismo, ma con il culto e l’agiografia post-mortem di un dittatore. Questa precisazione sulla non specificità testimoniale di Predappio è necessaria perché dimostra come un museo con degli obiettivi così generali sulla storia del fascismo possa essere costruito in altre città che sono state campo di battaglia o abbiano avuto ruoli decisivi per gli avvenimenti del Ventennio. Mi riferisco a città come Roma, Milano o Bologna.
  1. Il terzo aspetto è di natura turistica. Non è di scarsa rilevanza il fatto che Predappio non sia una meta turistica in senso stretto. Certo è uno dei siti privilegiati di un particolare tipo di turismo, ma non è una meta frequentata come altre città italiane.
    Come ha scritto Paolo Pezzino (2018) nel suo articolo “Perché ho cambiato idea”:
    «Come si pensa di portare ricercatori anche solo europei a lavorare in un posto dove non vi è un libro, nessun significativo deposito documentario, nessun collegamento con altre istituzioni di ricerca? Cosa verrebbero a fare in questa sorta di “deserto dei Tartari” della cultura? Si guardi, per un confronto (impietoso per noi) il Centro di documentazione di Monaco di Baviera per la storia del nazionalsocialismo (NS-Dokumentationszentrum München), inaugurato il 1° maggio 2015: vi è una mostra permanente, un centro di documentazione e una biblioteca, servizi educativi, spazi per mostre temporanee; i costi di costruzione, ammontanti a 28,2 milioni di euro, sono stati sostenuti dalla Città di Monaco, dallo Stato di Baviera e dal governo della Repubblica federale di Germania. Lo Stato di Baviera ha messo a disposizione il sito e i costi di mantenimento della struttura saranno coperti dalla Città di Monaco. Ma certo, siamo a Monaco, e non a Braunau am Inn, dove solo proporre tutto ciò avrebbe coperto di ridicolo gli assertori di un simile programma».
    Ho le stesse perplessità logistiche. Il museo sulla storia del fascismo ha bisogno di centralità. Inserirlo nel circuito turistico di altre città avrebbe un impatto non solo prettamente economico (più biglietti staccati, quindi più visite, quindi più possibilità che il museo possa aggiornarsi tecnologicamente, stare al passo coi tempi e finanziare ricerche), ma significherebbe inoltre incorporare metaforicamente al centro della narrazione urbana il problema, tra i primi punti di un’agenda legata all’autorappresentazione. Significherebbe inserire una narrazione critica e aggiornata del fascismo negli strati complessi di città quotidianamente abitate e attraversate, oltre che creare una narrazione diffusa sul territorio.
    Visitare il Museo del Novecento a Milano e poi andare al museo del Fascismo, per un turista italiano quanto per uno straniero è certo diverso che decidere di fare un’ora di viaggio su un autobus da Forlì per vedere un solo museo, per quanto bello e ben fatto.
    Quindi, o si introduce un sistema di collegamento fitto che connetta Predappio con Forlì in maniera più agevole e veloce (ma davvero agevole e veloce, non penso solo e semplicemente a una navetta–autobus), o si rischia di settorializzare il problema, renderlo periferia. Ancora una volta.

Più che concludere, a questo punto, tendo a ribadire. Sono dell’idea che un museo del Fascismo, un centro di documentazione e ricerca siano necessari in questo momento della storia italiana. Forse ora più che mai, a ben guardare indietro, perché il gap temporale tra la dittatura fascista e il nostro presente si sta allargando sempre di più e i testimoni viventi sono purtroppo sempre meno. Un museo ben fatto contribuirebbe (solo un museo non è sufficiente, però!) a rinfrescare la memoria.
Bisogna fare attenzione ai filtri che si adottano, alle strategie di enunciazione che si pongono in essere nel racconto di un passato così malamente assimilato.
Un museo sulla storia del fascismo, per funzionare, deve fare rumore perpetuo, deve imbarazzare i fascisti (quelli che si atteggiano a tali nella quotidianità e nella politica, non chi si agghinda con camicia nera e fez pensando di poter restaurare un mondo che non esiste più), deve risultare presenza scomoda quotidiana per chi è pronto – (ancora) quotidianamente – ad attaccare i valori antifascisti su cui si è ricostruita e riscritta l’Italia del dopoguerra.
Per questo Predappio rischia di essere lontana troppo lontana, col rischio, a pochi anni dalla sua inaugurazione, di non essere più illuminata dalla luce dei riflettori.
Credo sia importante pensare a questi aspetti, con l’obiettivo di trasformare il museo in un asse di rotazione di un discorso più complesso, in uno strumento critico che –forse troppo utopisticamente – faccia eco ai “non me sta bene che no” di giovani ragazze e ragazzi con la felpa a Torre Maura, denunci le stonature di un manifesto come quello del pronipote di Mussolini, candidato con il partito “Fratelli D’Italia” di Giorgia Meloni alle prossime elezioni europee, o ancora meglio, riesca a mitigare il vento della nostalgia che sembra soffiare freddo (freddissimo!) sul nostro continente.

Note
[1] I nuovi musei sono quegli spazi espositivi che, discostandosi dai tradizionali in cui è consentito solo “vedere”, permettono al visitatore di avere un’esperienza totalizzante che coinvolga tutti i sensi, spesso attraverso l’uso di tecnologia. Per un approfondimento si vedano Vergo 1989, Arnold-de Simine 2014, Pezzini 2011, Violi 2014.
[2] Per una sintesi sul dibattito nazionale si veda: Mirco Carrattieri (2018) “Predappio sì, Predappio no… Il dibattito sulla ex Casa del fascio e dell’ospitalità di Predappio dal 2014 al 2017”.
[3] Parte delle dichiarazioni dello storico sono state riprese qui dal blog culturale Doppiozero.

Bibliografia
Arnold-de Simine S.,
Mediating Memory in the Museum: Trauma, Empathy, Nostalgia, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2013.
Carrattieri, M. “Predappio sì, Predappio no… Il dibattito sulla ex Casa del fascio e dell’ospitalità di Predappio dal 2014 al 2017” in E-Review (6), 2018.
Favero P. “Italians, the ‘Good People’: Reflections on National Self-Representation in Contemporary Italian Debates on Xenophobia and War”, in Outlines – Critical Practice Studies (2), 2010.
Ginzburg C. “Il fascismo non è solo Mussolini”, ne Il Sole 24 Ore, 2016
Luzzato S. “Per capire il Ventennio disastroso”, ne Il Sole 24 Ore, 2016.
Macdonald S., Difficult Heritage: Negotiating the Nazi Past in Nuremberg and Beyond, Routledge, New York 2016.
Pezzini I., Semiotica dei nuovi musei, Laterza, Bari–Roma 2011.
Pezzino P., “Perché ho cambiato idea” in E-Review (6), 2018.
Vergo P. (ed), The New Museology, Reaktion Books, London 1989.
Violi P., Paesaggi della memoria. Il Trauma, lo Spazio, la Storia, Bompiani, Milano 2014.

Mario Panico è dottorando in Semiotica all’Università di Bologna. È stato visiting ph.D. student presso l’Amsterdam School for Heritage, Memory and Material Culture. Ha pubblicato alcuni articoli scientifici su spazio, memoria e monumentalità in riviste di semiotica come “Versus”, “Ocula” e “Punctum”. La sua ricerca di dottorato si incentra sullo studio degli “spazi della nostalgia” con un focus sull’Italia. In particolare, uno dei suoi casi studio è Predappio, la città natale di Benito Mussolini.