NURTURE o dell’educazione libertaria
Setta. Scuola di tecnica drammatica
di Claudia Castellucci

Esposizione_fotoLucaGhedini-1

Presentazione di Setta, Garage Petrarca, Bologna, 3 ottobre 2015
foto di Luca Ghedini

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(il seguente testo fa parte della premessa del libro edito da Quodlibet, alle pagine 14-24).

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Inizio nel senso di albore
Inizio nel senso di inesperienza; inizio nel senso di forte condizione negativa da cui spunta qualcosa. Per incominciare e formare una scuola occorre essere, come minimo, in tre, mentre il numero massimo non dovrà mai superare il numero di figli umanamente generabili da una donna: quindi intorno a (e non oltre il) ventiquattro. Il numero ideale è quello che soddisfa le seguenti caratteristiche: a) è superiore a tre; b) è divisibile in insiemi di due; c) è divisibile in insiemi di tre; d) è minore o uguale al numero di figli umanamente generabili da una donna. Non è assolutamente indispensabile un maestro, ma solo qualcuno che incominci e faccia incominciare. Qualcuno che prenda l’iniziativa, sulla scorta anche malferma di questo manuale. Il suo nome è “scolarca”. In questa scuola il maestro è il vero principiante, perché è quello che comincia per primo una cosa, ed è colui che veglia sulla completezza e sulla precisione degli esercizi eseguiti dagli altri. È lo psicologo che deve correggere. È il regista che deve creare, nell’insieme e dall’insieme, l’insieme. È colui che prepara le riproduzioni da mostrare, e i primi commenti intorno a certi fenomeni della storia dell’arte. È colui che studia i brani di lettura che propone. Sebbene “scolarca” possa esserlo sia una donna sia un uomo, di fronte a questa parola troverai sempre l’articolo determinativo femminile “la”, poiché sono io ad aver scritto questo manuale, e dunque ora prevale l’articolo determinativo che spetta a me.

Fumi
È bene cominciare al più presto. Non devi aspettare di finire il libro, il cui scopo non è la scienza che formerebbe una coscienza, ma il contrario, perciò, per te che hai già coscienza, questo libro è la piccola prova che non stai sognando: stai per incominciare. Sei pronto per partire subito. Non temere: i giorni della scienza verranno; i giorni della pacata riflessione si accatasteranno; ora è importante che tu arda – rabdomante del pensiero – in cerca di un’idea che prendauna forma. Avvolto nel fumo che aumenta, il movimento è genealogico, un albero che si va a cercare sotto terra. Poi occorre ramingare, cioè procedere scegliendo su quali rami appoggiarsi. Quindi capiterà il romitaggio, dove si butta via tutto, perché si desidera provare se stessi senza conforto alcuno. È un esercizio della libertà, che, in questo caso, fa propria la nudità: ciò che è stato già trovato, lo si deve salutare, perché si avverte che ora è tempo di nudità. È qui che si apre il capitolo del pensiero sistematico. Qui ci si ferma e, con la sola forza della mente, si catalogano tutte le forme essenziali. Qui è necessario riposare, perché solo se ci si riposa (meglio ancora se in modo forzato) si è in grado di capire se la sistematica abbia avuto effetto oppure no. Questa scuola non si ferma alla mēchanikḗ. Il teatro è l’arte di una morte superata, ossia raccontabile da vivi. Superata la voglia di vivere, e superata la morte, è una voglia di rivivere.
Anche se i parametri tecnici di questa scuola non ti consentiranno sempre di spiegare tutto in maniera circostanziata, tu, o scolarca, dovrai sempre dire se uno fa bene o fa male un certo esercizio. Toccherà a te dire che dovrà fare una certa cosa in un certo modo. Ma non i motivi, se non li sapessi esattamente circostanziare, o se risultassero poco interessanti. Ciò che è importante, il vero motivo, è la nostra coabitazione; è il nostro convergere in un’unica stanza, attaccandoci a un’unica struttura. Ti farò un esempio. Uno recita un verso. Io dico: No. Qui sbagli. Se non so esattamente circostanziarli, tralascio i motivi per cui sbaglia, ma dico in modo molto preciso cosa deve correggere e in che modo. Passa una settimana. Lo scolaro questa volta recita il verso nel modo che gli avevo indicato, ma io ora gli dico: no, sbagli, devi fare così. E, antipaticamente, gli do indicazioni che lo indurrebbero a recitare il verso come lo aveva recitato la prima volta, quando gli dicevo che si sbagliava. È possibile capirsi in queste condizioni? Io dico che capirsi è esattamente questo. Occorre che la scolarca sia scelta non già per giustificare una fiducia pattuita e ormai sancita, ma per perfezionare la sua funzione, che esclude ogni ammirazione. Se mi accorgessi che qualcuno mi ammira, dovrei, in coscienza, fare di tutto per rovinare questa disposizione, perché essa determinerebbe una condizione di prefigurazione delle forze, un elemento di rigidità nella mobilità delle forze, tale da ostacolare il funzionamento della scuola. Io ho sempre esasperato e frustrato gli ammiratori, fino spingerli ad abbandonare la scuola. Ti consiglio di fare altrettanto. Io non scelgo gli scolari. Non spetta a me. Viceversa, chi non scegliesse un tipo come me, o meglio il tipo in me, chi non mi utilizzasse per i propri scopi, chi non mi usasse come strumento, sarebbe disorientato da una metodica così asistematica, e si troverebbe nell’impossibilità di apprendere e di costruirsi una propria armatura per la plastica (alludo a quei sostegni di ferro su cui si applica la creta per plasmare una statua). Scolarca, dovrai preparare ogni giornata. Solo se la appronti, potrai ricevere e deviare; ricòrdati che nessuno deve venire a scuola per trovarsi di fronte un genio che sciorina quello che gli passa per la testa.

Elementi di pre-tecnica
Prime cose da trovare. Occorre una stanza “neutralizzata”, cioè deprivata di influenze, vale a dire di tutto ciò che provoca effetti automatici. Occorre eliminare sedie, tavoli, letti, stereo, manifesti, librerie. Occorre che sia anonima e scollegata. Non targhe. Non campanelli. Non scritte. E non telefoni o citofoni. Occorre che sia avulsa da stili e attrezzi ereditati. Occorre trovarla. Occorre covarla. Occorre che sia “quella”. E che non ci vada nessun altro che noi. Occorre che sia nostra. Occorre che venga pulita da noi. Occorre che sia riscaldata in inverno. Anche con tizzoni e segatura, dentro un bidone di latta collegato a un tubo fumario che esca da una finestra alla bell’e meglio. Occorre che sia oscurabile. Occorre che sia divisibile in piccoli “appartamenti”. Occorre che abbia una porta che si chiuda. Occorre che nessuno possa vedere, da fuori, il dentro. Del resto occorre pure che nessuno possa vedere, da dentro, il dentro.
Occorre, cioè, che non vi siano spettatori. Mai. In nessun caso. Chiunque entra, deve fare tutto ciò cui la scuola dà inizio, come se mettesse i piedi al principio di una discesa. Per giunta, non sono ammissibili scolari occasionali. Chi comincia, deve farlo dall’inizio della scuola. Non a metà. Chi invece termina prima del tempo che arbitrariamente ci diamo – due anni – che termini senza dare alcuna spiegazione. Non c’è alcun bisogno di giustificarsi o di salutare. Anzi tutto ciò distrae ed è estraneo alla scuola. Semplicemente, se ne vada. Non occorrono cerimonie. Così come non si chiede assolutamente nulla all’ingresso (non nomi, non motivazioni, non curricula, non soldi, non fedina penale: niente di niente), così, per favore, non si dica nulla all’uscita. Non è una scuola di buone maniere: anzi, in questo, è una scuola di cinismo. Non si dà alcun peso alla cordialità, soprattutto quando questa sia convenzionale. Questa scuola intende rispettare il desiderio dei timidi di non parlare, se non, e piuttosto raramente, al di fuori della propria biografia. Questa scuola allontana e respinge qualsiasi ricorso, pressione e allusione alla biografia. I problemi naturali e morali vengono sospesi. Qui non si sviluppa alcuna tematica, qui non ha luogo alcuna interpretazione, non si affronta analisi alcuna, né si medita intorno al “sé”, sebbene sia evidente ed essenziale la coscienza di sé. Il nostro volere non è quello di raccontare e, per giunta, di capirci, bensì unicamente quello di eseguire esercizi basati su una medesima struttura. So soltanto che a farli ci sei tu, e anche tu. Questa scuola potrebbe essere fatta benissimo da tre persone che umanamente non andassero d’accordo, perché in essa non si è costretti a “riconoscere” gli altri, bensì solo una struttura, fatta di ritmo e di relazioni predisposte che tutti ammettono. Ciò è essenziale e induce a un rispetto che spegne ogni inclinazione sentimentale. Se avesse come base la cordialità, la nostra scuola avrebbe tutt’altre caratteristiche, che minerebbero il rapporto – fondamentale – con la nostra solitudine, il vero cardine della nostra applicazione. La solitudine la si istituisce con gli altri, non è un problema da fugare con il contorno degli altri. È una dimensione di verità che si prova con gli altri, i quali non sono più gli artefici della sua eliminazione, bensì i complici della sua manifestazione. È qui che l’amicizia veramente comincia: quando non è un obiettivo, ma soltanto, obiettivamente, un dono azzurro. Se miriamo a essere semplicemente cortesi e solidali perdiamo il motivo che solo è anche capace di renderci amici: la fedeltà a noi stessi. Per questo sottolineo la precisione negli esercizi, cosa incomprensibile in un qualsiasi gruppo di amici, ma non nella scuola.

Quello che scrivo di seguito, leggilo, ora, come se tu fossi la scolarca.
Se siete in due a leggerlo (ma non a “farlo”, perché bisogna essere come minimo in tre), dovete per forza trovare almeno un altro scolaro, e così uno di voi, quando sarà ora, farà da scolarca. Nel modo di cercare compagni o di annunciare l’inizio della scuola, non si deve fare parola dei suoi fini. Non si dice nemmeno perché si chiama “scuola”. Non c’è sempre bisogno di spiegare o di parlare. Il dialogo ci sia, ma non da me predeterminato. È una coazione che non mi aspetto. Per essere scuola occorre essere, come minimo, in tre. In questo tre c’è l’uno della scolarca che fa fare, e il due degli scolari che fanno. Io vado lì perché ho scelto così. È con la scuola che io ho scelto un tempo salvo; ho scelto di usare la mia forza. Che fa la scolarca nel tre? Come si pone nella relazione del tre? Se io ho scelto lei, lei ha scelto me? No: lei non mi ha scelto e questa è la prima asimmetria del rapporto. La scolarca, questa prediletta, attraverso la quale faccio anche violenza a me stesso nel seguire quello che mi dice di fare, mi serve; serve a me e a te, un due, nel tre. Ma se fosse solo così, non potrebbe essere anche maestra. È maestra, perché sta nel punto più basso della discesa che abbiamo iniziato, dove è più pesante la forza. E sta nel punto più profondo della durata temporale. Sta nel punto peggiore. È la più forte non perché comandi gli altri, ma perché usa la forza nel suo essere più in basso di tutti. È una questione fisica. Usa la forza anche contro di sé, per fedeltà al dono intrapreso, per fedeltà agli altri e a sé. La fedeltà che si chiede non è verso la maestra, ma verso se stessi. Questa fedeltà ha bisogno di una relazione, ha bisogno di un attacco in tutti i sensi. La scolarca propone gli esercizi per l’attacco: essi serviranno, di volta in volta, da àncora e da bersaglio. La fedeltà a se stessi è un’espressione molto banale se la si appiattisce sul sentimento, o, per contro, sul rigore dell’auto-disciplina. La fedeltà a se stessi evoca qui un atto che implica obbedienza a una relazione, e non a una persona. Questa relazione si percepisce come generante: faccio qualcosa che non posso fare da sola, e tuttavia ho l’intima certezza che è questo che voglio, personalmente.
Se è vero che la scolarca serve come tramite di fedeltà a se stessi, qual è il suo tramite di fedeltà? Evidentemente è un’altra persona. Tutte queste relazioni passano da persona a persona. Per comunicazione immediata. Per diretto attingimento alla fonte. La predilezione di una fonte sopra tutte le altre è un principio di paradossale libertà. Come spesso si dice, ognuno di noi riflette, in parte, l’insieme delle influenze che ha avuto, e tuttavia la predilezione di una fonte contraddice questo principio determinista, perché in tal caso si obbedisce più a se stessi che non a ciò che siamo divenuti a causa delle influenze più eterogenee. La fonte è soltanto il tramite per una pratica della coscienza. Non si può credere che sia la ricchezza eclettica delle esperienze a determinare la verità in base al calcolo induttivo, e ignorare che il risultato che ne segue è frutto del potere altrui e di combinazioni già create al di fuori della nostra volontà. Il tramite della fedeltà a se stessi e alla propria potenza è una persona, che può anche aver cessato di esistere, senza che, per questo, cessi in noi il suo magistero e ministero. Non ossequio, né riverenza verso un nome, ma grato pudore nei confronti di se stessi e di quanto a fondo possiamo andare sfruttando la scolarca. Ma chi è questa fonte? E perché è fonte? Da quando è fonte? Io prediligo te. Questa è la nascita, il riconoscimento della fonte. È una disposizione –topografica e temporale– precisa e personale. In termini di dignità, uno scolaro può essere di gran lunga più grande della fonte che ha scelto, non è questo il punto. Occorre veramente capovolgere i termini per capire i rapporti, e questi servono soltanto alla fedeltà a se stessi, nella forma di una riconosciuta figura di relazione.

Iconoclastia.
Programmare di non vedere e non sentire determinate cose (di cui è utile fare un dettagliato elenco) in un arco di tempo stabilito. Anche in casa: sgombero delle immagini dalla stanza in cui si vive di più. Al loro posto: disegni geometrici1. Creare all’intorno un certo grado di incomunicabilità. Vedere. Toccare. Odorare. Sentire. Gustare. Questi cinque sensi devono essere diminuiti, cioè sperimentare in sé un certo grado di mortificazione, nel modo che gli esercizi stessi presenteranno. È il nostro primo combattimento notturno, vòlto a riprenderli, vòlto a riviverli. Si va verso la notte. E si sta svegli. Contro-natura. Non per fede, non per amore, ma per tecnica.

Riserbo e ritrosia.
Se l’esistenza della scuola è pubblica, non devono esserlo il suo carattere e il suo modo. La natura del lavoro in essa compiuto va comunicata soltanto a singole persone che ne facciano richiesta con una certa insistenza, alle quali si dovrà comunque rispondere con svagata superficialità. Risposte evasive. Non impegnative. Il lavoro, infatti, pretende un contatto intimo, di solitudine, e un lavoro non lo si interiorizza se lo si mostra nella fase della sua interiorizzazione. E poi è una fatica inutile, come studiare una cosa poco importante. Non è affatto interessante parlare della scuola.

Anonimia.
Nessuno si presenti. Non si faccia l’appello. I nomi delle persone vanno guadagnati: per spontanea necessità. Perché dobbiamo chiederci a vicenda i nostri nomi? La ragione del sapere è insufficiente e relegata a una curiosità indotta e convenzionale che mortifica la gloria del nome. Occorre essere cauti, con i nomi.

Mio Oriente.
Orientamento generale è quello di procedere per saggi e prove individuali, molte delle quali da preparare in disparte. Spesso occorre lavorare separatamente. In un’aula unica, occorre innalzare pareti di stoffa, monocromatica e scura, per ricavare tanti appartamenti quanti sono gli scolari. È anche necessario, comunque, lasciare un ampio spazio comune. Occorrono gli appartamenti, per lavorare. E occorrono anche dei silenzi corali nei quali ognuno vada nella sua stanza a lavorare o a tacere. La produzione forzata è valida quanto la separazione improduttiva, perché ciò che conta è un tempo di separazione vissuto insieme agli altri. Talvolta sarà bene andare a lavorare in certi posti. In certi buchi della terra. Se l’aula di cui si dispone dovesse essere troppo piccola per montare gli appartamenti, la si dovrà riservare agli esercizi, mentre, per ritirarsi, occorrerà andare in altre stanze.

Fondo e figura.
Gli occhi devono vedere fondi, non figure: per questo, a volte, quando ci prepariamo nelle nostre stanze, preferiamo avere davanti ai nostri occhi un muro, o comunque superfici monocromatiche che invadano tutto l’arco visivo – quando ci prepariamo, intendo, a produrre figure. Se tutto è popolato di figure, la figura che ci interessa perde la propria solennità, cioè perde il contorno che la distingue. Fondo devono essere il pavimento e le pareti delle stanze. Le figure siamo noi, quando ci vediamo, e il minimo arredo esistente. Il resto, tutto il resto, va rimosso o nascosto perché intacca la disponibilità propria del niente, con il quale dobbiamo avere a che fare, in assenza di attrezzi e strumenti. Sono prima di tutto i nostri occhi a cogliere il fondo. In ogni stanza ci deve essere un chiodo dove appendere gli abiti cambiati, o eccessivi, e le borse. È didascalico, per noi, avere un fondo. Solo in questo modo riusciremo a capire la figura. L’ordine che abbiamo creato intorno a noi ha questa funzione: scoprirci. Nello spazio vuoto c’è qualcuno: noi. Una emersione che deve mantenersi delicata. L’ordine aumenta il dato della solitudine. Tra un esercizio e un altro non vi devono essere pause, né commenti, se non quando l’esercizio o la critica lo richiedano. Non vi deve essere soluzione di continuità tra gli esercizi. Tuttavia, questa determinata regola deve essere leggera: imposta, sì, ma senza prediche. Ciò significa anche che la scolarca deve preparare le giornate di scuola molto precisamente. In questo libro sono indicati anche alcuni riferimenti tematici. Sono precisazioni scolastiche che ritengo tu, scolarca, debba leggere prima di proseguire, e che prendono il nome didiscorsi. Proviamo ora a considerare questo assetto come un insulso pauperismo, all’insegna della contentezza del poco, di un essenzialismo di maniera. Cambiamo dunque quadro: immaginiamo l’aula come un bar squallidamente arredato, ingombro di sagome illuminate e colorate. Si può fare la scuola in un posto così? Risposta: sì, ma con un forte spirito ascetico e dopo che tutti, alle quattro del mattino, hanno sloggiato. Io non lo farei, ma che importa? Altri ce la possono fare. Ma proprio questa dura condizione di partenza non sarebbe forse raccomandabile, per forgiare una forte tempra scolastica? Risposta: No. Spero di avere chiarito il pragmatismo dell’arredamento scolastico.

Vacanza.
È il tempo che precede l’inizio del giorno scolastico; è il tempo di chi viene prima dell’inizio. La scuola dovrà essere aperta almeno venti minuti prima dell’inizio degli esercizi, per chi desideri venire in anticipo sul posto. Al centro del pavimento, sopra alcune coperte, giacciono libri, accanto a illustrazioni di fiori. È necessario che si vedano molti fiori, per via dei loro colori. Le coperte sono tutte accettabili, eccetto quelle che dovessero presentare scritte o disegni figurativi. I libri sono quelli che porterà, di volta in volta, la scolarca, dopo averli evocati durante le lezioni. Più in là, una bacinella con i bicchieri e il thermos con il tè. È bello scivolare nel lavoro in un crescendo. È bello lasciare le frasi fuori dalla porta e incominciare nel silenzio neghittoso di una lettura singolare. Ognuno prende il libro che vuole, o il fiore che vuole, e per nessuna ragione dovrà parlare. Quando dico che durante la lettura occorre stare in silenzio assoluto, è necessario accettare alla lettera questa condizione. Leggere insieme, ma ognuno per sé, significa conoscere, e partecipare le azioni non manifeste del nostro corpo. È bellissimo stare accanto a qualcuno che agisce senza che esternamente lo si veda. Perciò, anche se arrivasse un compagno che non si vedesse da anni, nessuna parola deve rompere il silenzio. In quel caso, basterà abbracciarlo, ma, quanto a parlargli, occorrerà aspettare. Se uno sente comunque l’irrefrenabile impulso di parlare con qualcuno, faccia un cenno d’invito a chi ha di mira e, insieme, se ne vadano fuori dalla porta a parlare. Bisogna essere precisi in questo. Prima degli esercizi, questa intercapedine di silenzio deve dividere i climi. È un silenzio tecnico. È importante inclinare il nostro corpo verso questa disposizione, anche facendo violenza al nostro naturale modo di fare. Ma noi non siamo qui per essere naturali. Per questo insisto sul rispetto di questa (poco naturale) regola. Ma basta così. Quando mi accorgo di passare troppo tempo a spiegare, significa che temo – senza ragione – i pericoli di un’incomprensione che invece devo ammettere (questa sì) come naturale. Non voglio forzare l’incomprensione con una spiegazione insistita. Devo dare un tempo limitato alla spiegazione, e poi devo lasciarla per passare all’esercizio, lasciando tutto lo spazio che si deve a un’eventuale incomprensione. Questo è l’amore caratteristico della scuola. E serve, cioè è bello, soltanto se riesco a scendere ancora più in basso, sullo sconcertante terreno di un fare senza spiegazioni, ma sottoposto immediatamente al giudizio.

Profumazione.
Prima di cominciare gli esercizi, e dopo la vacanza di lettura silenziosa, occorre che tutti, con una scopa in mano, spazzino il pavimento intonando elementari melodie. Qualcuno, con una bottiglia d’acqua a cui saranno aggiunte gocce di sapone alla rosa, innaffi il pavimento per evitare che la polvere si sollevi.

La secondaria faccenda del tè.
Il tè va servito ad ogni incontro, per riscaldarsi durante la fase dell’ascolto, ma è meglio evitare che debba prepararlo uno scolaro. La secondaria faccenda del tè non deve essere complicata. Bastano un thermos e dei biscotti. I bicchieri devono essere di vetro, per via della loro trasparenza che riduce il numero delle figure e per il tintinnio che esso ci offre. Quando si beve, ci si siede o ci si distende su coperte stese sul pavimento. Allora si ascolteranno brani di musica. Altre volte, durante il tè, si potranno vedere le diapositive di alcune opere d’arte che illustrano i riferimenti della scolarca.

Abito.
Necessità del distacco, dell’assenza di relazioni tra ciò che copre il corpo e il tempo attuale. Necessità della solennità, data da un abito avulso dalla foggia del tempo, anonimo, severo o vecchio. Pantaloni da donna o da uomo vecchi, colori vecchi. Maglia vecchia eattillata, possibilmente con disegni geometrici. La geometria rappresenta l’indipendenza storica del pensiero, e averla sotto gli occhi e sopra il nostro corpo, giova. Abolizione degli indumenti ginnici, scarpe comprese. Abolizione di qualsiasi indumento, scarpe o copricapo (ma anche quaderni, etc.) che rechino scritte o disegni naturalistici.

Scarpe.
Di cuoio, per via del suono. A ogni passo deve corrispondere un suono. Coscienza dello scheletro, in noi, che batte e che ci fa percepire il ritmo del corpo in movimento. Anche le scarpe devono essere vecchie, e possibilmente appartenenti ai propri antenati.

Taglio di capelli.
Basterà limitarsi a esigere sempre la fronte scoperta, per via di certi esercizi muscolari.

Ore che passano.
Una durata (minima) di quattro ore per ogni giorno di scuola è appena sufficiente. Sono molto stanca dopo tre ore, ma, appunto per questo, un giorno di scuola deve durare di più. La durata aumenta il dato tecnico della solitudine, perché aumenta la percezione del corpo individuale. In un’ora le cose passano. In quattro ore le cose trapassano, come l’acqua in una spugna. In tre ore le cose passano, poi stancano e, quando siamo stanchi, entrano. Allora si raccoglie la trasformazione.

Mangiare carne.
Infine, ti chiedo di comprendere, nella tua dieta alimentare, carne. Ti chiedo di mangiare carne almeno qualche volta, in coincidenza col tuo giorno di scuola. Ragazzi vegetariani, so di sconcertarvi, ma mangiare carne, benché io stessa sia una vegetariana di fatto, è un principio indispensabile per questa scuola. Se la cosa vi ripugna moralmente, potreste limitarvi a ingurgitare le parti del corpo animale formate da cheratina (quelle che sono destinate alla crescita e alla perdita naturali, come una fontana): unghie, peli, penne e squame. Basta un capello: ma lo devi mangiare. Hai presente il ciclo dell’acqua? Questo è il ciclo della carne, che deve comprendere tutta la vita animale su questa terra. È un problema di pietas universale per il corpo di tutti gli animali e per tutti i sarcofagi, che l’attore è chiamato a volere, se vuole, con la sua arte, rivivere e fare rivivere, a cominciare dal punto più aderente alla terra. Il punto peggiore, che dobbiamo comprendere dal profondo. Non te la senti? Va bene così. Io non ti voglio convincere, e più di questo non posso dire.

Armatura per la plastica
Anni fa creai una scuola chiamata “Scuola teatrica della discesa”. Tutto ciò che essa fu per me esula da qualsiasi libro, e questo lo affermo perché gli esercizi che mi accingo a descrivere qui possano valere al di fuori di essa. Questo libro coincide con la conclusione della mia scuola e con l’apertura della tua. Scorrendo queste pagine, comprenderai come ogni esercizio sia un’armatura, fatta per essere impugnata personalmente. Perciò abbi questa avvertenza: tutti gli esercizi sono sempre inizi di qualcosa; anche se concludenti, non sono veramente conclusi. È indispensabile perciò sfruttare quel che l’esercizio promette a ciascuno. Ogni esercizio, infatti, grazie alla propria struttura, rivela modi di appropriazione diversa. Sta in questa assunzione la propria plastica. Attàccati all’armatura! Attacca l’armatura!

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1Consiglio, in particolare, alcune delle figure geometriche che Giuseppe Peano ha riprodotto alla fine del suo volume Formulario Mathematico(1908), Edizioni Cremonese, Roma, 1960, pp. 466 sgg.: le diverse Parabole, Ellisse, Iperbole, Curva, Sinusoide, Tangentoide, Spira Mirabile, le diverse Spirali, Cochleoide, i diversi Cycloidi, Evolvente, Asteroide, Le Lumache di Pascal, Cissoide, Conchoide di Nicomede. Consiglio, inoltre, i disegni poligonali che Keplero ha tracciato nel suo libro Harmonices mundi libri V (Lincii Astriae, Ioannes Plancus, 1619).

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Claudia Castellucci fonda nel 1981 la Socìetas Raffaello Sanzio assieme a Romeo Castellucci e a Chiara Guidi. Per la Compagnia compone testi drammatici e teorici, ed è interprete di diversi spettacoli. Ha creato scuole di tecnica drammatica, di cui Setta costituisce la summa. Ha pubblicato, oltre a numerosi testi teatrali, i volumi: Il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio: dal teatro iconoclasta alla super-icona (con Romeo Castellucci, Ubulibri 1992), Uovo di bocca. Scritti lirici e drammatici (BollatiBoringhieri 2000), Epopea della polvere (con Romeo Castellucci e Chiara Guidi, Ubulibri 2001), Les Pèlerins de la matière, théorie et praxis di théâtre (con Romeo Castellucci, Les Solitaires Intempestifs 2001),The Theatre of Socìeta s Raffaello Sanzio (con Romeo Castellucci, Chiara Guidi, Joe Kelleher e Nicolas Ridout, Routledge 2007).