Gettare il corpo nella lotta
Assumere una posizione che ci sconcerta
La rappresentazione del corpo nella lotta anti-mafia e di mafia
di Giulia Crisci

È dolce, mentre la superficie del vasto mare è agitata
dai venti, contemplare da terra la gran fatica di altri;
non perché il soffrire di qualcuno sia un piacere lieto,
ma perché è dolce capire da che sventure sei esente.
È dolce anche contemplare grandi contese di guerra
allestite per i campi senza la tua parte di rischio.

Lucrezio (De rerum natura, II, vv. 1-19)

KENTRIDGE

William Kentridge, Drawing for Triumphs & Laments (#13), 2014, Charcoal on Ledger pages, 63x83x4 cm, Photocredit Thys Dullaart,
Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli

 

L’immaginario legato alle mafie è abitato da corpi gettati e caduti nella lotta, quasi sempre cadaveri.
Possiamo ancora osservarli giacere sulle strade del sud Italia, attraverso le molte testimonianze fotografiche per lo più degli anni ’70 – ’90 del novecento. Questi importanti documenti visivi, che hanno fatto luce su alcuni dei momenti più tragici della storia d’Italia, sono stati veicolo efficace di informazione, contribuendo ad un tempo a creare l’ immaginario collettivo legato alla mafia al sud1.
Al centro di questa riflessione si pongono interrogativi relativi all’influenza di queste immagini documentaristiche sulla creazione di un’iconografia mafiosa, centrata sulla morte e sulle vittime, peraltro relegata geograficamente al sud Italia, con un impatto inevitabile anche sul volto dei territori coinvolti.

Una fortuna critica particolare hanno avuto gli scatti di Letizia Battaglia2 (Palermo, 1935), il cui lavoro ha dato ampio spazio alla rappresentazione delle morti di mafia, fondamentale per raccontare con rara efficacia uno degli aspetti legati alla vicende che in quegli anni colpivano la Sicilia. “La fotografa delle stragi” era inviata dal quotidiano “L’Ora” ad offrire il suo obiettivo per realizzare le immagini corredo delle notizie.

Il corpus fotografico in questione, a differenza di altri, è stato ampiamente esposto e musealizzato, riuscendo a raggiungere occhi di lettori e di visitatori, dalle pagine dei giornali alle pareti museali, costituendo la quasi totalità dell’apparato iconografico su mafia e anti-mafia. Tanto da sembrare nelle successive scelte curatoriali l’unico tentativo artistico riuscito e affermato- persino molti anni dopo- di avere a che fare con la questione delle mafie. Eppure esso nasce come reportage, senza intenzionalità artistica, a differenza di altre opere della Battaglia, con l’urgenza di illustrare e legittimare la notizia, rimanendo su un piano prettamente documentativo.
Vero è che pochissimi altri artisti hanno cercato un approccio, ma l’unicità non è la ragione principale della sovraesposizione di queste fotografie. Essa risiede piuttosto nel loro potere d’evidenza, che è necessario rimettere in discussione.
Quale linguaggio più eloquente del realismo? Cos’altro dire se non la verità e nient’altro che la verità? Quale migliore tentativo di sostituire la finzione?

“Le lenti fotografiche sono state chiamate obiettivi nella speranza che potessero salvare dell’impressione e dai dubbi che si accompagnano alla soggettività”3.

Si è pensato e si è scritto che l’automatismo della riproduzione permettesse di superare la soggettività, che vedere o vedere attraverso una fotografia avessero le stesse condizioni essenziali e instaurassero lo stesso rapporto percettivo con l’oggetto4.
La fotografia è atto mai innocente, che non prescinde da una serie di scelte, ben lontane dall’illusione dell’oggettività. Essa è sempre visione, è sempre spazio dubbio tra il reale e il vero.
Vertigine e allucinazione d’oggettività.

CALDARA

Palermo estate 2016, ph. Daniele Caldara

 

Appiattire l’espressione artistica alla contingenza dei fatti, continuando a demandare solamente al linguaggio fotografico documentaristico la rappresentazione di fenomeni sociali complessi come le mafie non è più un’operazione convincente, risulta piuttosto inattuale e pretenziosamente coraggiosa. Ancor meno convincente è la scelta unica della morte come espediente narrativo, mentre le mafie continuano ad avere una così forte influenza sulla vita a sud come a nord.
Necessaria è una riflessione sul portato di queste immagini e sulle scelte che esse mettono in luce.
Bisogna prestare attenzione alla materia del visibile dove tutto è trappola e in modo singolare intreccio. (Lacan, 2003)

Cosa ci racconta la postura di questi corpi gettati nella lotta? Che significati ha, quali implicazioni ? Quali rischi nelle sua continua reiterazione?

L’immagine dalla scena del crimine continua ad essere accattivante e irrinunciabile, le motivazioni principali probabilmente risiedono nella natura rassicurante e nella capacità di rispondere perfettamente alle esigenze di Oggettivare, Esorcizzare ed Estetizzare la morte.

Roland Barthes scrive di fotografia come allucinatoria microesperienza di morte. Il cui noema è l “’è stato”, teatro morto della morte. L’ ostruzione temporale che semplicemente attesta ciò che non è più, impedendo il tragico e rendendo inutile ogni propensione, rassicura fortemente lo spettatore della sua irrimediabilità. L’unico sentimento che è possibile muovere è quindi pietà verso ciò che è morto.
Immagini così costruite riescono ad esorcizzare, ovvero tenere a distanza ogni potenza di azione e ogni pulsione di morte, creando persino un contro-ricordo che si accavalla alla memoria stessa. Estetizzano e aiutano a rimarcare la distanza di sicurezza. Rassicurati dalla cornice, non resta che assumere una postura di contemplazione, come chi guarda da terra il mare in tempesta. Perchè è dolce capire da che sventure sei esente!
Chiamiamolo naufragio con spettatore.

“Il teatro è un esercizio di ricerca etica. Il teatro permette allo spettatore di sedere in pace e di
riflettere sul soggetto dello spettacolo. Perchè vogliamo rompere tale quiete, quiete che è qualcosa
di giustamente essenziale per il benessere della mente e del corpo?
Ogni tanto grandi masse di gente si mettono in moto politicamente facendo causa comune,
strappano il pennello dalle mani dell’artista e cominciano a dipingere i loro quadri.
Questa è la caverna del teatro, ora cammina con me, lungo questa via!

Il modo di pensare è determinato dal modo in cui usiamo il nostro corpo, dal modo in cui lo usiamo
quando lavoriamo, quando recitiamo, quando facciamo l’amore. Come usi il tuo corpo quando fai
l’amore, come viene usato quando vai a lavorare? Questo è il modello del tuo pensiero. Il corpo
pensa per primo. Le nozioni della mente sono la scelta o gli stimoli di dolore e piacere del corpo.
Un teatro che ignori questo è ignorante”

(Julian Beck e Judith Malina, 1994: 278)

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Nella parole di Judith Malina e Julian Beck, fondatori del Living Theatre, si intrecciano continuamente le dimensioni di vita, morte e arte. Una riflessione importante è dedicata alla rappresentazione della crudeltà e del dolore, passando dall’opera di Artaud fino alle perfomance di Hermann Nitsch. La messinscena del senso di crudeltà e del dolore -a dir loro- non liberano, quanto piuttosto creano assuefazione. La realtà e lo spargimento di sangue- aggiungono- non purifica.
Non è la visione della morte a toccare i sentimenti. Questo moto resta privilegio dell’arte.
Quello che loro scrivono per il teatro, possiamo qui estesamente leggerlo per tutte le arti.
Cogliendo soprattutto l’interrogativo sulla spettatorialità, rimessa in discussione come condizione di quiete, dove particolare attenzione è prestata alla dimensione corporea. La postura è essenziale per l’arte, quanto per il pensiero stesso, insieme alla necessità di non rendere l’opera corpo estraneo.

Se così è, guardare all’uso e alla rappresentazione del corpo appare centrale per avvicinarsi al pensiero in una relazione di sincera prossimità. Bisogna allora riconsiderare la scelta di dare spazio esclusivamente ai corpi caduti nella lotta, che inevitabilmente comporta l’estromissione dei corpi in lotta. Ripensare l‘è stato come tempo narrativo anti-contemporaneo, in quanto questo implica dichiarare chiusa la storia, non lasciando né spazio né esigenza d’azione. Più di ogni altra cosa bisogna riconoscere che se l’arte relega il fenomeno delle mafie esclusivamente alla dimensione di morte, isolandola, mente su quanti interessi esse nutrano ancora per la vita.
Eleggendo a unica possibilità questa iconografia ciò si produce è un immaginario distorto e pericoloso della lotta alle mafie, in cui la contemplazione è l’unica postura possibile e l’eroismo l’unica azione, peraltro ormai compiuta.
Le pratiche artistiche contemporanee sono luogo del dubbio, tenendo insieme il piano del reale e quello del simbolico, esse agiscono risignificando. Continuamente oscillano tra il visibile e l’invisibile, laddove rinunciare alla somiglianza non implica necessariamente rinunciare al visibile5.
Occultamento e invisibilità sono condicio sine qua non dell’esistenza delle mafie e del pensiero mafioso, che si infiltra naturalizzandosi e incarnandosi diventa irriconoscibile.
Muovendosi come soggetto contemporaneo, l’arte può ancora agire.
Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo, percependolo come qualcosa che lo riguarda, non cessa di interpellarlo, scrive Agamben.
Non spegnere la luce, ma saper brancolare nel buio. Cambiare postura, assumere una posizione che ci sconcerta, fuori dalla rassicurazione, non contemplare l’inerme.
Sentire vivi i nostri corpi morti.

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Come è noto l’ immagine, pur non costituendone la totalità, ha fortissima influenza sulla creazione degli immaginari collettivi. Per la relazione soprattutto tra immagini mediatiche e immaginari collettivi si vedano tra i molti gli studi di Alberto Abruzzese.
Per le fotografie di Letizia Battaglia si rimanda all’ampia gallery del web.
Dal testo introduttivo presente in mostra “Sulla Scena del crimine. La prova dell’immagine”, Camera, Torino, 2016.
Sul tema della mimesi e della realtà in riferimento al medium fotografico si vedano tra i molti i testi di Walton L Kendall e Rudolf Arnheim.
Sulla relazione tra arte e visibile si rimanda a Jacques Rancière e in particolare al suo Il destino delle immagini.

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Questo articolo si inserisce nell’ambito di Ulissi, progetto di ricerca e pratiche artistiche sugli immaginari mafiosi nelle culture contemporanee, a cura di Paola Bommarito, Giulia Crisci e Giulia Grechi http://www.routesagency.com/portfolio/ulissi/

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Bibliografia

Abruzzese A., 2001, L’intelligenza del mondo. Fondamenti di storia e teoria dell’immaginario, Meltemi Editore, Roma
Agamben G., 2008, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma
Arnheim R., 1960, Film come arte, trad. it. Gobetti P., Il Saggiatore, Milano
Barthes R., 1980, La camera chiara. Nota sulla fotografia, trad. it. Guidieri R., Einaudi, Torino
Barthes R., 1985, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, trad.it. Bonacasa C., Bottiroli G., Caprettini G., De Agostini D., Lonzi L., Mariotti G., Einaudi, Torino
Beck J., Malina J., 1994, Theandric, trad.it Mantegna G., Edizioni Socrates, Roma
Dufour D., a cura di, 2015, Images à charge – La construction de la preuve par l’image, LE BAL et les Éditions Xavier Barral, Parigi
Lacan J., 1974, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io, in Scritti, vol.I, Einaudi, Torino
Lucrezio, Della natura delle cose, trad. it Marchetti A., 1975, Collezione di poesia, Einaudi, Torino
Rancière J., 2007, Il destino delle immagini, trad.it De Gaetano R., Pellegrini Edizioni, Cosenza
Scharf A., 1979, Arte e fotografia, trad. it. Lovisetti L., Einaudi, Torino
Walton K. L., 1984, “Transparent pictures: on the nature of photographic realism”, in
Critical inquiry, vol. 11, No. 2, December