SPACE IS A DOUBT
La trama dello spazio: pieghe, reti dinamiche, cristalli di tempo. Conversazione con Alessandro Carboni
di Enrico Pitozzi

Inverse power of wavelenghts, foto di Alessandro Carboni

 

Ero solo uscito a fare due passi, ma alla fine decisi di restare fuori fino al tramonto,
perché uscire, come avevo scoperto, in realtà voleva dire entrare.

[John Muir, The Eight Wilderness Discovery Books, Boston, Houghton Mifflin, 1918, p. 34]

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Più una spiegazione è profonda,
più lontane dall’esperienza immediata sono le entità alle quali deve fare riferimento.
[David Deutsch, La trama della realtà, Torino, Einaudi, 1997, p. 9]

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Enrico Pitozzi: Partiamo dal progetto che fa da cornice a questa conversazione e che è tutt’ora in corso: Overlapping Discrete Boundaries (2010). Quali sono i nodi attorno ai quali orienti l’indagine?

Alessandro Carboni: Overlapping discrete boundaries mette al centro la relazione tra il corpo e lo spazio urbano. Due direttrici di ricerca si intersecano: da un lato l’analisi oggettiva dello spazio urbano, indagato grazie a tecnologie geo-locative di esplorazione e mappatura; dall’altro il rapporto soggettivo e intimo tra l’osservatore e l’ambiente, somma inscindibile di dati provenienti da un processo di oggettivazione e soggettivazione continuamente modificabile. Il progetto, nelle sue fasi, si relaziona fortemente a questi strumenti d’indagine che prendono in considerazione l’oggettività dello spazio esperito e la soggettività degli sguardi che lo indagano. La percezione è al centro di questo processo conoscitivo: da un lato assetto sensoriale, dall’altro spazio e flussi urbani. Overlapping discrete boundaries prolunga e precisa la ricerca avviata con What Burns Never Returns (WBNR) dedicata alle trasformazioni antropologiche e socio-culturali dell’uomo e alle tecnologie o, ancora, alle infrastrutture in cui gli individui organizzano e pensano la loro collocazione nello spazio urbano.

A questi aspetti si accompagna una riflessione sul concetto di tempo e sull’idea di memoria. Essa si configura sempre più chiaramente come il difficile spazio entro cui costruire emozioni e verificare i nessi e le ipotesi sulle differenti strategie relazionali. Questi fattori confluiscono in una dimensione, quella dell’archivio progressivo, che sempre più sposta la sua dimensione fisica verso quella di un flusso temporale frammentato in più luoghi, così come molti tempi e molti luoghi costituiscono ormai le nostre vite multi-dimensionali composte da spazi fisici e proiettate verso dimensioni virtuali in continua ri-definizione. La geografia dei corpi necessità di una nuova mappatura che sia dunque consapevole e ricettiva rispetto a questi continui cambiamenti che alimentano la nostra vita. Dalle periferie rurali ai paesaggi europei, passando per le megalopoli asiatiche, la realtà esplorata da chi decide d’indagare queste problematiche viene ridisegnata dalle suggestioni di nuovi confini e nuovi modi di relazionarsi allo spazio.

Inverse power of wavelenghts, foto di Alessandro Carboni

 

E.P.: Per individuare questi processi parli di geografie emozionali, raccolta di tracce percettive dei tuoi spostamenti nelle metropoli.

A.C.: Si tratta della mappatura dei luoghi di cui si fa esperienza: una geografia che coinvolge la sensibilità ma che agisce attraverso i tempi di una ricerca condotta con cura e precisione millimetrica. Significa installare il proprio sguardo all’interno dei sommovimenti delle diverse aree geopolitiche per poterle interpretare.Ciò che mi interessa indagare ha a che fare con l’individuazione di una struttura interna fatta di trame di relazioni in continua modificazione: l’uomo è il vettore e l’entità capace di modificare lo spazio, di generare nuovi flussi di movimento. La percezione riveste, in questo, un ruolo decisivo: il corpo, nel comprendere l’ambiente che lo circonda, è in grado di incidere sulle conformità dello spazio che abita. La percezione diventa allora il vero luogo in cui codificare queste mappature soggettive.Si tratta, in primo luogo, di identificare e sondare – quasi mappare – diverse dimensioni spaziali. La gradazione all’interno della quale mi oriento passa dall’individuazione di questi due poli: la dimensione dell’infinitamente piccolo – dunque una dimensione micro dello spazio – e la dimensione macroscopica dello spazio delle megalopoli asiatiche.

 
 

Soglia #1

Sono arrivato da poco al Changi Airport di Singapore. Mi trovo su un taxi che mi porta in centro. Il tassita mi chiede se mi piace la città. Io rispondo che dopo essere stato a Kuala Lumpur per una settimana, avevo la curiosità di scoprire l’altra faccia della penisola Malese. Nonostante riuscissi a malapena a capire il suo inglese, egli mi disse: “A Singapore ci sono tanti indiani, cinesi, malesi e anche qualche occidentale. Non c’è divisione, siamo tutti uniti”; poi continua dicendo: “Conosci il Rojak?”. “Non lo conosco” rispondo io. “Beh, Signapore è come il Rojak, un’insalata molto popolare da queste parti. I vari ingredienti, coperti dalla stessa salsa di arachidi, formano un insieme in cui ogni parte è chiaramente distinguibile. La salsa di arachidi sono gli abitanti di Singapore; gli altri ingredienti sono le diverse tradizioni culturali”.

A.C.: Cerco di orientarmi in questa polarità a partire da un gradiente che contempla la presa in carico di una sorta di passaggio di stato e di dimensioni spaziali che va dal corpo, e dal suo sistema sensoriale interno, passando per lo spazio che lo circonda, fino ad arrivare alla sua collocazione nello spazio urbano, assunto qui come macroscala di uno stesso processo che si dà per modulazioni interne.Il corpo è al centro di questo processo: identificare e sviluppare le sue potenzialità, i nodi in cui è in grado di modificare sia lo spazio che è direttamente intorno a lui, sia la sua collocazione in uno spazio diffuso come quello della città.

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E.P.: I piani cui fai riferimento – sui quali torneremo poi a soffermarci nello specifico – sono da pensare tuttavia come strettamente correlati. Tra essi, potremmo dire, si istituisce una continuità di scala che dal molecolare – dunque dall’infinitamente piccolo – passa al molare. Due dimensioni che, però, condividono una stessa incommensurabilità: altre una certa misura accessibile, sembrano disporsi entrambi al di là della nostra soglia di percezione.

 

Dunque mi interessa portare il corpo in luoghi a lui non direttamente famigliare, capire come questo reagisce in contesti che non gli sono propri. Si tratta di un’indagine sulla soglia di prossimità che il corpo è in grado di trasformare; o di una costante indagine sulla possibilità di spostare questa soglia. Ciò significa avere accesso al modo in cui un corpo sente lo spazio ed è sentito da quest’ultimo attraverso le operazioni di modificazione che esso mette in opera. Questo processo d’indagine ha cominciato a prendere forma con viaggi sempre più frequenti in Asia attraverso una serie di residenza dove ho cominciato a indagare la relazione del mio corpo rispetto a contesti non comuni e ad osservare – là dove si verificavano – i processi di alterazione in atto: sia per quanto riguarda la percezione stessa del mio corpo – il microdi cui dicevamo – sia per quanto riguarda le ricadute che questo opera sul macro del contesto urbano.

E.P.: Il corpo è qui pensato – a mio modo di vedere – come potenzialmente irradiante di un processo trasformativo che investe, come un’onda, ciò che gli sta intorno fino ad incidere sulla macroscala della città mediante la sua collocazione fisica nel contesto urbano. Emerge da questi aspetti la nozione di rete, di griglia spaziale, cui fai spesso riferimento.

 

A.C.: Parto da una considerazione elementare: la rete è formata da un insieme di componenti, sistemi o entità interconnessi tra di loro. Questa nozione è profondamente legata – almeno in ambito matematico – alla topologia. Come vedi siamo nuovamente alla questione centrale che mi interessa indagare, ovvero le dimensioni in cui uno spazio si presenta, emerge.La struttura e le costruzioni a rete sono la chiave per comprendere il mondo complesso. Impercettibili cambiamenti di rete possono, in realtà, rivelare possibilità nascoste, far emergere dimensioni di spazio impreviste.Tale consapevolezza che è emersa a partire da una serie di discorsi sviluppati con il fisico Alessandro Chessa intorno all’idea di spazio comerete di relazioni tra punti determinati. Questo mi ha permesso, in primo luogo, di arrivare a definire una serie di contest con cui entrare in risonanza: riscrivere la nozione di spazio a partire da una serie di fenomeni che avvengono, che succedono a diversi livelli – che si tratti del corpo, della stanza in cui siamo o della città che ci circonda in questo stesso istante – e che entrano in relazione tra loro.Lo stesso modello, in piccolo, l’ho adottato per il corpo: pensare ad esso come a una rete fatta di punti in costante connessione tra loro, imprescindibili dalla fisiologia. Da un lato, dunque, la necessità è quella di lavorare sulla mappatura del corpo, dei suoi punti e delle sue relazioni; identificare alcuni punti appartenenti al corpo e trovare tutte le correlazioni possibili, restituendone così una mappa ridefinita a partire dalla risonanza tra questi nodi. Evidentemente, in questo schema, la ridefinizione passa anche, e soprattutto, per una ricostruzione del gesto. Allora la questione qui si complica e l’interrogativo si sposta sulla possibilità di considerare il gesto come pattern di una rete. Ne risulta che il gesto è un equilibrio di distanze tra questi vari punti che fanno riferimento alla mappa del corpo.La nozione di rete, divenuto vero e proprio impianto metodologico, può essere applicata così a  fenomeni che si sviluppano su scale diverse.

Da un punto di vista coreografico, dunque, quello che mi interessa è indagare la capacità di un corpo di costituire delle reti, mettere in relazione dei punti. Qui in gioco c’è anche la questione del linguaggio che non deve essere necessariamente già codificato, piuttosto deve essere indagato nella sua sintassi.

E.P.: Sollevi qui diverse questioni, tutte centrali. Andiamo però con ordine, partiamo dallo spazio del corpo. Prolungando questa riflessione, la neurofisiologia sembra dirci che  nel momento in cui ci accingiamo a percepire una cosa, non si tratta di essere investiti da un flusso di dati sensoriali. La percezione è, invece, impegnata nel costituire lo spazio della cosa percepita, ne restituisce un diagramma: proiettare significa costituire uno spazio d’azione, prepararne (e prevederne) le condizioni (le conseguenze). Ciò significa che è la percezione a dirigere e organizzare i sensi e non viceversa. Si apre, all’orizzonte, una questione correlata: esiste un topos – luogo geometrico misurabile e uguale per tutti; ma esiste anche un luogo come spazio intimo proiettato dal corpo. Il luogo modifica il topos e quest’ultimo il precedente, ininterrottamente.

A.C.: È un passaggio di rilevante importanza; questo ci permette di ripensare le possibilità del corpo e, al contempo, di esplorare nuove dimensioni del concetto di spazio. Di uno spazio che sta dentro il corpo; ma questo è capace di ridefinire – attraverso la proiezione di cui parli – il suo spazio esterno e, dunque, andare nella direzione di ciò che prima sottolineavo come esigenza di interrogare i livelli e i modi di incidenza del corpo nello spazio visibile. È, se vuoi, un processo di proliferazione continuo: individuo nuovi punti di connessione perché sono le relazioni tra questi che mi interessa esplorare. Le ricadute di questo processo si danno su piani e livelli diversi.Parlo di complessità, allora, nel momento in cui sono interessato a formulare e riformulare le connessioni e la qualità di queste ultime tra le varie parti (i punti) che costituiscono la mappa del corpo. Si tratta di lavorare su queste connessioni per rifare la forma del corpo e, dunque, la capacità di proiettare il suo spazio intimo.Due elementi definiscono un terzo elemento perché tra loro esiste una correlazione. L’essenza di questa relazione è nel link, nella connessione, nel passaggio di scala e, dunque, nel passaggio a un grado superiore di complessità. È necessario indagare la qualità del gradiente tra le parti.Evidentemente questo passaggio è affascinante perché ci dice che è necessario indagare tutte le possibili relazioni tra le parti di un corpo. Disposte su una scala temporale, mi permettono così di delineare un alfabeto di possibilità combinatorie pressoché infinito…evidentemente sono in gioco i sensi, la percezione.

 

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Odb foshan, foto Dickson Dee

E.P.: Ciò significa ampliare esponenzialmente il livello delle connessioni: dai punti che stanno nel corpo e che a un certo grado di articolazione diventano punti che appartengono anche allo spazio (Topos). Tocchiamo qui il principio di complessità che ci è caro. Ciò che ne deriva è una vera e propria radiografia dell’immateriale – vale a dire delle relazioni che non si possono rivelare se non cambiando velocità alla percezione, sentendo in un altro modo. Possiamo quindi dire che esiste una logica interna che dal micro permette di passare al macro (e viceversa) attraversando scale di complessità diverse. Avviene esattamente come in un frattale: un oggetto geometrico che si ripete nella sua struttura allo stesso modo su scale diverse.

A.C.: Esatto, il processo procede su due assi; individuazione dei punti e tracciato delle relazioni: aree del corpo, porzioni di spazio… pensando sempre nella logica della rete in cui le cose – anche in modo impensato – si connettono le une alle altre. L’analisi di questi spazi, le pieghe che ci permettono di passare dagli uni altri, mi piace vederla come un insieme di reti continuamente interrelate che si sviluppano per stratificazioni a partire dall’intersezione di piani differenti.

E.P.: Mi interessa particolarmente questa riflessione perché mette in gioco una teoria fisica interessante: l’entanglement. Vale a dire che due particelle separate, distanti tra loro anche diversi milioni di chilometri, possono risulare collegate: qualunque cosa accada ad una delle due, causa cambiamenti immediati sull’altra. Dunque, esattamente nella direzione in cui lavori, ciò che è importante è la serie di connessioni nascoste – la griglia, per usare il tuo linguaggio – che rende interdipendenti fenomeni che, apparentemente – ed è il caso di dirlo – non hanno nessuna relazione ma che, invece, si determinano mutualmente.

A.C.: Ad essere affascinante, in questo, è che dentro la topografia di punti che è lo spazio il corpo diventa un’estensione, una parte di una mappa che lo eccede. A partire da questa condivisione di nodi e punti che dal corpo portano allo spazio e viceversa, cerco di individuare – sul piano coreografico – una partitura compositiva del gesto che mi permetta di accordare il movimento a questo orizzonte di senso. Ciò mi offre una doppia possibilità d’intervento: partire dal corpo per arrivare – via estensione del gesto – allo spazio oppure prendere come riferimento punti dello spazio e riorientare il corpo in quella direzione, a partire dalle coordinate che la rete di connessioni individua.

E.P.: È una questione, credo, di fluidità. I punti di uno – del corpo – sono, o possono essere, nodi costitutivi dell’altro. Qui si delinea un aspetto centrale: la relazione tra la dimensione molecolare e quella molare cui la formulazione della nozione di piega, così come la impieghi, fa da denominatore comune.

A.C.: Dentro questo bacino di riflessione lo spazio urbano gioca un ruolo centrale: si tratta di indagare le correlazioni tra macroeventi in grado di trasformare e condizionare i corpi che li abitano. La nozione di piega nasce con l’esigenza di far coesistere le due scale e trasporle, in equivalenza, in un unico territorio. In scena, la piega è resa visibile, come in un negativo, al pubblico che, a sua volta, innesca un nuovo processo, una nuova geografia emozionale.

Soglia #2

Appena passata Stirling Rd, mi trovo davanti i Block 45, 48 e 49. Sono unità abitative molto semplici e piccole, solo due o tre stanze. Fuori dalle finestre ci sono dei pali in legno posizionati in modo orizzontare che ricordano delle lance. Su di queste vengono stesi i panni. Se guardiamo il palazzo da sotto, i panni stesi sembrano delle bandiere. Dopo aver attraversato il ponte sulla Queensway, la strada che divide in due Queenstown, ci troviamo prima davanti ad una chiesa e poi ad un tempio Indu. Più in fondo un tempio taoista e ancora più in là, una grande Moschea. Non vedo molta gente in giro, le uniche persone che incontro sono anziani. Dopo alcune centinaia di metri attraversiamo altri Block di diverse forme e misure. Camminando ancora, ci troviamo davanti al Tanglin Halt Estate, un palazzo molto alto della seconda generazione. Saliamo fino al 40esimo piano per vedere tutta Queenstown e gran parte della città. La griglia urbana è regolare e dall’alto, la distribuzione dei flussi sono chiaramente visibili. Lo spazio urbano, è controllato al millimetro. I block sono incastonati nel verde, ma è un verde rigorosamente curato. Cerco di decifrare ogni punto geografico fissato dal mio sguardo. Si vedono i margini dell’isola e alcuni isolotti. Le autostrade disegnano una fitta maglia di segni che incrociano in più punti dell’isola. Il porto si trova sulla punta meridionale, le vaste aree industriali a ovest, e l’aeroporto a est.

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E.P.: Passiamo al piano della composizione del movimento per la scena. Come definisci gli elementi di questa rete interna/esterna al corpo nella definizione dello spazio?

A.C.: Ci sono diversi modi di condurre questo processo. Per esempio la definizione di una griglia articolata intorno a due possibilità: dotare il danzatore di una serie di punti o aree del corpo e da lì operare le connessioni fino a farne emergere una partitura; il movimento si origina, in questo caso, dalle relazioni. Si tratta qui di lavorare con elementi coreografici molto specifici, forme chiuse, come un vocabolario.

Inverse power of wavelenghts, foto di Alessandro Carboni

E.P.: Come l’immaginario macroscopico del corpo nelle megalopoli entra nella composizione del gesto?


A.C.: Un lavoro come Inverse Power of Wavelenghts (2009) dal progetto What Burns Never Returns project si muove esattamente nella logica del negativo, dello spazio come calco. Invertire lo sguardo per trovare la trama della realtà. Si tratta di un lavoro sulla piega in cui la composizione coreografica rielabora e rimette in gioco elementi provenienti da una scala diversa, quella della metropoli per esempio. Questo processo mi permette di estrarre dei filamenti da un contesto e ricomporli in un altro sempre stando all’interno di una logica della modulazione tra le due polarità del micro e del macro. È qui che gioca il suo ruolo il tempo: nel permettermi di pensare al corpo come una rete dinamica. Con il tempo si gioca l’esplorazione delle nuove relazioni, la loro proiezione. È il tempo a dettare le nuove e possibile relazioni con lo spazio che deve emergere a partire dal gesto.

Inverse power of wavelengths è un lavoro “molecolare”, uno spatial frame, che mi ha permesso di ripensare allo spazio urbano non come qualcosa di dato, ma come luogo di esperienza e produzione in cui il corpo, nelle sue diverse specificità, diventi l’agente, l’asse portante di discussione e di cambiamento. L’indagine ha cercato di riflettere su questi temi creando un territorio ibrido e transdisciplinare di sperimentazione in cui l’osservazione e la documentazione urbana sono stati gli elementi chiave di una interpretazione visiva e performativa. L’obiettivo era arrivare a lavorare – traslandolo – sulla questione della folla concepibile come moltitudine composta da singole unità ma anche corpo unico. È qui che si affaccia all’orizzonte la questione centrale della soglia: quando una moltitudine diventa folla? Quando questa, invece, si comporta in maniera univoca…quali sono gli elementi che permettono all’unità di lavorare in armonia e quali sono, allora, gli elementi scatenanti che spezzano questa armonia. Si tratta, in altri termini, delle modalità che permettono ad un sistema di auto-organizzarsi. Ritroviamo qui il principio di complessità su cui ci stiamo interrogando. Questo si riflette sulla capacità di un individuo – in uno spazio urbano – di essere in concerto con altri. Quali leggi regolano questo e quali leggi lo infrangono? Portando in scena questa proiezione del corpo nella moltitudine, il principio era quello di creare un buco, un vuoto.

 

Un’altra modalità, invece, è – come nel caso del recente Lâu Nay (20010) – quella di partire dallo spazio. Lâu Nay nasce dopo il mio viaggio in alcune megapoli del sud est asiatico. Durante questo tempo di perlustrazione/azione, ho raccolto le energie e le tensioni della città attraverso pratiche di esplorazione urbana sperimentali, utilizzando il corpo come strumento di analisi dello spazio. Al rientro ho composto una coreografia per una danzatrice basata sulla ricostruzione di una “geografia” mentale di luoghi, percezioni e frammenti mnemonici del viaggio. In Lâu Nay, la coreografia diviene strumento per indagare, codificare e studiare i processi cognitivi, percettivi e mnemonici. Il corpo della danzatrice diventa il territorio su cui proiettare e traslare gli spazi da reali a metaforici e psichici: riempire lo spazio di vestiti e capire le possibili deformazioni del corpo a partire da un corpo coperto. Si tratta qui dell’emersione della forma a partire da una massa indistinta. Si tratta, se credi, dell’emersione di una rete-corpo di riferimenti possibili in una logica di articolazione dell’immagine. Si passa così da una bidimensionalità a una tridimensionalità. Da una orizzontalità a una verticalità del corpo.

E.P.: Che relazione c’è tra questo processo che ben descrivi e la nozione di forma? Cosa succede alla forma nel passaggio tra micro e macro? Esiste un punto medio in cui si dà riconoscibilità della forma (del corpo, della città). Oltre questo grado, per sottrazione o per sovraesposizione, il micro e il macro sono due modi in cui la forma esplode…

A.C.: …è vero, comunque è sempre la relazione tra le parti a dettare la forma. Tuttavia questa relazione è costitutivamente instabile…

E.P.:c’è un termine interessante in questo senso: il formante. Ciò che è sempre in formazione prima e oltre la forma: dice del riposizionamento di ogni parametro e di ogni relazione.

A.C.: Il formante è, allora, la traiettoria che mette in relazione due punti. E qui, che si tratti di due punti di un corpo o di una strada, il principio non cambia. I punti rimangono, cambia l’articolazione formale dello spazio che ne deriva. È la natura stessa del movimento: l’instabilità continua, variabilità continua all’interno delle quali si disegnano le traiettorie. È qui che la forma si salda al tempo. La variazione è, anche, variazione di tempo. Sovrapposizione di variazioni, un’altra rete.
Ora, con il nuovo lavoro, vorrei andare in questa direzione. Indagare la relazione tra un interno e un esterno del corpo, ipotizzare una serie di griglie interne/esterne al corpo: vedere come posso idealmente entrare dentro al corpo e estenderne la linea al di fuori per qualche metro. Cosa succede in questo caso? Che relazione si istituisce sulla scala di grandezza tra un micro e un macro? Quali qualità di spazio si delineano?

È qui che agisce la proiezione del corpo cui facevi riferimento e, al contempo, la questione del luogo come spazio intimo del corpo che ridisegna il topos, lo spazio geometrico (e viceversa). Come dare a vedere la proiezione del corpo che abita lo spazio prima di andarci fisicamente, occupare lo spazio, abitarlo prima di andarci con i muscoli?

E.P.: Si tratta davvero dell’emersione di dimensioni spaziali che si rendono visibili, che prendono forma. Tra un interno e un estero. È lì che intravedo quel punto di continuità, sul quale ci interroghiamo costantemente, tra le due dimensioni.

A.C.: Qual è allora secondo te la soglia in cui non si prende più in considerazione lo spazio? Interrogandomi sulla macroscala, entro profondamente dentro questi aspetti e l’interrogazione è posta sulle relazioni tra ciò che avviene a una distanza incommensurabile da me ma che, nel contempo, mi determina…ha con me una relazione. Quindi come posso io seguire questa griglia di relazioni che da un fenomeno arriva a me e viceversa…

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Soglia #3

  • Ancora più avanti, nella decadenza totale, la Food Court, forse l’unico vero spazio sociale rimasto nell’intera area. Qui gli abitanti di Queenstown si incontrano, mangiano, condividono i tavoli e passano gran parte del tempo.  Mentre passeggio, uno dietro un banco che vendeva pollo e riso, mi guarda e poi mi dice: “sono andati via, vedi?”. Poi continua, “da quando hanno aperto il Casinò(9), la gente non ha più soldi”.

La Food Court è spazio caotico ma vibrante. Poco più avanti, il Town Centre. Completamente abbandonato, ha ancora le insegne del cinema e della pista da bowling. Mi fermo e chiudo gli occhi. Cerco di immaginare lo spazio quando era vivo, in uso. Sovrappongo nella mia mente, le immagini delle fotografie degli anni ’70 che avevo visto pochi giorni prima in vari libri sulla Queenstown. Per poco riesco a vedere le persone in fila al botteghino del cinema, riesco a sentire il rumore della fontana di fronte all’entrata; riesco a vedere e sentire le auto che parcheggiano e il rumore delle persone che corrono perchè sono in ritardo per lo spettacolo. Cerco di ripristinare i flussi, le presenze, i corpi del Town Centre.

 

E.P.: Sollevi qui, a mio avviso, una questione relativa all’attenzione e alla coscienza. È la questione del subliminale e di come, in realtà, le cose ci terminano senza che noi ne abbiamo una reale consapevolezza: l’entanglement di cui sopra. Credo che la soglia di coscienza di ogni fenomeno sia sempre una soglia intermedia. Questo significa che esistono – al di sopra o al di sotto di questa soglia percepibile – fenomeni di cui non abbiamo coscienza ma che comunque determinano, a gradi variabili, i nostro comportamenti. Pensa al suono subliminale. Semmai, per potersi canalizzare su queste aperture è necessario cambiare la percezione. Se cambi la percezione cambia anche l’apertura della rete delle relazioni. Si tratta di poter percepire oltre. Allora, così come nel micro ridetermini la tua percezione e dunque la forma del tuo corpo, così su scala macroscopica sei portato a rinegoziare la tua posizione in uno spazio sociale su scala macroscopica. Siamo a un’altra variazione di complessità.

A.C.: Il corpo, così facendo, diventa una sorta di transfert tra il micro e il macro. Si fa logica attraverso la quale dare a vedere questa variazione di scala. È qui che il corpo si fa formante pronto a tracciare geografie spaziali che dal suo interno disegnano l’esterno.Il micro delle variazioni del respiro o del movimento, diventano macro nella forma architettonica del corpo, come esposto a una lente di ingrandimento. Questo è, dal mio punto di vista, il ruolo della composizione coreografica. Qui gioca un ruolo essenziale il concetto di piega come modulazione dei due emisferi. Nella piega si dà lo spazio. Ancora una volta, la percezione di questi processi deriva dalla consapevolezza di una soglia che può e deve essere spostata, ridefinita. Tra macro e micro, tra uno e moltitudine.

 

La dimensione urbana è questione di moltitudine, di corpi che fanno e concertano lo spazio, che ne ridefiniscono la qualità. Il corpo allora si fa filtro di questi passaggi, dinamiche, flussi. Mi interessa capire quanto questo cambiare i contesti di immersione del corpo cambi anche i parametri di traslazione di queste energie e forze esplorate.

odb_Kuala Lumpur, foto Dickson Dee

E.P.: Credo che sia una questione di equivalenze: prendiamo l’esempio di una metropolitana all’ora di punta. Singapore. Spazio di abitabilità dei corpi è nulla. Senso di soffocamento. Evidentemente la percezione del movimento si ridefinisce. Come far si che questa condizione passi sulla scena,dunque  in una scala diversa. Significa traslare una sensazione spaziale. Quali strategie adottare per far si che la logica del macro(spazio del corpo nella metropolitana) passi nel micro (spazio del corpo in scena)?

A.C.: Per fare questo, serve un radicale ribaltamento di prospettiva. Si tratta di un continuo negoziare il proprio posizionamento, la propria collocazione spaziale. Quanta materia spaziale devo ridefinire, colorare tra il punto dell’orizzonte che prendo in considerazione e un punto del mio corpo. Il contesto urbano, metropolitano, mi obbliga a cambiare i parametri attraverso i quali penso il corpo e il suo spazio, la sua geometria.Coreografare è, dunque, ridefinire la percezione di uno spazio, disegnare un territorio inespresso a partire da un territorio dato.Ci si deve sempre accordare con lo spazio, sentirlo.Si tratta di dedurre delle logiche dall’osservazione di fenomeni a partire dai quali solo dopo posso estrarre degli elementi da rimettere in gioco sul piano della composizione scenica. Ovviamente tutto poi torna al corpo, come se da questo partissero delle direttrici di esplorazione per poi tornare al corpo sotto altri aspetti. Il punto ruota attorno alla stessa interrogazione: che cos’è e come si articola la complessità e come questa ha a che fare, a tutti i livelli, con il corpo.Nella metropoli, che tensione passa tra me e un altro passante per la strada? È possibile restituire quella percezione, la temperatura di quel processo, o è una cosa che si verifica e si esaurisce nell’istante? Qual è la mia capacità di ripristinare – in un altro spazio – quella percezione avvertita?

Il problema, però, è la possibilità di ripristinare la stessa tensione, la stessa atmosfera in un altro contesto. Si tratta di dar forma a percezioni rimescolate. È qui che si innesta la piega di cui prima parlavo, nel momento in cui il micro deve transitare nel macro e viceversa. È qui che andare a fondo nell’esplorazione della percezione significa transitare tra soglie diverse. Percepire è far emergere delle realtà, degli spazi prima inesplorati.

.Soglia #4

Riapro gli occhi, davanti a me un indiano che mi fissa incuriosito. Continuiamo a camminare fino all’ultimo Block 96. Oltre il Towncentre, mi aspettava una sorpresa molto curiosa. Un gruppo di uomini, seduti in cerchio su delle sedie in plastica, ascoltano silenziosamente il cinguettio di decine e decine di piccoli uccelli in gabbia. Osservo l’immagine: e’ surreale! Ogni piccola gabbia è appesa al soffitto su delle barre in ferro numerate. Lo spazio è quadrato e acusticamente perfetto. Chiedo spiegazioni a Kwek Li Yong. Mi dice che ogni giorno alcuni abitanti di Queenstown vengono qui ad ascoltare il canto degli uccelli. Kwek Li Yong mi dice che, probabilmente, ognuno di loro è anche il padrone di uno più uccellini. Il cinguettio è una densa pasta sonora in cui si possono sentite piccole variazioni melodiche. Alcuni di loro chiudono gli occhi, cercando di ascoltare al meglio il concerto e tutta la gamma di frequenze che si spostano rapidamente nello spazio. Mi siedo e partecipo anche io al rito.

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E.P.: Questo credo possa avvenire solo a una condizione: modificare costantemente il proprio assetto percettivo; le tecnologie, come tu le pensi, servono a questo, a entrare a fondo – come un bisturi – nella percezione.

A.C.: Il passaggio di scala attraverso il punto di equilibrio della piega è quello di ricostruire la logica con cui ho sentito certe percezioni in un contesto e trasporle, in equivalenza, in un altro ambiente. Allora è qui che ho bisogno di tirare dei punti nello spazio e metterli in relazione con altrettanti punti del corpo per vedere quale tracciato, quale griglia ne emerge. Tutto questo deve poi diventare, necessariamente, pensiero coreografico. Lo spazio urbano, ad esempio, non viene rappresentato per quello che è – come nelle mappe geografiche – ma con una traslazione degli spazi da reali a metaforici.

Parlo, a questo proposito, di coreografia cognitiva. Gli sviluppi nel campo della biologia molecolare, biochimica genetica, scienze cognitive e neurologia – come già ricordavi – hanno esteso e amplificato le conoscenze sulla percezione e apprendimento, le possibilità e la concezione stessa di corpo. All’interno di questo frame di ricerca intendo il processo coreografico come un sistema di apprendimento: un modello di interpretazione della realtà che poi passa da un processo di ridefinizione. Lo spazio è il prodotto visibile di tutte queste correlazioni.

odb_Hanoi, foto di Alessandro Carboni

E.P.: La percezione, così definita, è un prisma. Solo in essa le cose si saldano le une alle altre in una rete estesa a variabilità infinita. Solo così possiamo istituire una continuità tra gradi di complessità differenti e mettere in correlazione la dimensione molecolare delle cose (la percezione per il corpo, la struttura della materia e le atmosfere per gli oggetti) con la loro espressione molare (l’architettura del gesto per il corpo e i flussi per le megalopoli) nell’esplorazione di nuove dinamiche spaziali.

A.C.: É nella piega che si verifica questa inversione: da sentire, percepire, si passa ad un far sentire, far percepire: far vedere le variazioni di scala in un cristallo di tempo.

Enrico Pitozzi insegna “Forme della scena multimediale” presso il Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna e “Estetica delle interfacce” presso l’Accademia di Brera. È stato visiting professor presso la Faculté des Arts de l’Université du Québec à Montréal – UQAM e tiene seminari e conferenze presso l’Universidade Federal de Bahia e l’Universidade Federal do Rio do Sul do Porto Alegre in Brasile, oltre che in Istituzioni e Università europee. È vice-caporedattore della rivista Art’O. È autore, con Annalisa Sacchi, diItinera. Trajectoires de la forme Tragedia Endogonidia, Arles, Actes Sud, 2008 e ha pubblicato diversi testi, in ambito internazionale, dedicati alla scena performativa contemporanea. É in preparazione la monografia Sismografie della presenza, (autunno 2012) e una dal titolo Spectra (settembre 2012) dedicata alla formazione giapponese dei Dumb Type oltre a un volume dedicata al lavoro della coreografa Myriam Gourfink (2013).