TACTILE EYES – HAPTIC VISUALITY
I miei occhi non hanno abbastanza mani. EXHIBIT B
di Giulia Grechi

§ Mercoledì 27 Novembre 2013, ore 17.00. Parigi. Lontano dai musei.

Arrivo in ritardo allo Spazio 1041, è in un quartiere che non conosco, dall’altra parte della città e fuori dai miei circuiti abituali parigini di turista o ricercatrice. è già buio. Cammino svelta e penso che qui siamo lontani dai musei. Lontano dal Quai Branly, che si tiene ben stretto addosso il suo peccato originale di compiacimenti coloniali. E lontano dalla Citée de l’Immigration, che ho visitato ieri e che mi ha molto stupito… inaugurato nel 1931, il Palais de la Porte Dorée, costruito per essere il museo delle colonie francesi e per rappresentare la storia delle conquiste coloniali, svuotato dei suoi reperti in seguito all’apertura del Quai Branly, è diventato dal 2007 la sede del racconto delle “immigrazioni” in Francia di cittadini provenienti da altri paesi europei e extra-europei. Un monumento della cultura coloniale francese ospita un museo contemporaneo sulle migrazioni, e questo traccia chiaramente una mappa di relazioni tra quella storia e questa, un margine abitato e produttivo. Un museo molto istituzionale ma estremamente interessante, che espone le sue radici coloniali, esplicite nell’architettura e nei decori dell’edificio, e le pone in una relazione diretta con il discorso migratorio, intrecciando le opere di artisti contemporanei della diaspora come Zineb Sedira con il racconto di soggetti migranti sulla loro molteplice appartenenza culturale.
Arrivo allo Spazio 104 con questi pensieri, e mi stupisco di nuovo. Questa volta da un altro margine: da un edificio postindustriale alla giuntura tra il centro e le vicine banlieues. Lo Spazio 104 definisce se stesso come uno spazio artistico di servizio pubblico, uno spazio interstiziale, interdisciplinare e interculturale, che ha a cuore di lavorare sulla costruzione di un rapporto di prossimità con i suoi “spect-acteurs”, i cittadini e il territorio intorno ad esso.
Entrando, l’effettiva commistione tra persone di ogni appartenenza culturale, rumorosamente impegnate le une accanto alle altre nelle attività artistiche più disparate nell’enorme navata centrale (sulla quale si aprono negozi, biblioteche, librerie, studi d’artista, sale prova con diverse attrezzature, sale posa e spazi espositivi e performativi) mi conferma che quello che chiamiamo postcolonialismo è già in atto e si trova lontano dai musei, nei margini. Di fronte a questa eterogenea vitalità mi pare piuttosto ironico che, dalla sua costruzione nel 1837 fino agli anni ’90, questo edificio fosse destinato ai “servizi funebri comunali” (forniva bare, carri funebri e portatori al cimitero a tutti i cittadini che non potevano permettersi economicamente un funerale), garantiti a tutti i cittadini a prescindere dalla religione, dallo stato civile e dalle cause della morte. L’edificio tuttavia non ospitava mai i cadaveri. Lo ha fatto solo in situazioni estreme, comprese ovviamente le guerre coloniali: “ainsi, au lendemain de la Seconde Guerre mondiale, ainsi que des guerres d’Algérie et d’Indochine, des dépouilles des victimes furent présentées aux familles sur le site”2. Un edificio intero consacrato per anni ad una specie di democrazia della morte, che oggi ospita uno spazio pubblico artistico ed espositivo… non posso fare a meno di pensare a come Nancy parla della morte, come di ciò che viene ridotto alla finitezza, separato e insieme anche posto fuori, quindi mostrato – “l’uscita dall’in-sé, l’ex-sistenza, l’ex-posizione”3 – la necropolitics di cui scrive Mbembe4 anche a proposito delle pratiche museali, che neutralizzano la forza vitale dell’oggetto che espongono e lo rendono inoffensivo, grazie al loro potere discorsivo.
Ma qui siamo lontani dai musei.

EXHIBIT A B and C, Brett Bailey
http://www.thirdworldbunfight.co.za/productions/exhibit-a-b-and-c.html

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§ Ore 17.30. Spazio 104. EXHIBIT B.

Sono allo Spazio 104 con una prenotazione per le 17.00. Exhibit B di Brett Bailey, artista sudafricano che dirige la compagnia THIRD WORLD BUNFIGHT, il cui lavoro si posiziona al confine tra arte e performance, e intorno alle questioni postcoloniali nella relazione tra l’Africa e l’Occidente. Era necessario prenotarsi: si tratta di una installazione che può essere fruita ogni venti minuti circa da un massimo di 25 persone. Dopo una breve coda, durante la quale osservo e ascolto lo Spazio 104 nel suo caos promiscuo, vengo guidata insieme alle altre persone prenotate in una piccola stanza piena di sedie ordinate in fila, dove una ragazza verosimilmente franco-indiana ci invita a sederci, ci prega di rimanere d’ora in avanti in rigoroso silenzio e ci spiega cosa succederà, prima in francese e poi in inglese. Dice, in modo molto serio e formale – mostrandosi visibilmente infastidita se qualcuno di noi parlotta sottovoce o scherza nell’attesa di entrare – che avrebbe chiamato con un ordine casuale i numeri scritti sulle sedie, e solo quando avessimo sentito chiamare il numero della nostra sedia, avremmo potuto alzarci ed entrare nello spazio dell’installazione. Da soli, uno alla volta.
Alle pareti sono appesi dei cartelli che recitano: “EXHIBIT B is an exhibition, not a dramatic performance. Take your time at each installation. Do not feel hurried by the people behind you. The meaning is in the details and the atmosphere. Allow the story to emerge for you”.
Mi colpisce l’eterogeneità anagrafica di questa piccola comunità estemporanea che si è venuta a creare. Mi sembra ci accomuni un certo senso di spaesamento (che ci diciamo in modo confuso incrociando velocemente i nostri sguardi), l’attesa e la costrizione che ci vengono somministrate come un esercizio di scuola, e una serie di aspettative probabilmente molto diverse gli uni dagli altri. Non posso fare a meno di pensare agli “uffici immigrazione” delle questure, dove i migranti subiscono delle prassi burocratiche spesso surreali, a partire dal linguaggio burocratico stesso, dove attendono per ricevere notizie del loro permesso di soggiorno, e vengono chiamati così, con dei numeri, mai per nome.
Di certo quello che sento è che “lo spettacolo” è già iniziato. Che sono già dentro l’installazione. Che mi sto trasformando lentamente, e mio malgrado, da spettatrice (soggetto e padrona del mio movimento e del mio sguardo) in oggetto dell’opera stessa e del suo sguardo, parte di essa e della sua volontà. Sono curiosa, ma cerco anche di restare il più possibile ancorata alle mie consapevolezze intellettuali. Vengo chiamata quasi subito.
Mi sembra di entrare nella sezione africana di un qualunque museo etnografico. Lo spazio è grande e molto buio, riesco ad avere uno sguardo di insieme solo su due installazioni che mi sono davanti, e intuisco che c’è un seguito, di là. La sola illuminazione è diretta sulle installazioni, come fossero capolavori o artefatti di inestimabile valore. Appena entro mi colpiscono delle voci, un coro che canta una sorta di gospel, o un inno religioso… ne ho un’impressione rassicurante, di riconciliazione. Non vedo da dove viene il canto. Davanti a me un classico displaying di museo etnografico o di storia naturale, con animali impagliati e artefatti di vario genere, e in fondo due esseri umani, un uomo e una donna, esposti seminudi, in piedi, all’interno di nicchie. Due esseri umani esposti davanti a me, esattamente come accadeva tra ‘800 e ‘900, quando freak show, ethnic show e musei etnografici e di storia naturale hanno contribuito a legittimare l’imperialismo europeo sul resto del mondo, attraverso un processo di oggettificazione e feticizzazione della differenza.
Questi due esseri umani, immobilizzati in una sorta di tableau vivant, sono vivi, sono persone in carne ed ossa, e mi stanno guardando. Mi seguono con lo sguardo mentre mi sposto nello spazio, davanti a loro. Non smettono di farlo, e neanche io. è molto difficile descrivere la sensazione di disagio, di emozione, di complicità o, in una sola parola, di profonda intimità che mi ha preso nel restare dentro il filo teso di quel contatto visivo. Ho sentito sfasciarsi e poi ri-scriversi la sintassi di un intero trattato di Oculesics, nella traiettoria carnale di quello scambio di sguardi. Un’intimità esposta alla propria vulnerabilità, allo shock culturale del sentirsi guardati dagli “oggetti” di una esposizione, che reclamano la loro soggettività e uno spazio di narrazione. Improvvisamente sono io, lo spettatore-soggetto-dello-sguardo, ad essere oggetto dello sguardo degli “oggetti” mostrati. Il loro sguardo incontestabilmente mi ri-guarda5.
Davanti a me ci sono due sedie vuote, rivolte verso l’installazione. “L’origine della specie” è il titolo. Nella didascalia si legge: “mixed media: various trophies (antelope heads, 2 Namas, cultural artefacts, snake etc.), vitrines, anthropological paraphernalia, spectator/s”.
Non posso fare a meno di sorridere per questa trappola nella quale mi trovo catturata. Gli “spettatori” sono inseriti nella didascalia dell’installazione, come materiali essi stessi del displaying. Una doppia strategia che mi costringe a un posizionamento e a un rovesciamento. Mi costringe innanzitutto ad avere coscienza di me come soggetto che guarda, e del potere di questo sguardo. E mentre mi rendo conto di essere io stessa parte di questo “quadro vivente” (tableau vivant, in un senso quanto mai letterale), che mi comprende in quanto consumatore di uno spettacolo voyeuristico, mi ritrovo trasformata in “oggetto guardato” dallo sguardo vivo delle “cose” esposte.
Cosa devo guardare, dunque, che finora non sono stata capace di vedere?

§ Tra le 17.30 e le 17.50. Le immagini vedono con gli occhi che le vedono6

“La posta in gioco è visibilmente quella del rapporto tra un’occhiata e un’apertura,
tra un’orbita e un buco. Qualcosa ruota attorno allo sguardo: non basta che il quadro
si organizzi attorno a una figura, quest’ultima deve inoltre organizzarsi attorno
al suo sguardo – attorno alla sua visione o alla sua veggenza.
Che cosa vede? Che cosa deve vedere o guardare?”7.

EXHIBIT B8 è un susseguirsi di tableau vivant, che raccontano le storie irraccontabili o non raccontate del colonialismo europeo nei territori africani, e della sua spietata eredità contemporanea. Da Saartjie Bartmann a Angelo Soliman, dal Cabinet of curiosity del Dr. Eugen Fischer, professore di anatomia e rettore dell’Università di Berlino durante il Terzo Reich, ai campi di concentramento nel sud dell’Africa, dove gli schiavi scarnificavano le teste decapitate dei prigionieri per fornire ai musei europei grandi quantità di crani di “autentici africani” da esporre nelle loro teche (e spesso tuttora conservati nei sotterranei e negli archivi dei musei stessi, nel loro “cuore di tenebra”). Ma anche quelli che l’artista chiama “Found object #1”, oggetto trovato numero uno, due, tre… corpi di migranti esposti in piedi, su piattaforme e materiali di imballaggio, con a fianco una scheda di identificazione sul modello criminologico-antropometrico, a identificare le attuali politiche tattili e violente della maggior parte dei paesi europei rispetto alle migrazioni. O ancora l’installazione “Survival of the fittest”, che racconta le troppo numerose morti di migranti durante il rimpatrio forzato per il rifiuto dell’asilo o dello status di rifugiato: un interno di un aereo con un uomo legato al sedile, imbavagliato, lo sguardo vivo e fisso su di te che lo guardi, lo sguardo fisso mentre tu leggi nella didascalia il suo nome e cognome, e le ragioni della sua morte, e a fianco la lista delle “morti di immigrati verso l’Europa durante i rimpatri forzati dal 1991”.

……….MIXED MEDIA:
……….airplane seats, Somali man, shoes, packing tape, cable ties, rope etc.

……….Name: Hagos, Mariame Getu
……….Date of birth: 1978
……….Date of death: 18 January 2003
……….Country of birth: Somalia
……….Point of entry into Europe: Paris
……….Status: asylum seeker
……….Religion: Muslim

……….Reason for death: asphyxiated by French border police officers ehile resisting deportation on a Sabena Flight from Roissy-Charles de ……….Gaulle airport to Johannesburg.

I “performer” di queste installazioni sono migranti provenienti da diversi paesi dell’Africa, chiamate a far parte dell’installazione di volta in volta in ogni città in cui EXHIBIT B viene messa in scena.
Così, questa che Nancy chiamerebbe un’opera-soggetto non fa che “aprirsi e debordare in uno sguardo che non è più una sostanza ma un’apertura, che non è più un ritorno a sé ma un’esposizione di sé”9. è un ri-presentare, una messa in presenza di un passato che non passa, e che perciò rimane a incistare il presente con il suo corpo non-vivo e non-morto di fantasma.

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§ …Ma i miei occhi non hanno abbastanza mani.

“Prima di ogni altra cosa, il ritratto guarda: non fa che questo, vi si concentra,
vi si invia, vi si perde. (…) Così tutto il volto diventa un occhio (…).
Non si tratta più dell’organo della visione: si tratta di una presenza in custodia,
in agguato di se stessa e dell’altro”10.

Sono davanti all’alloggio di un ufficiale delle Forze Coloniali Francesi a Brazzaville nel 1904. Un interno di una camera, dove una schiava in catene è seduta su un letto, di spalle rispetto a me che guardo. Ha il vestito abbassato sui fianchi, la sua schiena nuda offerta alle incursioni del mio sguardo (e all’immaginazione che ci proietta sopra tutta una sceneggiatura violenta… mi sembra di vedere in quella schiena l’albero della schiena di Sethe in Amatissima11). Sul pavimento un paio di stivali da uomo buttati in modo disordinato. è rivolta verso la parete dove sono appese fotografie di ufficiali coloniali, trofei, animali impagliati, e uno specchio proprio di fronte a lei, nel quale – o meglio attraverso il quale – mi guarda.
Lo specchio, l’oggetto destinato per eccellenza all’azione riflessiva del guardarsi diventa tramite di uno sguardo spinto verso il fuori, verso l’ex-posizione di una storia e la costruzione di un campo relazionale, nel quale io che guardo mi trovo catturata. In effetti, questo tableau vivant, proprio come un ritratto, “non è anzitutto, alla fine, un incontro?”12. Quello sguardo mi tocca letteralmente. Non è fatto solo di vettori di direzione: istituisce una distanza e proietta in quello spazio una traiettoria di desiderio. Quello sguardo non smette di interrogarmi, non si abbassa e non si muove se non per seguire il mio. Sono costretta a spostare tutto il mio corpo per cercare di sottrarmi, quando diventa difficile da sostenere. Mi sposto ai margini della stanza, ai margini dell’installazione: voglio vedere gli “altri”, gli spettatori come me, voglio vederli guardare, e voglio vedere cosa sentono ad essere ri-guardati così. Ma il campo relazionale è bidirezionale, non permette nessun terzo incomodo, e lo sguardo della donna mi segue fino ai margini estremi del suo campo visivo. Non mi lascia andare. L’unico modo per uscirne è che sia io ad abbassare lo sguardo, ad uscire volontariamente dal suo campo visivo. Il perturbante è ritrovarsi stretta nella traiettoria di uno sguardo interrogativo e assertivo insieme, che non lascia corridoi laterali di fuga. Il solo modo per smettere di sentirti interrogata da quello sguardo è smettere di guardarlo, negarlo. Allora può appuntarsi sullo sguardo di un altro o un’altra, come uno spillo.
Il senso di questa vertigine catottrica è molto oltre lo sguardo stesso, è nell’e-mozione che suscita e che mi spinge a mettere in movimento tutto il mio corpo, ad attraversare un shock percettivo, ad accettare che “nothing is secret, unknowable, divided or hidden, except the unfathomable sadism of scopophilia and epistemophilia”13. Si tratta allora forse di far emergere l’inconscio della nostra cultura coloniale, mettendo in discussione anche il primato percettivo che la nostra cultura ha assegnato alla vista, come il senso privilegiato della percezione e della relazione, del potere di identificare o disconoscere l’altro. Lo spettatore è l’unico soggetto che si muove in EXHIBIT B, ed è proprio questa sua e-mozione, questo movimento centrifugo, che consente di passare dal sight-seeing, “il convenzionale giro turistico che inchioda al puro piacere scopico”14, al site-seeing, dove il “site” è uno spazio geografico (lo spazio dell’installazione e il suo contesto) ma anche uno spazio culturale di continua ri-scrittura del senso, della memoria e della storia.
Passare così dalla centralità dell’occhio e della sua ottica, alla possibilità di “entrare in contatto con”15, cioè all’aptico. Recuperare quella benjaminiana dimensione tattile di appropriazione del mondo che mette in relazione corpo (soggetto incorporato), e-mozione, spazio e memoria. EXHIBIT B disegna una rete intricata di relazioni che costringono lo spettatore a passare continuamente da una prospettiva ottica a una prospettiva aptica, costruendo “uno spazio continuamente ridisegnabile, dove molte storie «hanno luogo» e prendono il posto della memoria”16.

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§ Post Scriptum. Non ci si ricorda da soli.

Lasciando EXHIBIT B, finalmente incontro l’origine del canto che ha accompagnato tutto il mio percorso, ripetendosi continuamente. L’ultima installazione è il Cabinet of curiosity del Dr. Fischer.
Alla parete tre fotografie di teste di Namibiani decapitate (1906) e di fronte, su quattro piedistalli, quattro teste poggiate, vive: un coro di cantanti della Namibia canta ripetutamente gli stessi canti. La ripetizione qui sembra legata a quella “coazione a ripetere” che Freud associava con la memoria traumatica. O piuttosto è l’insistita possibilità di un “lavoro della memoria” che porti alla luce il rimosso e che faccia intravedere la possibilità di un perdono17?
EXHIBIT B è un’installazione ipermnesica. Tende a una continua produzione di rimemorazioni. Non come fa un monumento, che serve letteralmente a richiamare un ricordo: piuttosto si tratta di un rammemorare che richiama lo spettatore a se stesso, alla propria coscienza storica. EXHIBIT B ex-pone,  rende percepibili i soggetti che sono assenti “dal dire della storia”18, in quanto la loro storia è stata oscurata nella costruzione della Storia, e in quanto la loro voce spesso resta inascoltata, non registrata nell’economia mondiale del discorso19.
E’ un’interrogazione del futuro, una domanda che viene dal futuro, a chiedere conto di una promessa non mantenuta, a curare le ferite della memoria dei paesi che hanno difficoltà a relazionarsi con il proprio immaginario coloniale, a comprenderne la relazione spietata con il presente. Il valore terapeutico di questa apertura può curare quelle che Ricoeur chiama “le patologie della coscienza storica” dei paesi ex-colonizzatori, con il loro troppo-poco-di-memoria, e dei paesi ex-colonizzati, con il loro troppo-di-memoria – entrambe patologie della memoria ingombranti, decisive rispetto all’identità culturale personale e collettiva di una comunità, eppure “curabili”.

Ricoeur scrive che non ci si ricorda da soli, ma con l’aiuto dei ricordi altrui. La testimonianza ha valore come struttura di transizione tra la memoria e la storia, e stabilisce una relazione fiduciaria, di credibilità (non di somiglianza o di verità): il testimone ci fa in qualche modo assistere al fatto raccontato e così il suo ricordo ritorna come immagine.
Ho cercato di far emergere qui un doppio livello di testimonianza: quella dei performer di EXHIBIT B (assolutamente indiretta eppure in qualche modo stringente) e la mia che racconto l’esperienza di “fruizione” dell’installazione nella forma intima e problematica del diario di campo di un antropologo, dandole dignità non solo ai margini del discorso (come nelle etnografie classiche, dove qualche nota più intima e un linguaggio più evocativo potevano essere utilizzati solo nelle introduzioni) ma al suo centro. L’uso del diario di campo come espediente narrativo mi ha inoltre consentito di far emergere la mia stessa esperienza aptica nello spazio dell’installazione: “prima di parlare, il testimone ha visto, sentito, provato (…), insomma è stato «impressionato», colpito, ferito, in ogni caso raggiunto e toccato dal fatto. Ciò che il suo dire trasmette è qualcosa di quell’esser-impressionato da20.
La testimonianza infine mantiene tutta la problematicità di un discorso fondato sull’affidabilità e sulla credibilità, piuttosto che sulla veridicità, e questo consente di aprire uno spazio sospeso, plausibile, contestabile di continua ri-scrittura della storia21.
Forse attraverso questo doppio livello di testimonianza, è possibile costruire una distanza tra la memoria e la storia, in relazione al presente, in modo da trasformare il tempo traumatico della ripetizione (la coazione a ripetere di Freud) in un tempo di emersione (Benjamin), in cui curare le ferite della memoria, e tutto quello che brucia nel frattempo.

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This Article ensued from the Research Project MeLa – European museums in an age of migrations, funded within theEuropean Union’s Seventh Framework Programme (SSH-2010-5.2.2) under Grant Agreement n° 266757.

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1 Ringrazio Carolina Farina per avermi segnalato Exhibit B e avermi invitato a Parigi a vederla, e Viviana Gravano che ha condiviso con me questo viaggio, e molte delle riflessioni che ne sono scaturite.
2 http://www.104.fr/
3 J. L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002. p. 42.
4 A. Mbembe, “Necropolitics”, in Public Culture 15 (1), 2003. pp. 11-40.
5 “Non posso guardare senza che ciò mi riguardi”. Nancy, op. cit., p. 58.
6 J. Saramago, Cecità, Feltrinelli.
7 J.L. Nancy, op. cit., p. 16.
8 Dal sito dell’artista: “This is an expanding series of works: EXHIBIT A: Deutsch-Südwestafrika draws together several threads concerning European racism towards Africans from the mid 19th century to the present. It opens the wounds of ethnographic exhibitions, social Darwinism, and the increasingly xenophobic policies of the EU. Made for festivals in Austria and Germany, it focuses on the imperial moment in German South West Africa (Namibia), and the atrocities committed by German colonial forces. EXHIBIT B: Paradis perdu, made for Belgium and France, widens the lens to take in both the Belgian Congo (DRC) and the Republic of Congo (‘Congo Brazzaville’). Much the same brutal scenario of exploitation of resources (ivory, rubber and timber) and people occurred in both these neighbouring Congo territories during the imperial period that followed the Scramble for Africa. EXHIBIT C (2015) will build on EXHIBIT B to include the British, Portuguese and Italian colonial excursions in Africa.
Spectators enter the site-specific location one-by-one and travel through the rooms of the exhibition. The performers, trapped in tableaux vivants, stare back. In Vienna the work was presented in an abandoned wing of the ethnographic museum in the Hoffburg Palace, in Braunschweig in an underground ice store, and in Brussels in a ruined gothic church. The work is performed by a choir of 4 Namibian singers, and 14-16 African immigrants seekers living in the host city”.(http://www.thirdworldbunfight.co.za/productions/exhibit-a-b-and-c.html#12)
9 J.L. Nancy, op. cit., p. 62.
10 J.L. Nancy, op. cit., p. 55, 58.
11 T. Morrison, Amatissima, Frassinelli.
12 J.L. Nancy, op. cit., p. 63.
13 C. Pajaczkowska, “It is still snowing”, in I. Chambers, G. Grechi e M. Nash, The Ruined Archive, in corso di pubblicazione per le edizioni del Politecnico di Milano.
14 G. Bruno, L’atlante delle emozioni, Mondadori. p. 6.
15 Ivi.
16 G. Bruno, op. cit., p. 199.
17 P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, Il Mulino.
18 M. De Certeau, L’absent de l’histoire, Tours, Mame, 1973.
19 I. Chambers, introduzione a The Ruined Archive, op. cit.
20 P. Ricoeur, op. cit., p. 18,19.
21 Ivi.