§Adolescenze
Adolescenza e pedagogia decoloniale
di Diana Pacelli

Quando nel 2001 iniziai a studiare Lettere Moderne, la domanda che ricevevo incessantemente era se volevo diventare insegnante. No, non lo volevo. Ho sempre ritenuto l’insegnamento una professione di enorme importanza che richiede vera e propria vocazione. E io, questa vocazione, non sentivo di averla. Da allora mi sono laureata e specializzata in Scienze delle Comunicazioni, ho fatto attivismo con Greenpeace, in carcere, nei sindacati di base, ho iniziato a fare arte, mi sono specializzata in Arte Pubblica. Mi sono trasferita in Germania, ho imparato il tedesco, la mia arte ha assunto una predominante nota di critica sociale, i miei lavori si sono smaterializzati, divenendo sostanza interlocutoria. Contemporaneamente la mia identità si frantumava. E facendolo si moltiplicava, si estendeva, si ramificava. In questo processo ho re-imparato decine di volte ad essere me stessa e sono tornata ad essere decine di volte adolescente. 

Poi c’è stata la pandemia, che ha esacerbato la precarietà esistenziale, propria della vita di gran parte delle artiste e degli artisti, tra cui la mia. Ho quindi deciso di tentare il connubio tra impegno sociale e desiderio di trasmissione culturale, iniziando a lavorare come insegnante d’arte in un ginnasio della Berlino migrante. Mi sono data un anno di prova e ho iniziato con il minor numero di ore settimanali possibili. Temevo sarei stata schiacciata da responsabilità e incompetenze e non avevo la più pallida idea se sarei riuscita anche solo ad avvicinarmi alla qualità che intendevo offrire. Non solo, infatti, mi mancava l’esperienza pedagogica ma anche la benché minima competenza prossemica e pragmatica dell’ambiente scolastico tedesco.

Invece, alla fine del primo quadrimestre, ho aumentato le ore di lezione e, con l’attuale anno scolastico, ho iniziato il percorso di formazione che mi porterà a diventare un’insegnante a tutti gli effetti per le materie di Arte e Italiano.

In questo anno da insegnante ho imparato a non sapere. Ho imparato a fare di ogni falla del mio sapere uno strumento conoscitivo, che consente l’investigazione di territori sconosciuti e la rivalutazione di quelli noti. Questo mi ha consentito di avvicinarmi alle dinamiche sociali coloniali e classiste che dominano l’ambiente scolastico (e non solo) tedesco, di osservarle, di trovare alleanze ed elaborare strategie di sovvertimento. 

Ho imparato a guardare alla mia identità di soggetto migrante tra migranti, e tuttavia privilegiato, in quanto adulto, bianco, europeo. Soggetto, appunto, che per buona parte controlla la Narrazione propria e altrui. Ho imparato a mettere in discussione questa identità, a mettere da parte il mio ruolo di soggetto narrante. 

Il risultato è stato un ribaltamento di privilegi, di narrazioni, di orizzonti curricolari.


Fehlerkultur

Il mio primo giorno di lezione in assoluto, ho accolto le mie classi con una formula di saluto che mi ero fatta suggerire da una collega e che poi sarebbe diventata il mio standard nel corso dell’anno. Avevo imparato come si dice registro qualche giorno prima, ancora non conoscevo la parola d’uso per quadrimestre in ambito scolastico ed avevo capito ben poco della struttura del sistema scolastico tedesco. Non avendo a mia volta giovani esseri umani nelle mie cerchie più ristrette, mi era assai poco chiaro di cosa avrebbero potuto essere in grado, o non, i miei futuri alunni. La mancanza inoltre di un testo di riferimento, così come l’assenza di precise linee guida in un programma che, fino al corrispettivo della classe terza, è tutto basato sulla produzione pratica, non ha giocato a mio favore. 

Ne è venuto fuori un percorso curricolare puntellato da unità che ho dovuto completamente depennare dall’anno per cui erano state pensate per spostarle a quello successivo o, come nel caso del disegno anatomico, a due anni più in là. Nel corso dell’anno ho dovuto cambiare direzione ripetute volte per adattare la mia fantasiosa pianificazione alle concrete capacità ed esigenze delle nove classi nelle quali insegnavo, e comunque dei materiali preparati l’anno scorso riuscirò a riutilizzare ben poco, quest’anno. Ciononostante, i fogli di lavoro, così come tutte le unità didattiche preparate, per quanto strutturalmente carenti di competenze pedagogiche, non mancano di un’intrinseca vitalità che, a mio parere, proviene dalle due intenzioni cardine che li hanno ispirati. 

In primo luogo è stato per me di fondamentale importanza riuscire a trasmettere la percezione pratica della multiformità del concetto di arte, scardinandola dal binomio con disegno e pittura per aprire a tecniche e metodologie meno restrittive, più collaborative, concettuali ed inclusive. Parallelamente ho cercato di creare un orizzonte di senso per le singole sperimentazioni tecniche, lavorando su progetti quadrimestrali che si ponessero come sintesi delle singole unità didattiche.

All’inizio dell’attuale anno scolastico, con le classi che ho mantenuto, ho utilizzato le prime ore di lezione per condurre una riflessione sui risultati dell’anno precedente e sulle aspettative per quello in corso: sono stata felice di ricevere apprezzamenti e critiche puntuali, comprensibili e condivisibili. Alle mie classi ripeto ogni volta che ne ho l’occasione che io, come loro, sono un essere umano e, in quanto tale, commetto errori. Che se ritengono che abbia commesso un errore, devono sentirsi in diritto di comunicarlo. 

In tedesco esiste la parola Fehlerkultur, che sta per etica dell’errore e si riferisce al superamento della concezione di errore come fallimento, in favore di una sua interpretazione come momento propedeutico all’acquisizione di una determinata competenza. 

Al di là degli abusi aziendalisti e neoliberali del termine, trovo il concetto di importanza cruciale, in particolar modo per l’apprendimento – e di conseguenza per l’insegnamento – di materie come arte e lingue, nelle quali l’errore é di fatto ineliminabile. E qui vale, forse più che in altri ambiti, l’importanza di insegnare tramite l’esempio, e di farlo non solo nello specifico della materia, della classe, dei ruoli attribuiti e predeterminati di insegnante/discenti. Mostrare, come in un controluce, la propria umana fallibilità sullo sfondo delle intenzioni, esporsi come essere umano che, al netto della propria finitezza individuale, sociale e culturale vive e propaga le proprie aspirazioni: questo è l’insegnamento che, attraverso la mia persona situata di insegnante, intendo trasmettere.

frame dallo stop-motion realizzato nel 2023 da Melika e Khaled, 8C, Ernst-Abbe-Gymnasium [2]

Il ruolo delle persone adulte 

Spaziando oltre l’insegnamento specifico di materia, e l’insegnamento in toto, la domanda che ogni persona adulta in contatto con adolescenti dovrebbe porsi è, a mio parere, cosa si intende trasmettere e, in che modo la propria esperienza di persona adulta può supportare questa trasmissione. Finché, da persone adulte, continueremo infatti a percepirci come fonte indubitata e indubitabile di sapere, finché il sapere stesso, come radicali liberi e canizie, viene ritenuto essenza stessa dell’avanzare dell’età, finché infine il flusso stesso del sapere viene concepito come pedissequamente unidirezionale, domandarsi perché il mondo adolescenziale resti chiuso al nostro sguardo risulta ridondante e ottuso.

La verità è che, di questo mondo, che da persone adulte vorremmo spiegare a quelle adolescenti, capiamo noi stesse poco o nulla. E che questo mina profondamente il ruolo normativo che, in quanto adulti, sentiamo di dover assumere verso gli adolescenti. Il mondo adolescenziale è solo un altro tassello di una struttura sociale, la cui evoluzione ci appare incomprensibile, e, con molta probabilità, un tassello decisamente più integrato nel cambiamento di quello in cui viviamo noi persone adulte. 

La mia ostilità nei confronti di TikTok mi taglia fuori dalla realtà che vivono le mie studentesse, rendendomi incapace di cogliere le tendenze che agitano le mie classi, così come l’evoluzione della comunicazione visiva e della sua codificazione. Allo stesso modo, la mia ignoranza senza fondo relativa ai gusti musicali attuali mi rende incapace di intercettare il disagio e le aspirazioni che i miei alunni esprimono per mezzo alla musica. Si pensi infine, per ritornare in ambito scolastico, al significato che per le generazioni più anziane di insegnanti giocano la necessaria riscrittura e il ripensamento di pressoché tutti i materiali didattici in chiave femminista intersezionale e postcoloniale. 

Noi persone adulte dobbiamo ammettere a noi stesse e agli adolescenti che stentiamo a stare al passo. Urge, in altre parole, lo smantellamento della concezione di sapere che vede il suo culmine nel vecchio-uomo-bianco. Compianto a dovere il nostro ruolo di mentori infallibili, resta da capire dunque se e come possiamo guidare le adolescenti attraverso una realtà che per tanti aspetti è a noi stesse sconosciuta. Ciascuno per sé dovrà allora chiedersi cosa ha davvero da offrire agli adolescenti, in una realtà in cui l’intelligenza artificiale scrive testi di critica cinematografica e la gran parte della conoscenza umana é disponibile in formato tascabile tradotta in 20+ lingue.  


Decolonizzare la scuola

Alla fine dello scorso anno scolastico, dopo mesi di tentativi di adattamento dei contenuti e dei materiali didattici alla mia platea migrante e in grossa parte musulmana, sono venuta in contatto con il lavoro di una illustratrice, educatrice, nera, tedesca, impegnata nella rilettura degli oggetti culturali in chiave decoloniale. In un delicatissimo libro illustrato su Bilillee Ajiamé Machbuba [1] e sui suoi calchi in gesso, attualmente parte della collezione del museo berlinese Schloss Charlottenburg, Patricia Vester prova a sentire e raccontare la storia di questi pezzi da esposizione attraverso la voce di una bambina sottratta al suo mondo per divenire il giocattolo di un principe tedesco. In questo lavoro Patricia non solo prova a rendere i pezzi da esposizione materia viva e senziente ma traccia con essi una linea di congiunzione che la riporta alla propria storia, alla propria esperienza situata in quanto Altra. Attraverso questo ponte temporale, la narrazione pseudo-scientifica dei pezzi museali si frantuma e diviene narrazione di persone, racconto, storia condivisa. Ho contattato Patricia chiedendole riferimenti bibliografici in ambito artistico che potessero supportarmi nell’offrire alle mie classi iconologie che non alienassero le loro origini mediorientali. Le ho accennato alla mia frustrazione e imbarazzo nel riproporre un canone della storia dell’arte che implicitamente ed esplicitamente glorifica il primato della cultura occidentale, così come anche la difficoltà di improvvisarmi di punto in bianco esperta di arte islamica. 

La risposta di Patricia ha avuto la bizzarra capacità di disarmarmi e incoraggiarmi allo stesso tempo. 

Non tutto il lavoro è sulle mie spalle. Studenti e studentesse devono ricevere la facoltà di costruirsi un proprio repertorio concettuale e visivo, a maggior ragione laddove inesistente. Se materiali inclusivi non esistono, bisognerà crearli, e bisognerà farlo partendo dalle persone interessate in prima linea da questa nuova narrazione. Non me. Loro. Non l’insegnante. Lo studente.

Cosa posso fare io in questo processo? Mettere a disposizione i miei strumenti critici e creativi per loro, affinché le mie studentesse e i miei studenti possano utilizzarli secondo le loro necessità. 


Decolonizzarci la testa

Se riusciamo a reimmaginarci come gli esseri dubitativi e fluidi che siamo stati nelle nostre adolescenze, se riusciamo a ricordare la capacità di cambiare identità e l’eccitazione di farlo, la permeabilità agli stimoli esterni e la curiosità di essere, se siamo in grado di rinunciare al privilegio sociale di essere adulti e sapienti, forse possiamo scoprire che il mondo adolescente non é poi così lontano e incomprensibile. 

Rimosso il vecchio-saggio-uomo-bianco dalla piramide del sapere e ridotta la piramide in macerie, possiamo fare del sapere un oggetto fluido di contrattazione, un territorio per la sperimentazione di forme nuove di scambio e produzione culturale, attraversato da traiettorie pluridirezionali.

Note

[1] Bilillee Ajamé Machbuba nasce in Etiopia nel 1825 e nel 1837 viene venduta in schiava al principe tedesco Hermann von Pückler-Muskau, che in una lettera si riferisce a lei come “Maitresse”. Alla sua morte, a soli quindici anni, vengono effettuati dei calchi del viso e dei piedi che entreranno successivamente nella collezione del museo Schloss Charlottenburg di Berlino.
[2] Le immagini sono tratte da uno stop-motion realizzato in coppia con l’indicazione di girare una sequenza di due scene, una in interno con uso di prospettiva centrale e l’altra in esterno. Lo scopo dell’esercizio era di inserire lo studio della prospettiva centrale nell’ambito di un contesto che ne rendesse il suo utilizzo significativo. Realizzato nel 2023 da Melika e Khaled, 8C, Ernst-Abbe-Gymnasium, il lavoro narra la storia di un ragazzino che, al ritorno da un pomeriggio al parco, crolla nel sonno e si risveglia nell’oceano, dove incontra una sirena che gli dona un giocattolo a forma di pesce. Il ragazzino si sveglia e si rende conto di avere il giocattolo tra le mani. Sogno o realtà?

Diana Pacelli, nata a Napoli, è un’artista visiva e insegnante italo-tedesca che vive e lavora a Berlino.
Ha concluso la sua formazione accademica in Lettere, Scienze delle Comunicazioni e Arte Pubblica a Napoli, Milano e Weimar e ha partecipato a numerose mostre e residenze artistiche in Paesi europei ed extraeuropei. Le sue opere si trovano presso la Fondazione Fossoli, il Kramators’k Museo d’Arte Contemporanea e contribuiscono all’iniziativa Bibliothek der Künstlerinnen.