§anche le statue muoiono
Decolonize your eyes, Padova.
Pratiche visuali di decolonizzazione della città
di Annalisa Frisina, Mackda Ghebremariam Tesfau’ e Salvatore Frisina

Introduzione
Il saggio a tre voci è composto da testi e due video.[1]
Mackda Ghebremariam Tesfau’ (L’Europa è indifendibile) apre con un una riflessione sulle tracce coloniali che permangono all’interno degli spazi urbani. Lungi dall’essere neutre vestigia del passato, questi segni sono tracce di una storia contesa, che si situa contemporaneamente al cuore e ai margini invisibili della rappresentazione di sé dell’occidente. La dislocazione continua del fatto coloniale nella memoria storica informa il discorso che è oggi possibile sul tema delle migrazioni, del loro governo e dei rapporti tra Nord e Sud Globale. La stessa Europa di cui Césaire dichiarava “l’indifendibilità” è ora una “fortezza” che presidia i suoi confini dal movimento di ritorno postcoloniale.
Annalisa Frisina (Pratiche visuali di decolonizzazione della città) prosegue con il racconto del percorso didattico e di ricerca Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova, realizzato nell’autunno del 2020. Questa esperienza mostra come sia possibile performare la decolonizzazzione negli spazi pubblici e attivare contro-politiche della memoria a livello urbano. Le pratiche visuali di decolonizzazione sono utili non solo per fare vacillare statue e nomi di vie, ma soprattutto per mettere in discussione le visioni del mondo e le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo. Le vie coloniali di Padova sono state riappropriate dai corpi, dalle voci e dagli sguardi di sei cittadine/i italiane/i afrodiscendenti, facendo uscire dall’insignificanza le tracce coloniali urbane e risignificandole in modo creativo.
Infine, Salvatore Frisina (L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio) conclude il saggio soffermandosi sui due eventi urbani Decolonize your eyes (giugno e ottobre 2020), promossi dall’associazione Quadrato Meticcio, che ha saputo coinvolgere in un movimento decoloniale attori sociali molto eterogenei. Da quasi dieci anni questa associazione di sport popolare, radicata nel rione Palestro di Padova, favorisce la formazione di reti sociali auto-gestite e contribuisce alla lotta contro discriminazioni multiple (di classe, “razza” e genere). La sfida aperta dai movimenti antirazzisti decoloniali è infatti quella di mettere insieme processi simbolici e materiali.

L’Europa è indifendibile
L’Europa è indifendibile, scrive Césaire nel celebre passo iniziale del suo Discorso sul colonialismo (1950). Questa indifendibilità non è riferita tanto al fatto che l’Europa abbia commesso atti atroci quanto al fatto che questi siano stati scoperti. La “scopertura” è “svelamento”. Ciò che viene svelata è la natura stessa dell’impresa “Europa” e lo svelamento porta all’impossibilità di nascondere alla “coscienza” e alla “ragione” tali fatti: si tratta di un’indifendibilità “morale” e “spirituale”. A portare avanti questo svelamento, sottraendosi alla narrazione civilizzatrice che legittima – ovvero che difende – l’impresa coloniale sono, secondo Césaire, le masse popolari europee e i colonizzati che “dalle cave della schiavitù si ergono giudici”. Era il 1950.
A più di sessant’anni di distanza, oggi l’Europa è tornata ad essere ben difesa, i suoi confini materiali e simbolici più che mai presidiati. Come in passato, tuttavia, uno svelamento della sua autentica natura potrebbe minarne le fondamenta. È quindi importante capire quale sia la narrazione che oggi sostiene la fortezza Europa.
La scuola decoloniale ha mostrato come la colonialità sia un attributo del potere, la scuola postcoloniale come leggerne i segni all’interno della cultura materiale. Questa stessa cultura è stata interrogata, al fine di portarne alla luce gli impliciti. È successo ripetutamente alla statua di Montanelli, prima oggetto dell’azione di Non Una di Meno Milano, poi del movimento Black Lives Matter Italia. È successo alla fermata metro di Roma Amba Aradam. È successo anche alle vie coloniali di Padova. La reazione a queste azioni – reazione comune a diversi contesti internazionali – è particolarmente esplicativa della necessità, del Nord globale, di continuare a difendersi.
Il fronte che si è aperto in contrapposizione alla cosiddetta cancel culture[2] si è battuto per la tutela del “passato” e della “Storia”, così facendo ribadendo un potere non affatto scontato, che è quello di decidere cosa sia “passato” e quale debba essere la Storia raccontata – oltre che il come debba essere raccontata. Le masse che si sono radunate sotto le statue abbattute, deturpate e sfidate, l’hanno fatto per liberare “passato” e “Storia” dal dominio bianco, maschile e coloniale che ha eretto questi monumenti a sua immagine e somiglianza. La posta in gioco è, ancora, uno svelamento, la presa di coscienza del fatto che queste non sono innocue reliquie di un passato disattivato, ma piuttosto la testimonianza silente di una Storia che lega indissolubilmente passato a presente, Nord globale e Sud globale, colonialismo e migrazioni. Riattivare questo collegamento serve a far crollare l’impalcatura ideologica sulla quale oggi si fonda la pretesa di sicurezza invocata e agita dall’Europa.
Igiaba Scego e Rino Bianchi, in Roma Negata (2014), sono stati tra i primi a dedicare attenzione a queste rumorose reliquie in Italia. L’urgenza che li ha spinti a lavorare sui resti coloniali nella loro città è l’oblio nel quale il colonialismo italiano è stato relegato. Come numerosi autrici e autori postcoloniali hanno dimostrato, tuttavia, questo oblio è tutt’altro che improduttivo. La funzione che svolge è infatti letteralmente salvifica, ovvero ha lo scopo di salvare la narrazione nazionale dalle possibili incrinature prodotte dallo svelamento alla “barra della coscienza” (Césaire 1950) delle responsabilità coloniali e dei modi in cui si è stati partecipi e protagonisti della costruzione di un mondo profondamente diseguale. Al contempo, la presenza di questi monumenti permette, a livello inconscio, di continuare a godere del senso di superiorità imperiale di cui sono intrisi, di continuare cioè a pensarsi come parte dell’Europa e del Nord Globale, con ciò che questo comporta. Che cosa significa dunque puntarvi il dito? Che cosa succede quando la memoria viene riattivata in funzione del presente?
La colonialità ha delle caratteristiche intrinseche, ovvero dei meccanismi che ne presiedono il funzionamento. Una di queste caratteristiche è la produzione costante di confini. Questa necessità è evidente sin dai suoi albori ed è rintracciabile anche in pagine storiche che non sono abitualmente lette attraverso una lente coloniale. Un esempio è la riflessione marxiana dei Dibattiti sulla legge contro i furti di legna[3], in cui il pensatore indaga il fenomeno delle enclosure, le recinzioni che tra ‘700 e ‘800 comparvero in tutta Europa al fine di rendere privati i fondi demaniali, usati consuetudinariamente dalla classe contadina come supporto alla sussistenza del proprio nucleo attraverso la caccia e la raccolta. Distinzione, definizione e confinamento sono processi materiali e simbolici centrali della colonialità. Per contro, connettere, comporre e sconfinare sono atti di resistenza al potere coloniale.
Da tempo Gurminder K. Bhambra (2017) ha posto l’accento sull’importanza di questo lavoro di ricucitura storica e sociologica. Secondo l’autrice la stessa distinzione tra cittadino e migrante è frutto di una concettualizzazione statuale che fonda le sue categorie nel momento storico degli imperi. In questo senso per Bhambra tale distinzione poggia su di una lettura inadeguata della storia condivisa. Tale lettura ha l’effetto di materializzare l’uno – il cittadino – come un soggetto avente diritti, come un soggetto “al giusto posto”, e l’altro – il migrante – come un soggetto “fuori posto”, qualcuno che non appartiene allo stato nazione.
Questo cortocircuito storico è reso evidente nella mappa coloniale che abbiamo deciso di “sfidare” nel video partecipativo. La raffigurazione dell’Impero Italiano presente in piazza delle Erbe a Padova raffigura Eritrea, Etiopia, Somalia, Libia, Albania e Italia in bianco, affinché risaltino sullo sfondo scuro della cartina. Su questo spazio bianco è possibile tracciare la rotta che oggi le persone migranti intraprendono per raggiungere la Libia da numerosi paesi subsahariani, tra cui la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia, la stessa Libia che è stata definita un grande carcere a cielo aperto. Dal 2008 infatti Italia e Libia sono legate da accordi bilaterali. Secondo questi accordi l’Italia si è impegnata a risarcire la Libia per l’occupazione coloniale, e in cambio la Libia ha assunto il ruolo di “guardiano” dei confini italiani, ruolo che agisce attraverso il contenimento delle persone migranti che raggiungono il paese per tentare la traversata mediterranea verso l’Europa. Risulta evidente come all’interno di questi accordi vi è una riattivazione del passato – il risarcimento coloniale – che risulta paradossalmente neocoloniale piuttosto che de o anti-coloniale.
L’Italia è indifendibile, eppure si difende. Si difende anche grazie all’ombra in cui mantiene parti della sua storia, e si difende moltiplicando i confini coloniali tra cittadini e stranieri, tra passato e presente. Questo passato non è però tale, al contrario plasma il presente traducendo vecchie disuguaglianze sotto nuove vesti. Oggi la dimensione coloniale si è spostata sui corpi migranti, che si trovano ad essere marchiati da una differenza che produce esclusione nel quotidiano.
I confini coloniali – quelli materiali come quelli simbolici – si ergono dunque a difesa dell’Italia e dell’Europa. Come nel 1950 però, questa difendibilità è possibile solo a patto che le masse popolari e subalterne accettino e condividano la narrazione coloniale, che è stata ieri quella della “missione civilizzatrice” ed è oggi quella della “sicurezza”. Al fine di decolonizzare il presente è dunque necessario uscire da queste narrazioni e riconnettere il passato alla contemporaneità al fine di svelare la natura coloniale del potere oggi. Così facendo la difesa dell’Europa potrà essere nuovamente scalfibile.
Il video partecipativo realizzato a Padova va esattamente in questa direzione: cerca di ricucire storie e relazioni interrotte e nel farlo pone al centro il fatto coloniale nella sua continuità e contemporaneità.

Mappa coloniale. Foto degli autor_

Pratiche visuali di decolonizzazione della città
Il video con Mackda Ghebremariam Tesfau è nato all’interno del laboratorio di Visual Research Methods dell’Università di Padova. Da diversi anni, questo laboratorio è diventato un’occasione preziosa per fare didattica e ricerca in modo riflessivo e collaborativo, affrontando il tema del razzismo nella società italiana attraverso l’analisi critica della visualità legata alla modernità europea e attraverso la sperimentazione di pratiche contro-visuali (Mirzoeff 2011). Come docente, ho provato a fare i conti con “l’innocenza bianca” (Wekker 2016) e spingere le mie studentesse e i miei studenti oltre la memoria auto-assolutoria del colonialismo italiano coi suoi miti (“italiani brava gente”, “eravamo lì come migranti straccioni” ecc.). Per non restare intrappolate/i nella colonialità del potere, le/li/ci ho invitate/i a prendere consapevolezza di quale sia il nostro sguardo su noi stessi nel racconto che facciamo degli “altri” e delle “altre”, mettendo in evidenza il peso delle divisioni e delle gerarchie sociali. Come mi hanno detto alcune mie studentesse, si tratta di un lavoro faticoso e dal punto di vista emotivo a volte difficilmente sostenibile. Eppure, penso sia importante (far) riconoscere il proprio “disagio” in quanto europei/e “bianchi/e” e farci qualcosa collettivamente, perché il sentimento di colpa individuale è sterile, mentre la responsabilità è capacità di agire, rispondere insieme e prendere posizione di fronte ai conflitti sociali e alle disuguaglianze del presente.
Nel 2020 la scommessa è stata quella di fare insieme a italiani/e afrodiscendenti un percorso di video partecipativo (Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova[4]) e di utilizzare il “walk about” (Frisina 2013) per fare passeggiate urbane con studentesse e studenti lasciandosi interpellare dalle tracce coloniali disseminate nella città di Padova, in particolare nel rione Palestro dove abito. La congiuntura temporale è stata cruciale.
Da una parte, ci siamo ritrovate nell’onda del movimento Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Come discusso altrove (Frisina & Ghebremariam Tesfau’ 2020, pp. 399-401), l’antirazzismo è (anche) una contro-politica della memoria e, specialmente nell’ultimo anno, a livello globale, diversi movimenti hanno messo in discussione il passato a partire da monumenti e da vie che simbolizzano l’eredità dello schiavismo e del colonialismo. Inevitabilmente, in un’Europa post-coloniale in cui i cittadini hanno le origini più diverse da generazioni e in cui l’attivismo degli afrodiscendenti diventa sempre più rilevante, si sono diffuse pratiche di risignificazione culturale attraverso le quali è impossibile continuare a vedere statue, monumenti, musei, vie intrise di storia coloniale in modo acritico; e dunque è sempre più difficile continuare a vedersi in modo innocente.
D’altra parte, il protrarsi della crisi sanitaria legata al covid-19, con le difficoltà crescenti a fare didattica in presenza all’interno delle aule universitarie, ha costituito sia una notevole spinta per uscire in strada e sperimentare forme di apprendimento più incarnate e multisensoriali, sia un forte limite alla socialità che solitamente accompagna la ricerca qualitativa, portandoci ad accelerare i tempi del laboratorio visuale in modo da non restare bloccati da nuovi e incalzanti dpcm. Nel giro di soli due mesi (ottobre-novembre 2020), dunque, abbiamo realizzato il video con l’obiettivo di far uscire dall’insignificanza alcune tracce coloniali urbane, risignificandole in modo creativo.
Il video è stato costruito attraverso pratiche visuali di decolonizzazione che hanno avuto come denominatore comune l’attivazione di contro-politiche della memoria, a partire da sguardi personali e familiari, intimamente politici. Le sei voci narranti mettono in discussione le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo e offrono visioni alternative della società, perché capaci di aspirare e rivendicare maggiore giustizia sociale, la libertà culturale di scegliersi le proprie appartenenze e anche il potere trasformativo della bellezza artistica.
Nel video, oltre a Mackda Ghebremariam Tesfau’, ci sono Wissal Houbabi, Cadigia Hassan, Ilaria Zorzan, Emmanuel M’bayo Mertens e Viviana Zorzato, che si riappropriano delle tracce coloniali con la presenza dei loro corpi in città e la profondità dei loro sguardi.
Wissal, artista “figlia della diaspora e del mare di mezzo”, “reincarnazione del passato rimosso”, si muove accompagnata dalla canzone di Amir Issa Non respiro (2020). Lascia la sua poesia disseminata tra Via Catania, via Cirenaica, via Enna e Via Libia.

«Cerchiamo uno spiraglio per poter respirare, soffocati ben prima che ci tappassero la bocca e ci igienizzassero le mani, cerchiamo una soluzione per poter sopravvivere […]
Non siamo sulla stessa barca e ci vuole classe a non farvelo pesare. E la mia classe sociale non ha più forza di provare rabbia o rancore.
Il passato è qui, insidioso tra le nostre menti e il futuro è forse passato.
Il passato è qui anche se lo dimentichi, anche se lo ignori, anche se fai di tutto per negare lo squallore di quel che è stato, lo Stato e che preserva lo status di frontiere e ius sanguinis.
Se il mio popolo un giorno volesse la libertà, anche il destino dovrebbe piegarsi».

Cadigia, invece, condivide le fotografie della sua famiglia italo-somala e con una sua amica si reca in Via Somalia. Incontra una ragazza che abita lì e non ha mai capito la ragione del nome di quella via. Cadigia le offre un suo ricordo d’infanzia: passando da via Somalia con suo padre, da bambina, gli aveva chiesto perché si chiamasse così, senza ricevere risposta. E si era convinta che la Somalia dovesse essere importante. Crescendo, però, si era resa conto che la Somalia occupava solo un piccolo posto nella storia italiana. Per questo Cadigia è tornata in via Somalia: vuole lasciare traccia di sé, della sua storia familiare, degli intrecci storici e rendere visibili le importanti connessioni che esistono tra i due paesi. Via Somalia va fatta conoscere.
Anche Ilaria si interroga sul passato coloniale attraverso l’archivio fotografico della sua famiglia italo-eritrea. Gli italiani in Eritrea si facevano spazio, costruendo strade, teleferiche, ferrovie, palazzi… E suo nonno lavorava come macchinista e trasportatore, mentre la nonna eritrea, prima di sposare il nonno, era stata la sua domestica. Ispirata dal lavoro dell’artista eritreo-canadese Dawit L. Petros, Ilaria fa scomparire il suo volto dietro fotografie in bianco e nero. In Via Asmara, però, lo scopre e si mostra, per vedersi finalmente allo specchio.
Emmanuel è un attivista dell’associazione Arising Africans. Nel video lo vediamo condurre un tour nel centro storico di Padova, in Piazza Antenore, ex piazza 9 Maggio. Emmanuel cita la delibera con la quale il comune di Padova dedicò la piazza al giorno della “proclamazione dell’impero” da parte di Mussolini (1936). Secondo Emmanuel, il fascismo non è mai scomparso del tutto: ad esempio, l’idea dell’italianità “per sangue” è un retaggio razzista ancora presente nella legge sulla cittadinanza italiana. Ricorda che l’Italia è sempre stata multiculturale e che il mitico fondatore di Padova, Antenore, era un profugo, scappato da Troia in fiamme. Padova, così come l’Italia, è inestricabilmente legata alla storia delle migrazioni. Per questo Emmanuel decide di lasciare sull’edicola medioevale, che si dice contenga le spoglie di Antenore, una targa dedicata alle migrazioni, che ha i colori della bandiera italiana.
Chiude il video Viviana, pittrice di origine eritrea. La sua casa, ricca di quadri ispirati all’iconografia etiope, si affaccia su Via Amba Aradam. Viviana racconta del “Ritratto di ne*ra”, che ha ridipinto numerose volte, per anni. Farlo ha significato prendersi cura di se stessa, donna italiana afrodiscendente. Riflettendo sulle vie coloniali che attraversa quotidianamente, sostiene che è importante conoscere la storia ma anche ricordare la bellezza. Amba Alagi o Amba Aradam non possono essere ridotte alla violenza coloniale, sono anche nomi di montagne e Viviana vuole uno sguardo libero, capace di bellezza. Come Giorgio Marincola, Viviana continuerà a “sentire la patria come una cultura” e non avrà bandiere dove piegare la testa. Secondo Viviana, viviamo in un periodo storico in cui è ormai necessario “decolonizzarsi”.

Decolonizzare la città. Foto degli autor_

Anche nel nostro percorso didattico e di ricerca la parola “decolonizzare” è stata interpretata in modi differenti. Secondo Bhambra, Gebrial e Nişancıoğlu (2018) per “decolonizzare” ci deve essere innanzitutto il riconoscimento che il colonialismo, l’imperialismo e il razzismo sono processi storici fondamentali per comprendere il mondo contemporaneo. Tuttavia, non c’è solo la volontà di costruire la conoscenza in modi alternativi e provincializzare l’Europa, ma anche l’impegno a intrecciare in modo nuovo movimenti anti-coloniali e anti-razzisti a livello globale, aprendo spazi inediti di dialogo e dando vita ad alleanze intersezionali.

L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio
Il video-partecipativo è solo uno degli strumenti messi in atto a Padova per intervenire sulla memoria coloniale. Con l’evento pubblico urbano chiamato Decolonize your Eyes (20 giugno 2020), seguito da un secondo evento omonimo (18 Ottobre 2020), attivisti/e afferenti a diversi gruppi e associazioni che lavorano nel sociale si incontrano a favore di uno scopo che, come poche volte precedentemente, consente loro di agire all’unisono. Il primo evento mette in scena il gesto simbolico di cambiare, senza danneggiare, i nomi di matrice coloniale di alcune vie del rione Palestro, popolare e meticcio. Il secondo agisce soprattutto all’interno di piazza Caduti della Resistenza (ex Toselli) per mezzo di eventi performativi, artistici e laboratoriali con l’intento di coinvolgere un pubblico ampio e riportare alla memoria le violenze coloniali italiane. Ai due eventi contribuiscono realtà come l’asd Quadrato Meticcio, la palestra popolare Chinatown, Non una di meno-Padova, il movimento ambientalista Fridays for future, il c.s.o. Pedro e l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (anpi).
Si è trattato di un rapporto di collaborazione mutualistico. L’anpi «indispensabile sin dalle prime battute nell’organizzazione» – come racconta Camilla[5] del Quadrato Meticcio – ha contribuito anche ai dibattiti in piazza offrendo densi spunti storici sulla Resistenza. Fridays for future, impegnata nella lotta per l’ambiente, è intervenuta su via Lago Ascianghi, luogo in cui, durante la guerra d’Etiopia, l’utilizzo massiccio di armi chimiche da parte dell’esercito italiano ha causato danni irreversibili anche dal punto di vista della devastazione del territorio. Ha sottolineato poi come l’odierna attività imprenditoriale dell’eni riproduca lo stesso approccio prevaricatore colonialista. Non una di meno-Padova, concentrandosi sulle tematiche del trans-femminismo e della lotta di genere, ha proposto un dibattito intitolando l’attuale via Amba Aradam a Fatima, la bambina comprata da Montanelli secondo la pratica coloniale del madamato. Durante il secondo evento ha realizzato invece un laboratorio di cartografia con gli abitanti del quartiere di ogni età, proponendogli di tracciare su una mappa le rotte dal luogo d’origine a Padova: un gesto di sensibilizzazione sul rapporto tra memoria e territorio. Il c.s.o. Pedro ha invece offerto la strumentazione mobile e di amplificazione sonora che ha permesso a ogni intervento di diffondersi in tutto il quartiere.
Rispetto alla presenza attiva nel quartiere, Il Quadrato Meticcio, il quale ha messo a disposizione gli spazi della propria sede come centrale operativa di entrambi gli eventi, merita un approfondimento specifico.
Mattia, il fondatore dell’associazione, mi racconta che nel 2008 il “campetto” – così chiamato dagli abitanti del quartiere – situato proprio dietro la “piazzetta” (Piazza Caduti della Resistenza), sarebbe dovuto diventare un parcheggio, ma “l’intervento congiunto della comunità del quartiere lo ha preservato”. Quando gli chiedo come si inserisca l’esperienza dell’associazione in questo ricordo, risponde: “Ho navigato a vista dopo quell’occasione. Mi sono accorto che c’era l’esigenza di valorizzare il campo e che il gioco del calcio era un contesto di incontro importante per i ragazzi. La forma attuale si è consolidata nel tempo”. Adesso, la presenza costante di una vivace comunità “meticcia” – di età che varia dagli otto ai sedici anni – è una testimonianza visiva e frammentaria della cultura familiare che i ragazzi si portano dietro. Come si evince dalla testimonianza di Mattia: «Loro non smettono mai di giocare. Sono in strada tutto il giorno e passano la maggior parte del tempo con il pallone ai piedi. Il conflitto tra di loro riflette i conflitti che vivono in casa. Ognuno di loro appartiene a famiglie economicamente in difficoltà, che condividono scarsi accessi a opportunità finanziarie e sociali in generale. Una situazione che inevitabilmente si ripercuote sull’emotività dei ragazzi, giorno dopo giorno».

L’esperienza dell’associazione si inserisce all’interno di una rete culturale profondamente complessa ed eterogenea. L’intento dell’associazione, come racconta Camilla, è quello di offrire una visione inclusiva e una maggiore consapevolezza dei processi coloniali e post-coloniali a cui tutti, direttamente o indirettamente, sono legati; un approccio simile a quello della palestra popolare Chinatown, che offre corsi di lotta frequentati spesso dagli stessi ragazzi che giocano nel Quadrato Meticcio. L’obiettivo della palestra è quello di educare al rispetto reciproco attraverso la simulazione controllata di situazioni conflittuali legate all’uso di stereotipi etno-razziali e di classe, gestendo creativamente le ambivalenze dell’intimità culturale (Herzfeld, 2003). Uber[6], fra i più attivi promotori di Decolonize your eyes e affiliato alla palestra, racconta che: «Fin tanto che sono ragazzini, può essere solo un gioco, e tra di loro possono darsi man forte ogni volta che si scontrano con il razzismo brutale che questa città offre senza sconti. Ma ho paura che presto per loro sarà uno shock scoprire quanto può far male il razzismo a livello politico, lavorativo, legale… su tutti i fronti. E ho paura soprattutto che non troveranno altro modo di gestire l’impatto se non abbandonandosi agli stereotipi che gli orbitano già attorno».

La mobilitazione concertata del 2008 a favore della preservazione del “campetto”, ha molto in comune con il contesto dal quale è emerso Decolonize your eyes. È “quasi un miracolo” di partecipazione estesa, mi racconta Uber, considerando che storicamente le “realtà militanti” di Padova hanno sempre faticato ad allearsi e collaborare. Similmente, con una vena solenne ma scherzosa, Camilla definisce entrambi gli eventi “necessari”. Lei si è occupata di gestire anche la “chiamata” generale: “abbiamo fatto un appello aperto a tutti sui nostri social network e le risposte sono state immediate e numerose”. Uber mi fa presente che “già da alcune assemblee precedenti si poteva notare l’intenzione di mettere da parte le conflittualità”. Quando gli chiedo perché, risponde “perché non ne potevamo più [di andare l’uno contro l’altro]”. Camilla sottolinea come l’impegno da parte dell’anpi di colmare le distanze generazionali, nei concetti e nelle pratiche, sia stato particolarmente forte e significativo.

Avere uno scopo comune sembra dunque essere una prima risorsa per incontrarsi. Ma è nel modo in cui le conflittualità vengono gestite quotidianamente che può emergere una spinta rivoluzionaria unitaria. In effetti, «[…] l’equilibrio di un gruppo non nasce per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni controllati» (Mauss, 2002, p. 194).
Nel frattempo il Quadrato Meticcio ha rinnovato il suo impegno nei confronti del quartiere dando vita a una nuova iniziativa, chiamata All you can care, basata sullo scambio mutualistico di beni di prima necessità. Contemporaneamente, i progetti per un nuovo Decolonize your eyes vanno avanti e, da ciò che racconta Camilla, qualcosa sembra muoversi:
«Pochi giorni fa una signora ci ha fermati per chiederci di cambiare anche il nome della sua via – anch’essa di rimando coloniale. Stiamo avendo anche altre risposte positive, altre realtà vogliono partecipare ai prossimi eventi».
L’esperienza di Decolonize your eyes è insomma una tappa di un lungo progetto di decolonizzazione dell’immaginario e dell’utilizzo dello spazio pubblico che coinvolge molte realtà locali le quali, finalmente, sembrano riconoscersi in una lotta comune.

[7]

Note
[1] Annalisa Frisina ha ideato la struttura del saggio e ha scritto il paragrafo “Pratiche visuali di decolonizzazione della città”; Mackda Ghebremariam Tesfau’ ha scritto il paragrafo “L’Europa è indifendibile” e Salvatore Frisina il paragrafo “L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio”.
[2] Cancel culture è un termine, spesso utilizzato con un’accezione negativa, che è stato usato per indicare movimenti emersi negli ultimi anni che hanno fatto uso del digitale, come quello il #metoo femminista, e che è stato usato anche per indicare le azioni contro le vestigia coloniali e razziste che si sono date dal Sud Africa agli Stati Uniti all’Europa.
[3] Archivio Marx-Engels
[4] Ho ideato con Elisabetta Campagni il percorso di video partecipativo nella primavera del 2020, rispondendo alla call “Cinema Vivo” di ZaLab; il nostro progetto è rientrato tra i primi cinque votati e supportati dal crowfunding.
[5] Da un’intervista realizzata dall’autore in data 10/12/2020 a Camilla Previati e Mattia Boscaro, il fondatore dell’associazione.
[6] Da un’intervista realizzata con Uber Mancin dall’autore in data 9/12/2020.
[7] Le parti introduttive e finali del video sono state realizzate con la gentile concessione dei materiali audiovisivi da parte di Uber Mancin (archivio privato).

Bibliografia
Bhambra, G., Nişancıoğlu, K. & Gebrial, D., Decolonising the University, Pluto Press, London, 2018.
Bhambra, G. K., The current crisis of Europe: Refugees, colonialism, and the limits of cosmopolitanism, in: «European Law Journal», 23(5): 395-405. 2017.
Césaire, A. (1950), Discorso sul colonialismo, Mellino, M. (a cura di), Ombre corte, Verona, 2010.
Frisina, A., Ricerca visuale e trasformazioni socio-culturali, utet Università, Torino, 2013.
Frisina, A. e Ghebremariam Tesfau’, M., Decolonizzare la città. L’antirazzismo come contro-politica della memoria. E poi?, «Studi Culturali», Anno XVII, n. 3, Dicembre, pp. 399-412. 2020.
Herzfeld, M., & Nicolcencov, E., Intimità culturale: antropologia e nazionalismo, L’ancora del Mediterraneo, 2003.
Mauss, M., Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, G. Einaudi, Torino, 2002.
Mirzoeff, N., The Right to Look: A Counterhistory of Visuality, Duke University Press, Durham e London, 2011.
Scego, I., & Bianchi, R., Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, Roma, 2014.
Wekker, G., White Innocence: Paradoxes of Colonialism and Race, Duke University Press, Durham and London, 2016.

Annalisa Frisina è prof.ssa associata di Sociologia all’Università di Padova. Recentemente ha pubblicato “Razzismi contemporanei. Le prospettive della sociologia” (Carocci).

Mackda Ghebremariam Tesfau’ è P.h.D. in Scienze Sociali presso l’Università di Padova e docente a contratto presso la Fondazione Universitaria di Mantova.

Salvatore Frisina è dottorando in Cinema e conduce un laboratorio di Antropologia delle narrazioni presso l’Università di Padova.