§L'educazione nel corpo. Per una somatica della relazione pedagogica
Essere corpo, essere spazio, stare insieme
Riflessioni camminate con i piedi di Benedetta Rodeghiero e modellate con le mani di Marco Terranova

Nelle righe che seguono condivideremo alcune riflessioni su come i bambini sperimentino e facciano esperienza dello spazio attraverso il corpo. Racconteremo della nostra esperienza in Lemur, Laboratorio di Emergenze Urbane, un’associazione interdisciplinare e internazionale con sede a Barcellona. Lemur opera tra Spagna e Italia con l’obiettivo di generare spazi comunitari di benessere e per promuovere una transizione eco-sociale intrecciando architettura, ingegneria, educazione, arte e partecipazione.

In dieci anni di laboratori, prima osservando[1] e poi accompagnando, sempre insieme ai bambini, abbiamo goduto della magia della “presenza”, dell’“esserci”, di quella condizione di connessione profonda con il proprio essere che affiora quando si osserva, si interagisce e ci si dà con onestà, spontaneamente, senza esigere nulla in cambio, accettando dall’altro tutte le risposte possibili, anche quando non arrivano.

Abbiamo sperimentato questa magia anche con ragazzi e adulti quando hanno accettato di risvegliare il loro bambino interiore attraverso le nostre proposte di gioco, superando le resistenze del “cosa penseranno di me” o del “questo non sta bene”.

1. Attraversare

«Il confine non è un luogo dove il mondo finisce, è quello dove i diversi si toccano»
Franco Cassano, Il pensiero meridiano

“In una scuola elementare di Barcellona, durante una sessione di paesaggi sensoriali[2], i bambini devono attraversare in equilibrio un percorso fatto di pezzi di legno, alcuni dei quali instabili. Non devono toccare terra con i piedi, pena il ricominciare da capo. La sfida per loro più difficile è riconoscere quando sbagliano. L’ultimo ostacolo consiste nell’arrampicarsi su di una casetta di un paio di metri d’altezza e nello scendere dall’altra parte. Una bambina di 10 anni, accompagnata dall’insegnante di sostegno, ha paura. Nei 7 anni che ha trascorso in quella scuola, non è mai riuscita a salire a cavalcioni sulla casetta. Mi chiede timidamente di aiutarla. Le offro alcuni tronchi per costruire una sorta di scaletta. Prova e riprova, ma i tronchi cadono o lei scivola. Noto che le tremano le gambe. Sta per arrendersi. La maestra la incoraggia senza avvicinarsi troppo. I compagni dietro di lei aspettano pazienti. Le offro allora le mie mani nella forma di una scaletta e le dico che quello è un tronco speciale. Ci riprova, la sprono a spingere con i piedi, si fa forza e, finalmente, si siede a cavallo del tetto. L’espressione sul suo viso è raggiante! Le chiedo come si sente. Dice: “Mi sembra di volare!”. Più tardi la maestra mi confesserá commossa che, da quel giorno, la vita di questa bambina non sarebbe stata più la stessa.” [Dai diari di Benedetta R.]

Paesaggio di equilibrio: cima, foto di Clara Ferrer

Nei momenti di paura e di dolore, fisico o emozionale, sentiamo improvvisamente il nostro corpo, possiamo percepirne il limite. In casi estremi, costretti a letto malati nello spazio angusto di una stanza, oppure confinati o rinchiusi per giorni (forse mesi) in uno spazio che diventa tutto il nostro universo, siamo chiamati a fare i conti con questo limite in tutte le sue sfaccettature: fisiche, mentali, energetiche, emozionali. A volte proprio l’esperienza del dolore, dell’isolamento e della mancanza di contatto ci portano a sentire vivamente un impulso selvaggio ad attraversare i limiti. Con la parola “limite” intendiamo il modo in cui due cose o persone si relazionano tra di loro; è un concetto di reciprocità, il limite ci termina e ci de-termina (Cassano, 1996). Per questo a volte l’imposizione di un limite rigido e duro può generare il desiderio profondo di definirlo in altro modo, con amore e cura dell’altro e di se stessi. Il limite ci de-finisce e ci mette di fronte a due possibilità: lasciarsi andare rinunciando alla vita, o attraversare e vivere.

La nascita è il primo attraversamento (sub)cosciente, la prima migrazione universale che accomuna tutti gli esseri umani. Questo primo transito è fonte di dolore ma anche di piacere e di felicità, sia per la madre che per il bambino. Attraversare apre, libera, connette, illumina.
Per “attraversare” le cose occorre essere presenti, incarnati[3]. I bambini lo sono in modo naturale. Osservandone i movimenti e il gioco spontaneo[4] ed interagendo rispettosamente con loro abbiamo capito l’importanza di mantenere uno stato di attenzione aperta, rilassata ed al tempo stesso vigile, curiosa, libera, collaborativa.

Con l’andare del tempo abbiamo  intensificato l’esplorazione e la sperimentazione dello spazio attraverso il corpo[5]. Il corpo, quando c’è autentica presenza, diventa uno strumento essenziale per ascoltare il mondo che ci circonda, comprenderlo e trasformarlo. Abbiamo riflettuto sulla capacità che tutti abbiamo di “percepire” le informazioni che provengono dal corpo, dal movimento e dall’intorno e su come possiamo farne un uso consapevole e utile, per promuovere e definire consensualmente spazi inclusivi, di cura e di benessere profondo.
Per definire il nostro approccio metodologico ci piace parlare di “progettazione attraverso il corpo (body driven design)”, un processo corale in quattro fasi consecutive e interrelazionate (risvegliare; disegnare; costruire; abitare) in cui l’intero iter progettuale si sviluppa a partire dalle informazioni sensibili che affiorano dalla relazione tra corpo, movimento e spazio.

 

2. Fare spazio agli impulsi vitali
Come si genera un sapere incarnato[6] e situato che lasci spazio alla curiosità e all’inventiva, alla scoperta e alla libertà di essere noi stessi?
Crediamo che un tale sapere si dia quando si riesce a stabilire un contatto profondo con il proprio nucleo vitale interno. Allora siamo in grado di ascoltare le nostre necessità più profonde e di individuare ed immaginare cosa  possa far star bene, cosa possa generare benessere.
Con la parola “benessere” intendiamo quella condizione umana che si raggiunge con la piena soddisfazione di tutte le necessità psicofisiche basiche. Secondo la definizione di John Bowlby (1951), le necessità basiche sono: il benessere fisiologico, la sicurezza, il vincolo affettivo, l’autonomia/autodeterminazione, l’autostima e la dimensione trascendentale.

Abbiamo elaborato una proposta metodologica a partire dalla constatazione che le persone mostrano le loro necessità profonde attraverso l’espressione corporea di una serie di impulsi vitali.
Per “impulso vitale” intendiamo l’espressione spontanea di un bisogno fondamentale attraverso tutte le dimensioni dell’essere umano: fisica, emotiva, energetica, mentale e trascendentale.
Riconosciamo quattro diversi impulsi vitali: 1. sentirsi accolti e protetti, 2. guardare attentamente, 3. proiettarsi dinamicamente 4. essere permeabili. Gli impulsi vitali restano attivi per tutta la vita.

L’impulso di sentirsi accolti risponde al bisogno di sentirsi sicuri e protetti; è associato a movimenti spiraliformi e ad una qualità corporea fluida, tipica delle situazioni rilassate. La famiglia di spazi che risponde meglio a questo impulso è quella dei rifugi.

L’impulso di guardare attentamente risponde a una tensione verso l’alto per esplorare l’intorno e avere tutto sotto controllo; è associato a movimenti verticali e implica una consistenza corporea ferma, tipica dell’arrampicarsi o dell’osservare da una posizione elevata. La famiglia di spazi che risponde meglio a questo impulso è quella  delle torri di avvistamento.

L’impulso di proiettarsi dinamicamente è attivato da un meccanismo di desiderio/piacere alimentato dal bisogno di raggiungere un obiettivo o di scaricare energia La proiezione è correlata a una consistenza corporea dinamica e a un movimento in avanti o indietro, tipico di situazioni come la corsa, la competizione, il dondolarsi come Tarzan o la fuga. Una nave in movimento suggerisce la famiglia di spazi che meglio risponde a questo impulso.

L’impulso di essere permeabile viene attivato dall’attenzione reciproca tra due persone. È caratterizzato da un gioco di sensazioni tra tensione e rilassamento, una consistenza corporea di permeabilità e un doppio movimento centrifugo/centripeto.
Ci permette di percepire le differenze, accettare i cambiamenti e le incertezze.
La famiglia delle soglie, intese come spazi intermedi che connettono due situazioni o stati (casa/strada; dentro/fuori; ombra/pieno sole; silenzio/rumore; …) è quella che meglio accoglie questo impulso.

Quando giochiamo con i bambini osserviamo e mappiamo quali impulsi, in forma di risposte corporee e motrici, risveglino i differenti spazi con le loro caratteristiche specifiche. Se, per esempio, facciamo loro immaginare di essere un orso bruno in pieno inverno che deve trovare una tana per dormire, cercheranno un luogo che copra loro le spalle, dove possano rannicchiarsi e stare tranquilli. In questo caso mappiamo la posizione del luogo prescelto, il movimento corporale spiraliforme generato e ne registriamo le caratteristiche architettoniche (dimensioni, volume, materialità, comfort luminoso, acustico, termico) al fine di meglio comprendere il perché della loro scelta. Le diverse proposte di gioco sono pensate per fare una scansione corporea dello spazio attraverso i quattro impulsi vitali.
Possiamo così riconoscere e mappare specificità, potenzialità e criticità dei diversi luoghi, terreno di gioco e di indagine.


3. Guardare, toccare, annusare, assaggiare
“In una scuola di Barcellona i bambini attraversano un paesaggio sensoriale che riproduce un contesto naturale. Entrano a quattro zampe attraverso un tunnel che lascia appena entrare sprazzi di luce. Per terra trovano una sequenza di foglie secche, sassi di fiume e terra umida. Sulla loro testa piovono rami di rosmarino e timo selvatico. All’uscita li aspettano delle ciotole piene di spezie e odori. Quando si alzano vengono bendati e accompagnati in uno spazio dove la loro mano è invitata a sfiorare e poi immergersi in un secchio d’acqua fredda. Vivono esperienze sonore di campanelli e cucchiaini che fanno risuonare bicchieri diversamente riempiti fino a rilassarsi in un rifugio piccolo e raccolto, tappezzato di tele morbide, di cui alcune pelose, e cuscini. Queste alcune delle frasi dei bambini raccolte all’uscita: “mi sono sentito come una volpe nella sua tana”; “mi è piaciuto toccare l’acqua gelida, mi ha rilassato molto”; “fa odore di natura”; “mi sono sentito come un lupo che ha preso un coniglio morto, la coperta di peli è come una tana, realmente mi sono sentito come un lupo”. [Dai diari di Benedetta R.]

Paesaggio sensoriale: tana, foto di Clara Ferrer

La nostra cultura è iper-visuale, ma raramente la vista è correlata a un sentire  corporeo profondo, attivando spesso la sola dimensione mentale dell’essere. I bambini, invece, specialmente fino all’età di 7 anni, quando ha luogo un importante salto cognitivo, hanno un approccio al mondo che integra tutte le dimensioni del corpo, così come le abbiamo descritte in precedenza. L’esperienza di ciò che li circonda avviene stabilendo una profonda connessione tra il loro dentro e il fuori, per cui mostrano una capacità innata di connettere con il piacere. Il piacere di stare in contatto con le cose e con gli altri, di sentire intensamente e di sperimentare per il puro gusto di farlo, senza preoccuparsi del risultato. Sono capaci di entrare in uno stato di felicità piena.

Nei nostri laboratori proponiamo giochi e attività di attivazione sensoriale allo scopo di risvegliare la consapevolezza delle proprie capacità percettive e di fornire strumenti di esplorazione incarnata (embodied) dell’intorno. Coinvolgiamo i cinque sensi ma anche il senso di propriocezione[7], quello della percezione interiore. Impariamo a sentire attraverso tutto il corpo, a registrare le sensazioni, a dirigere l’attenzione e a focalizzare la mente. Questa immersione sensoriale ci consente di aumentare la nostra capacità di attenzione e concentrazione ed espandere la memoria.
Mediante un kit di valigie e di scatole sensoriali per mani, piedi e naso possiamo testare diverse possibilità di utilizzo e stimolo dei cinque sensi.

Attraverso la vista posso… guardare l’orizzonte, guardare intensamente, vedere tutto, guardare senza essere visto, guardare attraverso filtri di diversi colori e trame, trovare un posto dove nessuno può vedermi, muovermi ad occhi chiusi.

Attraverso il tatto posso… esplorare il mio corpo e il corpo degli altri, toccare e manipolare vari materiali e trame, riconoscere le cose, modellare, disfare, mettermi nei panni di qualcun altro.

Attraverso l’udito posso… riconoscere diversi suoni della natura o dello spazio che mi circonda, capire da dove provengono, emozionarmi, rilassarmi, distinguere le voci, imparare ad ascoltare.

Attraverso l’olfatto posso… identificare odori piacevoli e sgradevoli della natura e dell’intorno, riconoscere l’odore di ciascuno.

Attraverso il gusto posso… riconoscere sapori e consistenze, prendere consapevolezza delle diverse parti della bocca (le labbra, la lingua, il palato, i denti e la gola), assaporare il piacere.

Si tratta di pratiche esperienziali dello spazio intese come opportunità per valutarne la qualità e le ripercussioni sul nostro benessere a partire dall’attivazione e dell’uso libero della sensorialità. immaginando la possibilità di trasformare lo spazio in prima persona. Definiamo questa parte del processo “diagnosi incarnata”. Dopo questo tipo di attività i bambini si mostrano più immaginativi e aperti; nel costruire visioni sono soliti includere richieste di elementi naturali o si mostrano più sensibili ai materiali, ai colori, agli odori dei dispositivi di gioco che disegnamo.
Le proposte sensoriali sono particolarmente stimolanti per i bambini di città che solitamente hanno scarse opportunità di relazione con la natura e, di conseguenza, di connessione con se stessi e con il proprio essere mammifero.

4. Ascoltare
Nella scuola elementare di un paese siciliano chiediamo ai bambini di chiudere gli occhi e di restare in silenzio per aprire i sensi al loro intorno. Cominciano a captare suoni e rumori del mondo esterno, alcuni forti e imponenti: macchine e moto che passano rumorose, grida lontane, una sirena… altri sottili, il canto di un uccello, le voci degli altri, i passi dei viandanti, il ticchettio della pioggia, il vento tra le foglie …” [dai Diari di Benedetta R.]

Ascoltare il mondo, foto di Benedetta Rodeghiero

I bambini hanno la capacità di memorizzare storie intere e lo fanno a partire dal suono più che dalla vista. Per questo un’attivazione sensoriale integrale permette di ascoltare lo spazio attraverso tutto il corpo e riceverne informazioni molto più ricche e complesse.
Sentire il suono è solo la porta d’ingresso a un altro sentire più profondo, essere coscienti di quanto quel suono o rumore richiama la nostra attenzione e ci altera. Posso focalizzare la mia attenzione solo su di un suono? Come mi sento? Posso, poi riportare l’attenzione dal mondo esterno allo spazio dentro di me? Quanto spazio c’è dentro di me? Quanto spazio c’è per me?

L’ascolto profondo è questo: un dialogo tra il fuori e il dentro, accettando tutto quello che viene senza giudizio, consapevoli che non esistano risposte facili né uniformi a ciò che ricevo e che risuona dentro di me.
Si tratta di un’abilità che ha bisogno di essere praticata individualmente prima che collettivamente, che si puó acquisire attraverso il gioco, ovvero quel meccanismo di prova-errore attraverso cui tutti gli esseri umani imparano. Per questo crediamo fermamente nell’importanza del rispetto del gioco infantile come attività autonoma, uscendo dall’imperante paradigma adultocentrico. I bambini e le bambine capiscono, sanno prendere decisioni e applicarle da soli/e e immaginano un mondo che non necessariamente coincide con il nostro e merita di essere ascoltato.

5. Prendersi cura

«Care [is] a species activity that includes everything that we do to maintain, continue,
and repair our “world” so that we can live in it as well as possible.
That world includes our bodies, our selves, and our environment, all of which
we seek to interweave in a complex, life-sustaining web».
Joan C. Toronto e Berenice Fisher, Toward a Feminist Theory of Caring

Quando riusciamo a costruire un ambiente di rispetto profondo in cui ognuno si senta sicuro e possa esprimersi per quello che è senza paura di essere giudicato, sentiamo di poter parlare di cura.
La cura è un approccio di ispirazione femminista incentrato sulle relazioni anziché sui beni materiali. Abbraccia e promuove una prospettiva ecosistemica in cui gli esseri umani, insieme a tutti gli altri organismi viventi come piante, animali e microrganismi, appartengono a un ambiente permanente che esiste nel tempo oltre che nello spazio (Toronto, 2019).
Come architetti siamo stati educati a progettare gli edifici come meri contenitori, preferibilmente efficienti. Un approccio premuroso ci spinge a concentrarci su ciò che accade all’interno di questi “contenitori”, sul tipo di vita che essi accolgono e che supportano.

Una crisi come quella del Covid19 ci ha mostrato come la salute e il benessere, non la produttività, siano il centro naturale della vita umana; come la cura e la cooperazione siano gli elementi chiave per far fronte ai bisogni quotidiani delle persone, soprattutto delle più vulnerabili.
Crediamo che la condivisione sia una forma di cura. L’idea che tutto si mischia in tutto (Coccia, 2016) ci regala un nuovo orizzonte di libertà e benessere, un orizzonte dove sono libero e sicuro nell’essere legato agli altri.
Uno degli effetti più significativi di un approccio di cura è la promozione della solidarietà e della fiducia tra le persone. Essere curati si traduce nel sentirsi accolti, abbracciati e protetti, nel prendere più confidenza con l’intorno, nel prestare maggiore attenzione all’ambiente naturale.

6. Stare insieme

«Invece di chiederci come educare, dobbiamo chiederci: come vogliamo essere educati? […]
L’inversione della domanda fa passare il verbo dalla forma attiva alla forma passiva:
ci permette di ascoltare che l’educazione non è un’azione su un oggetto (lo studente, l’apprendista, il bambino…)
bensì una relazione che è soprattutto ricettiva […]
Intesa così, la ricettività non è passiva,
bensí è un’attività reciproca tra uguali […]
Chiederci come educare è chiederci come vogliamo vivere. […]
Educare è imparare a vivere insieme e imparare insieme a vivere. […]
È stare, dunque, nel non finito che siamo: aperti, esposti, fragili.
Per questo, educare, è una pratica dell’ospitalità che ha per missione
accogliere l’esistenza a partire dalla necessità di doverla immaginare.
Riceverla e al tempo stesso lasciarla essere
per quel che ha di irriducibile e incommensurabile».
Marina Garcés, Escola d’aprenents [Traduzione libera dal catalano di Benedetta R.]

Non ci è dato sapere con certezza  quando i bambini imparino, che cosa imparino e cosa sia davvero importante per loro, benché a volte ce lo lascino intuire l’espressione di piacere che si disegna sul loro volto o il brillare dei loro occhi. Comprendiamo allora che qualcosa di davvero speciale li ha attraversati.
Crediamo che sia importante preservare la magia del “non sapere” e siamo fiduciosi che ponendosi in atteggiamento di ascolto e lasciando spazio all’incognita e all’imprevisto, la risposta sul cosa sia meglio fare con loro e sul come sia meglio farlo prima o poi ci si presenterá, perché alla nostra portata e disponibile nel nostro intorno immediato. Ci siamo presto accorti che il nostro è innanzitutto un ruolo di facilitatori.

Nei laboratori ci sforziamo di creare situazioni di sicurezza e rispetto reciproco in cui si possa stare insieme ed esplorare liberamente senza il peso del giudizio, con la consapevolezza di essere legato agli altri e di potere ricevere appoggio in caso di bisogno. Cerchiamo di creare le condizioni per una ricettività tra uguali, in cui l’imparare sia una pratica di creazione e trasformazione di se stessi e dell’intorno.
Siamo consapevoli che non esista una ricetta per riparare il nostro mondo ferito. Crediamo che sia peró possibile un autoposizionamento che cominci da un profondo cambiamento personale, accettando di apprendere e di agire all’interno di una dimensione collettiva di continua collaborazione. Ogni processo che ci capiti di gestire e di facilitare si presenta quindi come una straordinaria occasione per acquisire consapevolezza, per condividere e sperimentare, per giocare, divertirsi e imparare ma, soprattutto, per sbagliare, insieme.

Imparare facendo, foto di Marco Terranova

Note
[1] Agli inizi delle nostre sperimentazioni ci siamo ispirati alla visione di Colin Ward (1979) sugli usi collettivi e non ufficiali dello spazio da parte di un’infanzia molto intraprendente. L’approccio ecologico sviluppato dallo psicologo americano James Gibson (1979) ci ha fornito nuovi strumenti per comprendere come i bambini, in quanto esseri umani, regolano il loro comportamento rispetto alle disponibilità dell’intorno.
[2] Chiamiamo “paesaggio sensoriale” una installazione temporanea realizzata con materiali non strutturati che offre una proposta di gioco per esplorare liberamente lo spazio attraverso il corpo e il movimento spontaneo, tenendo in conto solamente alcune semplici norme d’uso e convivenza per garantire la sicurezza e il benessere dei partecipanti. I paesaggi permettono di approfondire il potenziale dei 5 sensi o sperimentare con l’equilibrio o il salire e scendere.
[3] Quando usiamo il termine “incarnato” ci riferiamo al concetto di “embodiment” secondo cui incarniamo qualcosa quando ne abbiamo esperienza diretta e siamo consapevoli di ciò che facciamo.
[4] Il lavoro empirico di Elfriede Engstenberg (2012) ed Emmi Pikler (1984) ci ha aiutato a chiarire l’influenza decisiva della libertà di movimento sul benessere integrale del bambino, e la necessità di proporre agli adulti di non interferire in questo naturale processo di crescita.
[5] Quando utilizziamo la parola “corpo” ci riferiamo ad esso da una prospettiva integrale, d’accordo con la visione propria della coscienza corporale (J. Tolja e F. Speciani, 2014), la somatica e l’Awareness Trough the Body (A. Martí e J. Sala, 2006). Il corpo come espressione visibile dell’essere umano ha le seguenti dimensioni: fisica, energetica, emozionale, mentale e trascendentale. Tutte sono unite e interdipendenti tra loro e, a seconda del momento, una delle dimensioni si attiva più delle altre.
[6] L’idea che la cognizione è una azione incarnata è alla base dell’ “approccio enattivo”, “incarnato e situato”, proposto da Varela, Thompson e Rosch (1991) secondo cui la mente umana è incarnata nell’intero organismo ed è situata nel mondo.
[7] La propriocezione, o cinestesia è stata definita da Charles Scott Sherrington come è la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli, senza il supporto della vista.

Bibliografia
Bowlby J., Maternal Care and Mental Health, Bull World Health Organ, Ginevra, 1951.
Cassano F., Il pensiero meridiano, Laterza, Bari, 1996.
Coccia E., La vita delle piante, Il Mulino, Bologna, 2016.
Garcés M., Escola d’aprenents, Galàxia Gutenberg, Barcelona, 2020.
Gibson J., The Ecological Approach to Visual Perception, MT: Houghton, Mifflin and Company, Boston, 1979.
Hengstenberg E., Desplegándose: imágenes y relatos de mi labor con niños, La liebre de Marzo, Barcelona, 2012.
Martí A., Sala J., Awareness Through the Body. Sri Aurobindo International Institute, Auroville, 2006.
Pikler E., Moverse en libertad: desarrollo de la motricidad global, Narcea, Madrid, 1984.
The care collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Edizioni Alegre, Roma, 2021.
Tolja J., Speciani F., Pensare con il corpo, Tea, Milano, 2014.
Toronto J. C., Caring Architecture. In Fitz A., Krasny E. (Eds.), Critical Care. Architecture and Urbanism for a Broken Planet, Architecturzentrum Wien & MIT Press, Vienna, 2019.
Varela, F.J., Thompson, E., Rosch, E., The Embodied Mind, MIT Press, Cambridge (ma), 1991.
Ward C., The Child in the City, Penguin, Harmondsworth, 1979.

Benedetta Rodeghiero
Sono architetta e PhD in progettazione post catastrofica per generare luoghi di benessere per tutti. Sono stata docente in Spagna, Italia, Portogallo, Danimarca, Cile, Messico. Dal 2011 a Lemur accompagno processi esperienziali di progettazione e costruzione partecipata, praticando ascolto attivo, coscienza corporale, resilienza urbana ed educazione viva come strumenti di coesione sociale. Grazie ai miei 3 figli esploro la relazione tra corpo, movimento e spazio e cammino scalza nel bosco per restare connessa.
www.lemur.cat

Marco Terranova
Sono architetto e costruttore. Lavoro con legno e materiali naturali. Da dieci anni supporto processi di  rigenerazione urbana e community building  attraverso lo strumento del cantiere collettivo. L’anima nomade mi ha portato a lavorare dai villaggi del Burkina Faso ai Jardins des Tuileries di Parigi sotto l’alias di Senzastudio. In Sicilia  collaboro con le  principali realtà che si occupano di rigenerazione e innovazione sociale. Dal 2016 sono membro di Lemur.
www.senzastudio.com