§L'educazione nel corpo. Per una somatica della relazione pedagogica
The School of Narrative Dance:
corpo, movimento, partecipazione e fioritura
Intervista con Marinella Senatore di Ginevra Ludovici

Marinella Senatore nasce nel 1977 a Cava de’ Tirreni. La sua pratica artistica, caratterizzata dalla partecipazione pubblica, si articola attraverso performance, dipinti, collage, installazioni, video e fotografie; le sue opere coinvolgono intere comunità intorno a tematiche sociali e questioni urbane quali l’emancipazione e l’uguaglianza, i sistemi di aggregazione e le condizioni dei lavoratori. Nel 2013 fonda la School of Narrative Dance, una scuola multidisciplinare, nomade e gratuita, basata su un’idea di educazione partecipativa e anti gerarchica.

La seguente conversazione si concentra sulla School of Narrative Dance (SOND), volendo approfondire il tema dell’educazione nel corpo all’interno del progetto di lungo termine iniziato da Senatore.

Marinella, nel 2013 hai fondato la School of Narrative Dance (SOND), una scuola nomade, gratuita e itinerante che propone un sistema didattico alternativo di educazione, basato sull’emancipazione, l’inclusione e l’autoformazione. Uno dei perni del progetto è il suo carattere multidisciplinare che permette di unire ogni volta molti gruppi e comunità, celebrando la varietà di talenti e competenze che ogni singolo membro può offrire o sviluppare. Com’è nata l’idea della SOND e come si è evoluta negli anni? C’è stata qualche esperienza o contributo nel tuo percorso che ne ha ispirato la creazione?

Dal 2006 ho cominciato a realizzare progetti con una fortissima componente partecipativa; normalmente si trattava di produzioni filmiche o videografiche nelle quali il pubblico partecipante veniva coinvolto in tutte le fasi della produzione. È stato particolarmente importante, in questo senso, un lavoro fatto nel 2010 e presentato l’anno successivo nella sezione internazionale della Biennale di Venezia, intitolata ILLUMInations e curata da Bice Curiger. Si tratta di Nui Simu, un’opera prodotta dal Museo Riso di Palermo e realizzata ad Enna con un gruppo di minatori. Questo intero progetto aveva il suo focus non solo sul processo – che è importantissimo, come ho appreso in tanti anni di attivismo – ma anche sulla produzione dell’opera d’arte. In questo caso si trattava per l’appunto di un video, per il quale ho deciso di invitare un gruppo di circa trenta minatori del parco minerario di Floristella (Enna). La conoscenza con questo gruppo di persone è stata un avvenimento cardine della mia vita che mi ha aiutata a capire quanto l’esperienza vitale sia decisiva nella mia pratica. In quel contesto ho realizzato che non avevo difficoltà ad entrare in una comunità, ad interfacciarmi con essa senza essere abusiva, non imponendo mie idee o preconcetti personali sui partecipanti – d’altronde già nel 2010 riuscivo a capire come fare – ma che la parte più complicata era uscirne, dunque lasciare le comunità una volta finito il lavoro. Questo era un aspetto molto importante per me, anche perché in quel momento ero completamente nomade e vivevo nei posti dove lavoravo, entrando a far parte delle varie comunità per diversi mesi, alcuni anni a volte. 

Un altro lavoro che mi ha portata a questa consapevolezza è stato Rosas, una trilogia di opere per lo schermo, creata nel 2012, anno in cui io faccio coincidere la vera e propria ideazione della SOND. In realtà già con Nui Simu e, poi con Rosas avevo vissuto un anno intero nelle comunità con cui avevo lavorato, collaborando con oltre 20.000 partecipanti in tre diversi paesi: Spagna, Germania e Regno Unito. 

A quel punto della mia vita entravo nelle comunità e dovevo andar via perché altre mi aspettavano, e mi sono resa conto sempre di più e con estrema chiarezza che per me questa cosa diventava poco sostenibile, sia a emotivamente, perché si sono venute a creare delle grandissime affettività che durano tutt’oggi, che concettualmente. Infatti, lavorando sulla partecipazione a livello metodologico e soprattutto contenutistico, c’era qualcosa che ancora non andava, in quanto non riuscivo a individuare i tratti comuni tra un posto e l’altro. Se mi si chiede cosa unisce questi luoghi oggi, dopo aver attraversato oltre venti Paesi con la SOND e aver lavorato con più di sei milioni di persone, io dico assolutamente niente, non l’immaginario, né l’approccio al corpo né tantomeno all’auto-apprendimento. C’è un livello altissimo di diversità già in una stessa comunità, figuriamoci passando da una città all’altra, da un Paese all’altro, o addirittura, da un continente all’altro. 

Ma una cosa mi era molto chiara, perché mi veniva detta, e, dunque, non era frutto solo di una mia deduzione, ed era questa assenza di appartenenza, questa grande crisi generalizzata del concetto di comunità, di gruppo. Sentivo che mancava un contenitore, un ombrello che potesse racchiudere queste esperienze,  nel quale le persone che vi avevano partecipato –  che molte volte viaggiavano da un luogo all’altro, se era possibile, per fare una nuova e diversa esperienza – potessero ritrovarsi. Ho voluto creare questo contenitore unendo anche i processi didattici che, essendo io anche educatrice, mi interessavano molto, specialmente il non-verbale. Insomma, in quel momento nasce la SOND.

Marinella Senatore, Palermo Procession, 2018. Public performance. Courtesy the Artist and Manifesta Biennial
Marinella Senatore, Palermo Procession, 2018. Public performance. Courtesy the Artist and Manifesta Biennial

La Scuola mette al proprio centro l’idea dello storytelling come esperienza che può essere esplorata coreograficamente. Che tipo di metodologie adotti per favorire la costruzione di una narrazione corale che si esprime attraverso il movimento di corpi? Come assembli soggettività e corporeità diverse in un processo di emancipazione che ha un esito performativo?

La SOND ha ben poco a che vedere con la performance, che nel nostro caso è solo la restituzione finale di un processo più ampio. Con questo intendo che, se ripercorriamo la performance art come medium da un punto di vista storico, essa risulta molto diversa da quello che facciamo noi, che, comunque è sicuramente un’azione performativa, perché utilizza dei linguaggi che sono performativi, ma non ha la radice nell’arte performativa. Io stessa non performo, per esempio, e poi per noi vi è un’attenzione particolare verso un certo tipo di spazio: la strada. 

La strada è il luogo dove i partecipanti stessi vivono, dove hanno dei ruoli assegnati dalle strutture sociali. Molte volte sono strade dove dormono di notte o che percorrono sentendosi sconfitti, o sono elementi di passaggio quando vi fanno la spola per andare verso un lavoro che non li soddisfa, oppure esattamente l’opposto, strade attraversate cercando di dare il proprio meglio. Per noi il luogo della restituzione è sempre la strada, e si tratta di una scelta molto naturale, che non mi sono mai trovata neanche a dover discutere con i partecipanti. La strada è dove si possono ridisegnare e riscrivere i ruoli sociali e dove il concetto di vulnerabilità può essere rimesso in discussione. 

In generale, la SOND attrae molti gruppi cosiddetti stigmatizzati, minoranze numeriche, non necessariamente cercate. La nostra open call è veramente aperta a tutti e io adotto metodologie diverse nei vari posti, essendo un lavoro estremamente site-specific, perché nel momento in cui approccio un determinato posto anche le strategie di comunicazione con le persone possono variare completamente rispetto a un progetto fatto il mese prima in un altro sito. 

Quindi ci muoviamo attraverso differenti livelli di comunicazione, cercando di far sentire tutti invitati; è poi secondario se parteciperanno o no, per me l’azione più politica di tutto il processo sta proprio nell’open call, che avviene attraverso una varietà di canali e si plasma sulla comunità, tenendo conto della diversità linguistica e culturale in maniera estremamente seria. Non solo, teniamo conto anche delle possibilità di ricezione di un invito che non può andare soltanto per canali digitali, ma che usa altri strumenti come volantini, radio indipendenti, giornali locali, free press o un megafono che passa per le strade, cercando, quindi, non solo di mappare il territorio ma anche le energie locali che possono diventare educators e students nello stesso momento. 

La SOND è ormai formata da milioni di persone, da cellule che si trovano in tutto il mondo, ma, a differenza di quello che si pensa in alcuni casi, io non arrivo in una comunità come un’astronave, portando con me un nutrito team che mi aiuti. Molte volte sono solo io e magari i coreografi che, a seconda della potenzialità linguistica e vicinanza geografica, possono venire a collaborare. Questo è un elemento importantissimo: alla fine il team è ridotto all’osso, in maniera tale che possa essere davvero creato con le energie che vogliono farne parte. Questo vale anche per il processo di produzione, organizzazione, realizzazione dei vari workshop della scuola che, come ben hai scritto, non è solo incentrata sulla danza in senso atletico, ma sul mindful movement, sulla conoscenza dei propri limiti e potenzialità, sul processo che porta la persona ad emancipare se stessa e gli altri. Le energie in gioco sono composte da me, ma anche dai vari istruttori che possono esserci sul territorio, che poi in molti casi sono vicini di casa, concittadini o addirittura persone che i partecipanti conoscono, ma con ruoli sociali completamente diversi. Penso a cosa ha potuto significare, per esempio, nella restituzione della SOND a Palermo per Manifesta 12, il fatto che la processione fosse guidata un gruppo di non vedenti; in quel contesto non sono stati chiamati a fare delle attività per compiacere chi vede, ma hanno avuto un vero e proprio ruolo. Dopo aver approcciato il loro gruppo e capito le loro potenzialità ma anche i loro desideri, è stato estremamente commovente vedere la loro reazione quando ho proposto di essere i leader di un’intera processione che avrebbe avuto migliaia di persone dietro di sé (e ci tengo a specificare che non è scontato che io lo faccia, anzi, di solito procedo facendo molti passi indietro, ma avevo capito che in questo caso era una cosa che poteva essere importante).

Il sentimento comprendeva tutte le prerogative dello stato e del momento in cui si trovavano,  cioè dei non vedenti che si ritrovano a condurre nelle strade della città una grande quantità di persone che li hanno visti sempre in un altro modo, pensando che non sarebbero potuti essere i leader – anche se parole come leader, professore, studente perdono di consistenza, perché l’ambiente che si genera nella scuola è un ambiente non-competitivo, dove il fallimento è messo in discussione come concetto e dove gli obiettivi diventano secondari rispetto al modo in cui ci si sente in quel momento e a quanto un lavoro sul corpo può aiutare ogni partecipante a fiorire.

Marinella Senatore, Palermo Procession, 2018. Public performance. Courtesy the Artist and Manifesta Biennial
Marinella Senatore, Palermo Procession, 2018. Public performance. Courtesy the Artist and Manifesta Biennial

Un aspetto che mi interessa molto del progetto è il suo essere nomadico, non legato quindi a una specifica geografia, ma pronto ad assumere forme e contenuti diversi rispetto al contesto di riferimento. Fino a ora è stato realizzato in circa 30 diverse città fra Italia ed estero. Quali sono state le maggiori sfide che hai incontrato nel costruire comunità temporanee e nel dirigere persone con background e culture differenti? E soprattutto, secondo te, quali sono le potenzialità di questo modus operandi?

Le potenzialità di questo modus operandi sono infinite a mio avviso, ed è chiaro che ho scelto questa struttura di lavoro oculatamente per lavorare in maniera assolutamente site-specific, sia in termini fisici che sociali. Infatti, intendo lo spazio pubblico come spazio sociale, politico e potenzialmente trasformativo. 

Per me avere un’idea preconcetta e arrivare in una comunità, affermando che quello che si sta facendo è arte partecipativa, è un grandissimo equivoco che allontana dall’arte contemporanea persone che magari erano già di loro abbastanza lontane. Reputo, infatti, deleteri questi progetti “partecipativi” in cui viene imposto un ruolo abusivo dall’artista, per cui non si costruisce il lavoro dal basso tutti insieme, non si tiene conto della specificità del contesto e non si è disposti a rinunciare a qualcosa di sé. Quando si fa arte partecipativa bisogna rinunciare a qualcosa di sé, altrimenti si rischia di opprimere l’altro con le proprie idee, o addirittura di farle realizzare dai partecipanti in maniera un po’ subdola e anche poco corretta eticamente, quando in realtà stanno diventando dei meri esecutori dell’idea che l’artista ha in mente. In questo caso, secondo me, siamo di fronte non solo a una negazione dell’arte partecipativa stessa, ma a un semplice progetto d’arte che invece che realizzarsi con determinati materiali e forme in studio va anche a scomodare delle persone. Va benissimo se le persone vengono pagate e sono coscienti di ricevere delle istruzioni, ma purtroppo non è sempre così e per me questo è molto grave. 

Dunque, per me è una contraddizione in termini procedere con uno statement artistico e un focus di ricerca come i miei, che sono davvero sulla partecipazione su tanti livelli e gradi differenti, e poi magari lavorare dalla propria casa, facendo ricerca sulle persone o sulle comunità da Wikipedia o Google.  È umiliante e abusivo. È tutto quello in cui non credo, che non ho mai fatto e non farò mai. Diversamente, invece, ci sono tante possibilità, ma se non si lavora anche sull’ego e sul concetto di autorialità si possono generare delle situazioni molto frustranti per le persone. 

Nella mia pratica, la prima a essere messa in discussione, ad avere dei background differenti, e a portare e mostrare al gruppo quello che so e che non so, sono io stessa. Il mio ruolo è attivare dei processi ma, molte volte, quando vedo che delle discussioni stanno andando in un senso emancipatorio, e quindi che la mia presenza potrebbe essere vista come quella di una specie di giudice in grado di stabilire cosa è giusto o sbagliato di quella conversazione o delle decisioni creative che si stanno prendendo in quel momento, è proprio lì che io faccio i passi indietro. Mi tolgo di mezzo, fisicamente e lavorativamente, non impongo la mia idea e lascio che fiorisca ciò che sta arrivando. È un rischio enorme ma nessuno mi ha obbligato a fare questo lavoro, avrei potuto lavorare in altro modo, ma lo voglio fare, e lo voglio fare così. 

 

Come raccontavi, uno degli elementi ricorrenti nel contesto della Scuola è il coinvolgimento diretto di membri della comunità locale, che vengono invitati a partecipare attivamente alla realizzazione di una coreografia. Hai parlato di autorialità: vorrei capire meglio come concepisci il tuo ruolo autoriale rispetto alle dinamiche partecipative che attivi ogni volta nella progettazione delle performance. In che modo viene sviluppato il processo creativo?

Parzialmente ho già risposto alla domanda, ma è importante specificare in che modo mi pongo a livello autoriale rispetto alle dinamiche partecipative che attivo di volta in volta. Le coreografie non vengono ideate da me: non sono una coreografa, né un’esperta di movimento, mi affaccio alla pratica del movimento e collaboro con tantissime persone che hanno approcci diversi ad esso, come ad esempio kramp, parkour, art du déplacement, coreografia contemporanea, sport, mindfulness etc. Non lavoro mai e poi mai su coreografie o anche storyline scritte o ideate da me. La grandezza dell’arte partecipativa che io trovo in quello che facciamo è che si costruisce davvero insieme agli altri e dal basso. Nemmeno quando realizzavo film e video con le comunità il plot narrativo era ideato da me, ma veniva scritto letteralmente insieme ad altri. E a volte nemmeno da me in prima persona, o non sempre. Quello che faccio è attivare, facilitare, non organizzare soltanto. Rispetto alla questione della coreografia e del movimento, ma anche di tutto lo storytelling che avviene per strada – in cui ci sono commistioni con gruppi che fanno anche altro, dalla musica, alla slam poetry, all’attivismo – il lavoro è tutto incentrato sul concetto di cura, emancipazione, fioritura ed empowerment delle persone ed è volto non a fare qualcosa che io ho in testa, ma a crearlo insieme. Per quanto riguarda le coreografie, i collaboratori che scelgo – ed è per questo che normalmente sono gli unici che porto nelle diverse situazioni, anche se collaboro ormai con molti professionisti diversi –  sono persone che hanno un approccio al movimento che mi interessa per l’esperienza della scuola. Poi ci sono tanti modi di approcciare il corpo e non sono certo io quella che preparerà i danzatori, o cose del genere, anzi vedo tutti i limiti politici e stigmatizzanti di alcuni stili di danza, come ad esempio la danza classica, che viene in numerosi casi reinventata e ripensata da molte energie in maniera più inclusiva di quello che è. In generale, nella SOND si osservano i movimenti vernacolari, il vocabolario che il corpo già contiene e anche il processo di cura che attraverso il corpo può arrivare alla persona, da parte per esempio dei coreografi di danza contemporanea o dei coach di parkour attraverso i loro input, sempre volti a guardare quello che c’è lì, non ad imporre un movimento, ma a osservare quello che naturalmente viene dalle persone e che esprime la loro storia, la memoria collettiva e autobiografica, le tensioni e i desideri. 

 

Come ultima domanda vorrei chiederti se hai in programma nuove tappe della SOND per il prossimo futuro. E, inoltre, in che modo pensi cambierà l’approccio dei partecipanti rispetto al progetto dopo gli ultimi mesi di lockdown e distanziamento sociale. 

In pienissima pandemia, nel primo lockdown dell’anno scorso, abbiamo lavorato ad Amsterdam; il prossimo luglio verrà presentato in anteprima il film che racconta di tutta quell’esperienza. 

Il corpo non smette di esistere solo perché non ci si può toccare più come prima e si deve stare a una distanza un metro e mezzo. Anzi, proprio in quel momento c’è stato tanto da ragionare sul corpo e sulle possibilità dei singoli in relazione agli altri. Tali riflessioni hanno portato a rivedere e ripensare il concetto di comunità e capire anche come poter continuare a lavorare e proseguire con i vari progetti. La SOND è sempre stata online, anche prima della pandemia, e personalmente sono ben felice che esistano piattaforme digitali che mi consentono di lavorare con milioni persone. Ad esempio, quando ho coinvolto più di tre milioni di bambini delle scuole primarie italiane con un progetto commissionato dalla Peggy Guggenheim Foundation di Venezia, per me era impossibile non usare il digitale per comunicare con tanti partecipanti. Lo utilizzavo tantissimo durante la pandemia per raggiungere le persone in carcere e lavorare in una maniera molto più orizzontale senza neanche dover fare dei distinguo fra chi può essere in presenza e chi online. Finché sei online non importa dove vieni, puoi anche non dire tante cose su di te e dirne altre che magari hanno un senso diverso, soprattutto quando sei in uno spazio sicuro come quello di una creazione artistica, non giudicante e non competitivo. 

L’online è stato fondamentale con tutta una serie di persone che da anni fanno parte della comunità della SOND, tra cui anziani delle RSA, persone con situazioni di Alzheimer molto severe e altri ammalati che sono raggiungibili sempre e solo attraverso questo tipo di piattaforme. Sicuramente voglio continuare con questo strumento, anche perché adesso lo sento molto urgente, e inoltre mi viene chiesto anche in maniera molto spontanea dai Comuni, neanche più passando necessariamente per le istituzioni d’arte. Tantissimi musei continuano a chiedere di fare la SOND online, e sento che sempre più la scuola, perché fatta da persone straordinarie, non certo per mio merito, è stata molto utile. La mia grande paura è invece che si tenda a voler far tornare tutto come prima dello scoppio della pandemia, il che sarebbe un gravissimo errore e un pericolo. Le riflessioni che si erano aperte durante la prima fase non possono essere tralasciate perché secondo me erano pensieri e dinamiche molto importanti da portare avanti e capire bene: ci si interrogava sul bene comune, sul concetto di comunità, di trasformazione delle relazioni e di possibilità di vicinanza pur nella distanza fisica. La SOND sta lavorando attualmente in due posti, che, per le condizioni pandemiche, sono tra i più drammatici della terra: in Brasile, alla Biennale di São Paulo, con un gruppo enorme, e in Sri Lanka, dove le condizioni sono veramente terrificanti. In entrambi i casi stiamo lavorando da remoto e i nostri protocolli sono ben solidi, rimane saldo il nostro approccio site-specific e il coinvolgimento di energie locali che ci aiutano e che sono membri attivissimi della scuola. Pensa che per la Biennale di São Paulo abbiamo i coach di parkour da Londra, io che mi collego dall’Italia, e tutto un team locale che è a São Paulo insieme a migliaia di partecipanti, in una delle zone più critiche della città che si chiama cidade tiradentes, che si trova a due ore dal centro. Si tratta di un progetto molto complesso e difficile ma che sta funzionando benissimo. Ragionare sul corpo con la distanza sociale è importante, perché significa ragionare sulla nostra fioritura, sui mindful movements, sulla cura, sul corpo in relazione anche a unità abitative che sono percepite come asfissianti: tutto questo ha una grandissima importanza e potenziale. 

Ginevra Ludovici (Roma, 1992) è curatrice indipendente e dottoranda di ricerca presso l’IMT School for Advanced Studies di Lucca. Laureata in Economia e Management e in Storia dell’Arte Contemporanea, nel 2019 ha frequentato CAMPO – corso per curatori della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ed ha co-fondato il collettivo curatoriale CampoBase. Ha svolto diverse collaborazioni con istituzioni nazionali e internazionali, fra cui Carpe Diem Arte e Pesquisa (Lisbona), Centro di Ricerca ASK – Art, Science, Knowledge (Milano), MoMA – The Museum of Modern Art (New York) e Pushkin Museum (Mosca). Nel 2019-2020 è fra i curatori selezionati per il curatorial lab presso la V-A-C Foundation (Venezia) e per il programma di residenza Embedded Art Practices in Post Pandemic Future presso Accademia UNIDEE (Biella). La sua attività di ricerca verte su programmi di pedagogia radicale e processi di auto-istituzionalizzazione nell’ambito artistico.

Marinella Senatore è artista. Le sue opere sono state esposte in diverse sedi, sia in Italia che all’estero, come il Centre Pompidou di Parigi, il museo MAXXI di Roma, la Kunsthaus di Zurigo, la Berlinische Galerie, il Castello di Rivoli, il Palais de Tokyo di Parigi, la High Line di New York, il Museo Madre di Napoli, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, la Serpentine Gallery di Londra, Palazzo Grassi a Venezia, il Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, il Moderna Museet di Stoccolma. Ha partecipato a molte importanti manifestazioni internazionali, come Manifesta 12 e alle Biennali di Lione, Liverpool, Atene, Havana e Venezia. Marinella Senatore ha vinto la quarta edizione dell’Italian Council, il Premio MAXXI, la fellowship della American Academy in Rome e il New York Prize.