§archivio è potere
Il Giappone di Linda Fregni Nagler
di Azalea Seratoni

Questo racconto comincia con il ritrovamento di una stampa all’albumina che ritrae una donna con kimono e un ombrello wagasa. Si tratta di un ritrovamento fortuito ma non di una prima volta. Linda Fregni Nagler ha una certa consuetudine a guardarsi attorno – con un “occhio-ape”, come scriveva Ceronetti di Cristina Campo. Di volta in volta mette a fuoco un tintype che ritrae un ragazzo dagli occhi di ghiaccio su una barca, una Tapada Limeña su una carte de visite, un vetro per lanterna magica con una fotografia di gruppo di brasiliani (tutti ciechi tranne uno), o una madre nascosta dietro a un bambino in un dagherrotipo, senza alcuna determinazione apparente nella scelta. Sembra essere più attratta, appunto, dalle prime fotografie e “ardente” di quello stesso desiderio che, tra il tardo Settecento e il 1839, portò alcuni scienziati e artisti a sperimentare e fissare le immagini prodotte nella camera oscura.
In una camera oscura Linda Fregni Nagler ci è andata presto, con una precocità pari alla sua sete di conoscenza, e ha imparato lì come una fotografia si fa ed è fatta, la carta su cui si stampa, la chimica dei composti, il loro odore, il tempo d’immersione e di fissaggio, insomma la sua materialità. E proprio nel buio di quella stanza, nel maneggiare supporti e considerare valori e dimensioni, osservando l’umido, lento e fantasmatico apparire dell’immagine, i molteplici effetti e i diversi risultati – forse anche nel vedere appesi quegli oggetti come calzini – ha fatto una scelta. L’ha fatta in un momento preciso della storia delle immagini, coincidente con la comparsa del digitale. Ha scelto la fotografia analogica e inizato così a raccogliere e archiviare fotografie originali. Una convinzione che dura tuttora.
Questa è, però, la prima fotografia trovata raffigurante una donna con ombrello. C’è da dire, anche, che Linda Fregni Nagler non si è mai accontentata di accettare il modo lampante, epifanico, sebbene oscuro, con cui un’immagine appare. Come se a ciascuna immagine servisse concedere del tempo perché si decida a parlare, per vederla veramente. Continua a muovere lo sguardo intorno, per soffermarsi su un’altra immagine e un’altra ancora, su alcuni aspetti di queste immagini che via via incontrae riconosce, pur senza dirselo esplicitamente. Queste azioni si svolgono nello spazio e nel tempo.
A un certo punto, si è imbattuta in una seconda fotografia con la stessa donna e lo stesso ombrello. Se la prima è ritratta in un giardino coperto dalla neve, questa invece si ripara dalla pioggia.

Kusakabe Kimbei o Barone Raimund von Stillfried, “Wind Costume”, 1870 - 1890 Stampa all’albumina colorata a mano 22.9 × 17.4 cm Courtesy l’artista

Sono simili, ma anche diverse. Hanno qualcosa in comune, ma si distinguono per alcuni dettagli. Deve aver comprato la prima, forse chiedendosi, con Éluard e Breton, fino a che punto questo incontro le ha dato “impressione del fortuito o del necessario”. Ha poi raccolto molte altre immagini dello stesso genere. Dopo circa vent’anni da quel primo appuntamento, continua a farlo. Con cinque di queste ha realizzato un polittico di cui tra poco diremo.
Inizialmente l’immagine si presenta per caso, tacitamente, è un oggetto silenzioso, ma è sempre da questo primo indizio che si innesca il desiderio di raccogliere. La scoperta di un secondo soggetto identico approfondisce questo avvio, questo guizzo, quando c’è un motivo che ricorre, quando Linda Fregni Nagler nota, attraverso un nuovo elemento, somiglianze e dissomiglianze: quella che Wittgenstein direbbe una certa “aria di famiglia”. La somiglianza di cui parla nelle Ricerche filosofiche, quando parla di “giochi”, è definibile come una parentela in cui le somiglianze si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Come potrebbero essere delle particolari sopracciglia a forma di pagoda in una nonna e in una nipote e anche in un padre, ma lievemente più appuntite. Anche quello di Linda Fregni Nagler è un riconoscimento anzitutto visivo, come se quei segni si componessero in costellazioni luccicanti di senso.
Linda Fregni Nagler ha una disposizione legata agli aspetti sensibili e materiali delle immagini. Il linguaggio interviene, poi, nel cogliere gli oggetti e attiva la determinazione semantica e intellettuale di queste immagini, delle loro relazioni. L’organizzazione degli artefatti non può però essere un semplice mettere-insieme. È una questione di scelta, di preferenza (proaìresis), di privilegiamento. Se si conosce il significato, il senso, quindi la natura più profonda degli oggetti della propria indagine, se si ha una conoscenza accurata per potergli dare il senso più giusto, la scelta sarà sviluppata con libertà e nella più completa autonomia.
Non tutte le immagini, pur aspirandovi, possono entrare in una raccolta: è l’artista che le tiene fuori. Il maggior impegno di Linda Fregni Nagler è nel dire questo “no”. L’immagine, nella sua ambiguità, dischiude un’indefinita moltiplicazione di possibilità operative, semantiche, concettuali e conoscitive. Le raccolte di Linda Fregni Nagler possono essere costituite da oggetti assai diversi, legati da un cortocircuito tra artefatti disparati che stabiliscono tra loro un’unità o che è l’artista a stabilire. Il primo caso, il primo indizio di cui dicevamo – e, con questo, il successivo riconoscimento di una variante in seno all’identico – è lontanissimo dalla formazione di una futura tassonomia intellettuale e di un’opera d’arte; purtuttavia, una tassonomia non potrebbe costituirsi se non fosse preceduta da questa forma preliminare e approssimativa che si presenta come inaspettata e nuova, come se venisse incontro da un altro mondo e si mettesse quasi da sé stessa a parlare, senza l’interferenza dei concetti.
L’immagine è la fonte mobile e cangiante di possibili sensi e conoscenze. Il gesto di Linda Fregni Nagler è riattivare questo materiale in via di estinzione, in mezzo alle ceneri di qualche sconosciuto passato, inveduto, perché si tratta di immagini anonime da cui nessuno si attende più niente, ma gratificato dal suo sguardo. Si tratta di torcere e dislocare questa massa informe e indistinguibile per evidenziare le forme soggiacenti che compongono un discorso visivo, privilegiando la periferia della storia delle immagini, scegliendo il margine, il minimo, il minore, forse anche il minuscolo e il perituro.
Linda Fregni Nagler pone le immagini sotto osservazione come entità formali, materiali e quasi viventi, “imitazioni della vita”, soggette a una storia naturale quanto culturale.
È sempre offerta la possibilità di dire tutto, in tutti i modi possibili, ma si arriva a dire una cosa, in un modo particolare. Così, nella pratica di Linda Fregni Nagler, nel suo atto di raccogliere inteso come sguardo, si originano via via forme diverse di traduzione. È un invito anche, gentile ma alacre, a rimuovere la corazza visiva degli schemi di ricerca prestabiliti che impediscono di andare incontro all’immediatezza e alla qualità dell’esperienza visuale. Un invito a liberarsi per vedere.
È giusto avvertire il lettore che qui si dirà a proposito di alcuni soltanto di questi gesti di traduzione e tradimento, in riferimento a una famiglia di oggetti che si colloca, come gli altri, fuori dal tempo – l’immagine d’esordio della donna in kimono e wagasa annunciava che di storia e di Giappone si sarebbe parlato – ma anche di un corpus diverso da tutti gli altri, perché si tratta di metafore visive e narrative, di forme di immagini riflessive, che si collocano inconsapevolmente nel dominio concettuale della fotografia.
Quando le navi del commodoro Perry arrivarono in Giappone, il porto di Yokohama divenne uno dei luoghi di maggior passaggio di persone e di cose. Dalla metà degli anni Cinquanta del XIX secolo, il mondo scoprì un paese ancora feudale che presto sarebbe diventato ipermoderno. Le strade si riempirono di botteghe e atelier di fotografi e coloristi che si specializzarono nella realizzazione di album per quei viaggiatori che si sarebbero spinti fin lì, sempre più numerosi e incuriositi da una certa idea di esotico. Avrebbero riportato a casa un souvenir che ripercorreva l’itinerario di viaggio e la memoria di una realtà che era già da raccontare come una fiaba: mukashi mukashi, c’era una volta. Una scatola di artifici che cristallizzava per sempre, in una sequenza di immagini, una convenzione iconografica.
La fotografia giapponese dell’epoca Meiji nasce così, grazie, soprattutto, alle gesta ardite di tre figure di avventurieri bon vivant che venivano dall’Europa come Felice Beato, il barone Raimund von Stillfried e Adolfo Farsari. Insegnarono ai giapponesi a fotografare, a Kusakabe Kimbei, ad esempio.
Le immagini della Yokohama Shashin devono molto alle forme, ai generi e ai soggetti delle stampe xilografiche ukiyo-e, anche la loro preziosità, perché per poterle comprendere appieno, è necessario osservarle da un punto di vista puramente estetico. Così è anche per Linda Fregni Nagler. Ma ci sono altri motivi di attrazione. Le fotografie sono colorate a mano, con perfetta sensibilità, in modo raffinatissimo. La colorazione si innesta, per lei, nel discorso sulla materialità, approfondendolo di una componente che un artista – perfino Duchamp! – fatica a mettere da parte, l’uso della mano e del pennello. D’altronde, è stato sempre Duchamp a dire che le minute differenze tra cose “uguali” sono un inframince.
L’intervento manuale si applica qui a una tecnica di riproduzione meccanica. Gli studi fotografici si copiavano, fotografando serialmente gli stessi soggetti, i più seducenti per la clientela. Organizzavano la produzione nello stesso punto privilegiato per la vista del monte Fuji o allestivano la stessa messa in scena per la posa in studio di venditori di fiori o anche le scene di strada. Quando un atelier chiudeva, un altro ne ereditava le lastre già realizzate. Difficile accordare la paternità di un’immagine. È solo dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso che è iniziato il complesso lavoro di attribuzione. Molte fotografie della Scuola di Yokohama sono ancora anonime. Il loro anonimato ha eccitato l’immaginazione di Linda Fregni Nagler e il suo muoversi da detective; come un ricercatore che ragiona al confine tra copia e plagio. Restano opere senza autore. Anche quella di Linda Fregni Nagler è una presenza autoriale assottigliata al massimo, come se si nascondesse – con inconsapevole consapevolezza direbbe un maestro zen – per mettersi nei panni di un fotografo della seconda metà dell’Ottocento.
Si diceva – e basta indugiare – del soggetto donna con ombrello e del ripetersi regolare e inesorabile di questi ritrovamenti quasi identici l’uno all’altro. Snow and Rain è un’opera datata 2009-2011, realizzata da Linda Fregni Nagler per la sua mostra personale, Shashin no Shashin, “fotografare la fotografia”, del 2011.

Linda Fregni Nagler, “Snow and Rain”, 2009-2011 5 Stampe ai sali d’argento, viraggio al selenio 22.9 × 17.4 cm ognuna Courtesy l’artista e Galleria Monica De Cardenas, Milano

È un polittico costituito da cinque fotografie in bianco e nero. Nella sequenza orizzontale – quasi più la predella di un polittico dove spesso si osservano gli esiti più virtuosistici – c’è un dosaggio armonico di chiaroscuri, pur prevalendo al centro una nota di bianco. La prima immagine ritrae una donna in abiti invernali in un esterno, una porzione di giardino, coperto dalla neve. L’ombrello è nero, inclinato verso sinistra. Nella seconda l’ombrello è chiuso e portato al braccio; sta nevicando. Nella terza la donna, vestita di un abito più leggero dal motivo ornamentale, prova a proteggersi dalla pioggia sotto l’ombrello. L’ombrello è bianco, nella parte interna iscritto con ideogrammi. I lembi sembrano portati via dal vento.

Particolare da Linda Fregni Nagler, “Snow and Rain”, 2009-2011 5 Stampe ai sali d’argento, viraggio al selenio 22.9 × 17.4 cm ognuna Courtesy l’artista e Monica De Cardenas, Milano

Nella quarta l’abito della donna è monocromo, il wagasa è nero, la pioggia continua a cadere, ma, se ci si avvicina alla fotografia, si nota che è una pioggia di tagli in diagonale praticati sulla fotografia, sulla materialità del supporto, sulla picture. Nell’ultima non piove più, l’ombrello è sempre nero, ma più piccolo.
Sembrano proprio fotografie della Yokohama Shashin. Tutto, in realtà, è stato ricostruito: i fondali, le acconciature, gli abiti giapponesi. Dopo una lunga ricerca di persone, oggetti e apparati, Linda Fregni Nagler ha rifotografato scene e soggetti. Nell’immagine al centro si svela la finzione, come già nella stampa all’albumina originale. I lembi spazzati dal vento sono tenuti da fili, i fili sono la pioggia. La stessa posa in studio, un secolo e mezzo dopo, ma un poco diversa. Allora un fotografo, forse europeo o invece americano, o verosimilmente giapponese a Yokohama; ora un’artista che, in uno studio a Milano, finge di essere quel fotografo e si misura nell’arte del pastiche, rendendosi quasi invisibile come autore.
Quello di Linda Fregni Nagler non è solo un procedimento di appropriazione. Qui si è trattato di ricreare una complessa mise en scène. Si può ben usare per Linda Fregni Nagler la similitudine del direttore d’orchestra che usa la bacchetta – la sua persona e il proprio sguardo – per stabilire tempo e dinamiche di un set fotografico come la forma di una raccolta di immagini. L’azione del rifotografare produce uno slittamento temporale ed estetico rispetto all’originale. Diventa una fotografia impossibile, anche da collocare nel tempo. Forse tra secoli queste immagini si confonderanno con gli originali.
Nella stessa mostra, su una parete più in là, c’era un’altra fotografia con una coppia di geishe a soffiarsi bisbigli e quella di un’altra figura femminile inginocchiata, che giocava con una palla; sullo sfondo il monte Fuji.

Linda Fregni Nagler, “Playing at Ball”, 2009 Stampe ai sali d’argento, viraggio al selenio 58 x 42 cm Courtesy l’artista e Galleria Monica De Cardenas, Milano

Nel Ritratto di Émile Zola di Manet, oggi conservato al Musée d’Orsay di Parigi, in alto a destra, appaiono alcune immagini dipinte: un’immagine dell’Olympia, appoggiata a un’altra che rappresenta il Trionfo di Bacco di Velázquez, accanto a quella di una stampa giapponese di Utagawa Kuniaki II, che ritrae un lottatore. Sulla sinistra, un paravento, con un paesaggio e una rondine appoggiata a un ramo, fa da quinta allo studiolo, dove lo scrittore francese sta leggendo. È nota l’importanza delle stampe giapponesi ukiyo-e per la cultura pittorica francese tardo ottocentesca, ma non è di questo che qui importa dire.
Questo è solo uno dei casi, uno dei più alti, in cui ci imbattiamo in un oggetto materiale, una tela dipinta con pittura a olio nel 1868, in cui appaiono immagini di altri artefatti, in questo caso, di due altri dipinti e di una xilografia. In cui, con Mitchell, «ci imbattiamo in una picture in cui appare la image di un’altra picture, un annidamento di una image all’interno di un’altra» (Mitchell, 2018, p. 29).
Nella fotografia intitolata Playing at Ball (2009) di Linda Fregni Nagler, dicevamo, una geisha inginocchiata di profilo su un tatami gioca con una palla; sullo sfondo il monte Fuji. Quell’immagine del monte Fuji è la fotografia di una fotografia di un vetro per lanterna magica che fa parte della raccolta di Linda Fregni Nagler. Una raccolta di più di tremilaseicento pezzi che usa, ogni volta ricombinati in maniera diversa, in una narrazione di forme, nell’opera intitolata Things that Death Cannot Destroy. Sempre Mitchell: «Si ha una metapicture ogni volta che si ha una image all’interno di un’altra image, ogni volta che una picture presenta un atto di raffigurazione o la comparsa di una image […], non è necessario che sia uno stesso medium a essere duplicato (dipinti che rappresentano dipinti o fotografie fotografie) un medium può essere annidato in un altro» (Mitchell, 2018, p. 30).
Di recente, Linda Fregni Nagler ha trovato un altro vetro per lanterna magica, sempre con il monte Fuji, ma fotografato da Otometoge. Questo intreccio, questo palinsesto, questa stratificazione, questa sovrapposizione di supporti è per Linda Fregni Nagler un’autentica rivelazione, così come fondativo, nella sua pratica, è l’impiego, in termini visivi, immaginativi e materiali, di un’immagine per riflettere sulla natura delle immagini.
Se andasse oggi in Giappone – perché, nonostante tutto questo, ancora non ci è stata – senz’altro andrebbe a Otometoge. Otometoge si trova a sud-ovest di Tokyo, è un belvedere, uno dei punti in cui meglio si può vedere il monte Fuji. Porterebbe con sé, se potesse, facendosi aiutare dalla groppa di un asino, un banco ottico 20×25 cm – le stampe all’albumina della Scuola di Yokohama sono quasi tutte di questo formato –, più probabilmente avrebbe con sé un iPhone.
Anche la vista del Fuji from Otometoge – come indica la didascalia, in basso a sinistra, significativamente scritta in lingua inglese, delle stampe con questo soggetto – è un altro degli straordinari corsi e ricorsi di cui è fatta l’esistenza di Linda Fregni Nagler. Ha trovato molte vedute, con donne e uomini, spesso con un asino, o con un kago, la lettiga trasportata a spalle che, in epoca feudale e nel periodo Meji, era il mezzo di trasporto usato dalle classi più povere e dai non-samurai.
Per la sua personale, nel 2018, ha realizzato un altro polittico composto da dieci di queste vedute.
Le immagini si assomigliano ma sono sempre diverse, perché sono state scattate in tempi diversi, da fotografi diversi, con apparecchi fotografici diversi.

Particolare da Linda Fregni Nagler, “Fuji from Otometoge”, 2018 (YS_FUJI_LFN_063; YS_FUJI_LFN_051; YS_FUJI_LFN_071; YS_FUJI_LFN_066; YS_FUJI_LFN_039; YS_FUJI_LFN_049; YS_FUJI_LFN_030; YS_FUJI_LFN_031; YS_FUJI_LFN_043; YS_FUJI_LFN_020) 10 Stampe ai sali d’argento colorate a mano, 22,3 x 29,3 cm ognuna Courtesy l’artista e Galleria Vistamare/Vistamare Studio, Pescara-Milano
Particolare da Linda Fregni Nagler, “Fuji from Otometoge”, 2018 (YS_FUJI_LFN_063; YS_FUJI_LFN_051; YS_FUJI_LFN_071; YS_FUJI_LFN_066; YS_FUJI_LFN_039; YS_FUJI_LFN_049; YS_FUJI_LFN_030; YS_FUJI_LFN_031; YS_FUJI_LFN_043; YS_FUJI_LFN_020) 10 Stampe ai sali d’argento colorate a mano, 22,3 x 29,3 cm ognuna Courtesy l’artista e Galleria Vistamare/Vistamare Studio, Pescara-Milano

Qual è la relazione tra spazio e tempo dell’inquadratura? Quando e da chi sono state scattate queste fotografie? È questo il contraccolpo che proviamo noi – e prima di noi l’artista – quando siamo costretti a riconfigurare quello che credevamo di sapere.
Dopo aver rifotografato gli originali su lastra, Linda Fregni Nagler li ha stampati su carta cotone cercando di uniformare la luce e correggendo le diverse condizioni di conservazione, le diverse patine di marroni provocate dall’invecchiamento dell’albumina. Arduo stabilire se la fotografia fosse scattata all’alba, o quando? Le ombre sono più o meno lunghe, tra tutte le immagini andavano ricombinate quelle che, in modo più verosimile, potevano ricreare la stessa luminosità. E poi c’era il colore. Chissà se la resa della luce è un’invenzione del colorista.
Il numero delle immagini era dettato dalla volontà di averne una quantità necessaria e sufficiente a creare una linea che andasse ad appuntirsi nel triangolo del Fuji; lieve e deliziosamente pregnante è lo sfasamento nella sequenza. Ha poi colorato le immagini, provando a rendere la stessa luce del giorno. Quali materiali e pigmenti usavano in Giappone nella seconda metà dell’Ottocento? La ricerca è stata lunghissima, ma quelli usati da Linda Fregni Nagler possono, di fatto, essere paragonati ai mezzi dell’epoca. Nei mesi di preparazione della mostra, entrare in studio era come attraversare una sorta di stargate. Si veniva di colpo proiettati in un altro tempo, in uno qualsiasi degli atelier giapponesi che producevano questo tipo di fotografie, forse quello con i coloristi più abili.
Stavolta l’intenzione non è di provocare abbagli o inganni. Così ha dipinto delle campiture rosa, di tonalità e spessori diversi, che evocano l’effetto, normalmente involontario, dei difetti di avanzamento di un rullo fotografico. Fuji from Otometoge (2018) rivela ancora il suo piglio registico, quello che vediamo non è altro che una scena.
È invece la prima volta che Linda Fregni Nagler realizza una fotografia di paesaggio. La sua opera può dirsi un vocabolario di figure. Sono le persone l’oggetto del suo sguardo. Ma forse anche per il Fuji si può parlare di ritratto. Ritratti sono senz’altro quelli della serie dedicata ai venditori di fiori, otto fotografie di grande formato, irregolare, 120×150 cm circa.

Linda Fregni Nagler, “Hana to Yama”, 2018 Vista dell’installazione, Galleria Vistamare, Pescara, 21 aprile - 26 ottobre 2018 Courtesy l’artista e Galleria Vistamare/Vistamare Studio, Pescara-Milano

I “flower seller” posano in studio. Tenere la posa è l’atteggiamento più vicino al non fare da cui forse deriva la loro ieraticità. Sono quasi sculture, degli eidola che potrebbero penetrarti gli occhi, se solo osassi poggiare lo sguardo in macchina. A sottolineare questa componente è inteso l’ingrandimento dell’immagine che amplifica le visioni del fantastico e del meraviglioso dei fiori arrangiati in microarchitetture di bambù.

Linda Fregni Nagler, "Flower Seller" (YS_FS_LFN_005), 2018 Stampa ai sali d’argento colorata a mano 118,3 x 153,3 cm Courtesy l’artista e Galleria Vistamare/Vistamare Studio, Pescara-Milano

Poi è stata una barca. Un altro ritrovamento: un piccolo tintype che ritrae un giovane uomo con cappello che posa dietro una finta barca, di quelle dietro le quali i visitatori delle fiere erano invitati a farsi fotografare. Il corpo è immobile, gli occhi leggermente mossi, una presenza perseguitante.
Da questa immagine minuscola, riproducendola in banco ottico, Linda Fregni Nagler realizza una fotografia in formato 50×60 cm, La tregua (2008), che presenta in una mostra in cui allestisce fotografie diversissime, sue, ma come se ne fosse il curatore.

Linda Fregni Nagler, “La Tregua (Ragazzo in barca)”, 2008 Stampa ai sali d’argento 50 x 60 cm Courtesy l’artista e Galleria Monica De Cardenas, Milano

L’esercizio dell’artist as curator si ripete qualche anno dopo nella mostra dedicata alla straordinaria figura di Hercule Florence[1].
In un libro sulla Scuola di Yokohama, Linda Fregni Nagler nota una fotografia con la stessa barca, la stessa decorazione floreale all’interno dello scafo e a prua. La fotografia era tagliata, mancava la solita didascalia in basso, ma era attribuita a Kimbei.

Kusakabe Kimbei, “Life on the Ocean’s Wave”, datazione incerta Stampa all’albumina colorata a mano 22.9 × 17.4 cm Courtesy l’artista

A casa aveva la stessa fotografia, qui la didascalia c’era: A Life on the Ocean’s Wave. È il titolo di una poesia che divenne una canzone, popolare sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti, e poi l’inno della marina militare americana. Diventa anche il titolo di un’installazione e di un dittico di Linda Fregni Nagler.
Nel dittico ci sono due barche diverse, in una tre donne giapponesi in kimono, nell’altra soltanto una.

Linda Fregni Nagler, “Life on the Ocean’s Wave”, 2010 Stampe ai sali d’argento, viraggio al selenio Dittico, 45,5 x 48 cm ognuna Courtesy l’artista e Galleria Monica De Cardenas, Milano
Linda Fregni Nagler, “Life on the Ocean’s Wave”, 2010 Stampe ai sali d’argento, viraggio al selenio Dittico, 45,5 x 48 cm ognuna Courtesy l’artista e Galleria Monica De Cardenas, Milano

Una delle barche è copiata dalla stampa all’albumina di Kimbei, è una riproduzione fedele, un oggetto scenico realizzato da uno scenografo, l’altra dal tintype con il giovane uomo dagli occhi di ghiaccio. Una barca finta che un fotografo giapponese copiò da una fotografia americana, poi copiata da un’artista milanese. Una crisi di spazio e di tempo che inganna pure noi stessi.

Note
[1] Hercule Florence. Le Nouveau Robinson, Nouveau Musée National Monaco, Villa Paloma, 17 marzo – 24 settembre 2017. Linda Fregni Nagler (a cura di), Hercule Florence. Le Nouveau Robinson, Humboldt Books, Milano 2017

Bibliografia
Batchen G., Un desiderio ardente: alle origini della filosofia, Johan and Levi, Monza 2014.
Bennet T., Photography in Japan, Tuttle Publishing, Tokyo – Rutland, Vermont – Singapore 2006.
Dorfles G., Dal significato alle scelte, Einaudi, Torino 1973.
Duchamp M., Notes, Flammarion, Paris 1999.
Menegoi S., Per una fotografia minore. Sul lavoro di Linda Fregni Nagler, in Linda Fregni Nagler. Yama no Shashin, Humboldt Books, Milano 2018, pp. 95-100.
Mitchell W. J. T., Scienza delle immagini: iconologia, cultura visuale ed estetica dei media, Johan and Levi, Monza 2018.
Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967.
Wright F. L., Le stampe giapponesi. Una interpretazione, Mondadori Electa, Milano 2008.

Azalea Seratoni è storica dell’arte (Università degli Studi di Milano). All’attività critica, teorica e di ricerca  affianca la pratica curatoriale. Dal 2016 insegna basic design alla Scuola Politecnica di Design, Milano. Alla continua attenzione portata al contemporaneo combina la riflessione storica, interessandosi in particolare ai temi della temporalità e del corpo nell’esperienza artistica, alla teoria delle immagini e alla cultura visuale, ai confini tra arte e design, alla questione della propedeutica del design.