§anche le statue muoiono
Il Monumento tra memoria e presente, tutela e critica, conservazione e distruzione
di Alessandra Barbuto

1.
Scendi da lì, che è un monumento”, sento alle mie spalle questa frase, pronunciata in una qualunque piazza di un qualsiasi paese del Sud Italia. Mi giro e vedo una mamma che rimprovera un bimbetto di circa tre anni, reo di essersi arrampicato su quello che evidentemente gli sembrava una cima da scalare e che invece era un monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale. La frase che casualmente ho ascoltato mi ha fatto riflettere sul significato sacrale comunemente attribuito al monumento e alla memoria. Fondamentale per me, che da funzionaria del Ministero della cultura, mi occupo da sempre, con passione e dedizione, della tutela del patrimonio storico e artistico italiano. Al contempo però, in seguito agli eventi che si sono succeduti nella recente stagione del Black Lives Matter, in seguito all’assassinio di George Floyd, e ancora andando un po’ più indietro nella memoria, in alcuni momenti storici di svolta, mi sono soffermata a riflettere sull’attuale valore etico ed estetico che si attribuisce al monumento. Come non ricordare, ad esempio, che la caduta di Saddam Hussein nel 2003 e quella di Gheddafi nel 2011 sono state sottolineate anche dall’abbattimento fisico delle loro statue? Che vengano eretti o distrutti, i monumenti mantengono ancora oggi una carica fortemente simbolica. Questa riflessione è stata guidata e stimolata anche dal lavoro di alcuni artisti che, lungi dal considerarlo una categoria superata nella coscienza contemporanea, sul monumento meditano e lavorano, lasciando emergere prospettive acute, complementari tra loro, profonde e diversificate.

Partiamo dalla considerazione che in Italia, nella quasi totalità delle città, paesi o anche frazioni, ovunque esiste un monumento, una lapide o un parco di commemorazione dei caduti della Grande Guerra[1]. In molti casi, poi, questi sacrari hanno successivamente accolto anche la memoria dei caduti della Seconda Guerra Mondiale, militari o civili rimasti vittime dei bombardamenti. Questi monumenti sono talmente numerosi e diffusi capillarmente sul territorio italiano, che negli ultimi anni si sono resi necessari diversi progetti di ricognizione e catalogazione (Lattanzi in Bernini, 2015)[2]. Il numero e in molti casi anche l’importanza di questi monumenti, realizzati da artisti di valore, riconducono fondamentalmente alla motivazione per la quale sono stati commissionati: la volontà di perpetuare la memoria dei soldati caduti in guerra. A differenza dei monumenti realizzati a ridosso del Risorgimento, che ricordavano i grandi protagonisti della storia (Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II, ecc.), i monumenti eretti dopo la Prima Guerra Mondiale celebrano nella maggior parte dei casi soldati semplici, non personaggi storici. Non a caso, mentre veniva eretto il più impegnativo monumento post Unità d’Italia, il Vittoriano, in corso d’opera si decise di modificare il progetto per accogliere anche le spoglie del “milite ignoto”, caduto durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 1921 fu stabilito che re Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, di fatto avrebbe diviso la scena, e il monumento, con l’anonimo militare celebrato come simbolo di tutti i soldati caduti durante la guerra. Proprio questa idea di tramandare la memoria non delle gesta dell’Eroe, ma dei tanti soldati, altrimenti sconosciuti, definisce in qualche modo una diversa maniera di concepire la storia, un guizzo di modernità nella coscienza collettiva. Sulle lapidi di gran parte di questi monumenti campeggiano infatti i nomi dei caduti durante gli eventi bellici: i loro dati anagrafici sono scolpiti, a imperitura memoria, su lastre di marmo, al fine di riscattare i soldati dall’oblio e dall’anonimato. 

Flavio Favelli, Gli Angeli degli Eroi, Vista della mostra, Photo Sebastiano Luciano Courtesy Fondazione MAXXI (2015)
Flavio Favelli, Gli Angeli degli Eroi, particolare, Photo Sebastiano Luciano. Courtesy Fondazione MAXXI (2015)

Su questa lunghezza d’onda si pone un poetico lavoro di Flavio Favelli, chiamato Gli Angeli degli eroi (foto 1-2). Realizzata nel 2015 su commissione del MAXXI[3], questa installazione propone l’antico tema delle lapidi commemorative e richiama dall’oblio i nomi di tutti i soldati italiani caduti dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in un periodo comunemente considerato di pace. La definizione utilizzata per il titolo dell’opera è tratta da una preghiera scritta su un cartello dai familiari di Luca Sanna, scomparso nel 2011 in Afghanistan durante una delle operazioni denominate di peacekeeping: il suo nome, insieme a quelli degli altri caduti in tempo di pace, sono dall’artista consegnati alla memoria, che per Favelli è musa ispiratrice, ma anche demone [4].

In questo lavoro l’artista si pone sul sottilissimo crinale tra la celebrazione e la sua revoca in dubbio, e lo fa proprio utilizzando il tema del monumento, che è al tempo stesso costruito e decostruito: la lapide non è di marmo, ma è un pannello di legno; non è posta in alto, come di solito dei monumenti, ma è collocata ad altezza d’uomo; non è posizionata in un luogo simbolico, legato all’evento che si ricorda. Il dubbio che l’artista stia ragionando criticamente sul significato della celebrazione, e contestualmente del monumento, si insinua e permane anche il 4 novembre, Giorno dell’Unità nazionale e delle Forze Armate, quando l’opera viene esposta in piazza del Quirinale. In questa occasione sui pannelli vengono collocate delle lastre di plexiglass a protezione dell’opera: questo particolare rivela un intento di monumentalizzazione e di sacralizzazione dell’opera che travalica probabilmente quello che era nell’intento originario dell’artista, che ha invece molto chiara la distinzione tra opera d’arte e monumento (Favelli, 2019). Di questo dubbio, di questo crinale interpretativo, con Flavio abbiamo parlato qualche volta e, come è giusto che sia, l’artista non lo scioglie mai definitivamente: il dubbio è tale se viene coltivato nella coscienza critica di chi guarda l’opera, e in ogni caso l’artista rispetta la libertà di chi voglia coglierne esclusivamente l’aspetto celebrativo. L’artista produce un lavoro e poi lascia che sia la collettività a conferirgli senso, come afferma in questa intervista: «Quest’opera è stata presa come monumento e io l’ho permesso per il semplice fatto che era molto interessante, ogni artista permette l’interpretazione della propria opera. Io dico che non è un monumento» (Favelli, 2019).

2.
Sebbene attualmente la categoria del monumento possa sembrare superata nella sensibilità contemporanea e, come giustamente sottolinea Fabio Cavallucci (Cavallucci, 2010), è associata generalmente ai regimi totalitari oppure nelle democrazie diventa oggetto di discussione e di contrapposizioni anche feroci, come ad esempio è capitato per il monumento dedicato a Montanelli a Milano, tuttavia gli artisti di oggi continuano a porre e proporne il tema. Lo decostruiscono, ne prendono le distanze, ne ridimensionano la portata nel tempo e nello spazio, e tuttavia lo pongono al centro della loro (e nostra) riflessione, di fatto sancendo la continuità culturale della categoria del monumento. Monumenti non monumentali sono, ad esempio, i diversi capitoli di Momentary Monument di Lara Favaretto, opera che sin dal titolo svela la propria natura ossimorica: sono sculture commemorative che non aspirano all’eternità, non tendono a permanere oltre l’occasione espositiva per cui sono create, eppure con il monumento tradizionalmente concepito condividono la volontà di perpetuare la memoria degli “scomparsi”. Le diverse occasioni di allestimento dell’installazione mostrano in realtà un pensiero coerente che viene declinato di volta in volta in modi diversi e con una scala proporzionale differente: la celebrazione degli “scomparsi”, di quei personaggi che hanno fatto perdere traccia di sé dichiarando il diritto all’oblio, avviene infatti in ogni occasione con un’operazione di nascondimento di alcuni oggetti, a loro appartenuti o particolarmente significativi della loro vita. Tali reliquie vengono conservate all’interno di scatole di acciaio e verranno forse ritrovate quando gli elementi di cui l’installazione è composta periranno o si modificheranno, lasciando affiorare questi cimeli. Gli scomparsi sono dunque a loro volta celebrati da una scomparsa; i monumenti perdono la loro pretesa all’eternità e si confrontano con un orizzonte temporale estremamente ravvicinato; la fragilità e la corruttibilità dei materiali, l’autodistruzione dell’opera diventano elementi costitutivi dell’opera stessa, recando con sé una notevole carica di entropia. «Mi piace passare dalla perfezione alla caduta, spingere l’opera al suo punto critico, al suo limite, metterla a rischio fino a farla cedere, inceppare, crollare. Una irregolarità viene amplificata fino a generare uno stato di crisi, d’impotenza. […] Fai un’opera e poi la distruggi: perché deve sparire, come ogni cosa. Perché per un’opera d’arte dovrebbe essere diverso? Tutto il resto è così. Quali straordinarie riflessioni faremmo se ci fosse un terremoto e crollasse un museo, per esempio? Andrebbe perduta l’intera collezione acquistata nel tempo. Sarebbe triste, ma potrebbe accadere. Quale sarebbe la differenza rispetto a un monumento temporaneo?» (Bordignon, 2013).

La ricerca condotta attraverso i multiformi capitoli di Momentary Monument in qualche modo prosegue nelle diverse edizioni di Good Luck, che mostrano una forma più definita e riconoscibile: si tratta di cenotafi, monumenti funebri privi delle spoglie della persona a cui vengono dedicati (e come potrebbe essere il contrario, visto che si tratta degli “scomparsi”?), realizzati in diverse forme e dimensioni, ricombinando tre materiali, più o meno deperibili, terra, legno e ottone (foto 3). All’interno dei cenotafi, viene sempre celata la valigia di alluminio dove sono riposte le reliquie dei vari “scomparsi”. 

Foto 3 Lara Favaretto. Good Luck ,Vista della mostra, Photo Musacchio Ianniello Courtesy Fondazione MAXXI (2015)

Declinati nella palude artificiale allestita in occasione della 53° Biennale di Venezia (Momentary Monument – The Swamp, 2009) o nel muro che si sfalda polverizzandosi a Bergamo (Momentary Monument – The Stone, 2009) e a Liverpool (Momentary Monument – The Stone, 2016) o ancora nella trincea costruita intorno al monumento di Dante a Trento (Momentary Monument – The Wall, 2009), i monumenti temporanei di Favaretto ruotano intorno all’idea di restituire memoria a personaggi rimossi dalla coscienza comune. Come si diceva, spesso gli interventi sui monumenti provocano forti reazioni nella popolazione, che magari vive accanto alle sculture commemorative senza dimostrare grande interesse, ma si oppone strenuamente quando si verifica la possibilità che esse possano essere modificate da lavorazioni o da nuove interpretazioni: a Trento, l’installazione di Lara Favaretto nel 2009 provocò reazioni fortemente contrapposte tra i detrattori dell’opera, che non tolleravano proprio il temporaneo oscuramento del monumento di Dante, e i sostenitori dell’intervento dell’artista (Favaretto, 2015, pp. 26-31). Una reazione analoga si sarebbe verificata poco dopo, nel 2010, durante le fasi di preparazione della Biennale di Carrara, allorquando il progetto di Maurizio Cattelan, che consisteva nella rimozione del ritratto statuario di Mazzini dal basamento e nella sua sostituzione con una statua che avrebbe dovuto ritrarre Bettino Craxi, incontrò una forte opposizione da parte della popolazione locale, che riuscì a bloccare il progetto. L’esito di questa vicenda fu la realizzazione di un monumento funebre a Craxi, diverso ovviamente da quello inizialmente progettato (Cavallucci, 2010, pp. 112-113). Certamente dobbiamo chiederci quale fosse davvero l’opera nell’intenzione dell’artista: la scultura progettata, quella realizzata, o piuttosto il processo attraverso cui provocare riflessioni e reazioni? Sarebbe interessante anche valutare il tema dell’impatto delle reazioni del comune sentire sul lavoro di un artista, ma qui si entrerebbe in una sfera molto ampia e certamente complessa. Certamente la reazione della popolazione è più forte e risentita quando l’arte esce dallo spazio che le è tradizionalmente deputato e invade lo spazio pubblico. Se le reazioni nei confronti del contemporaneo esposto in galleria, museo, collezione privata risultano spesso di incomprensione e talvolta di irrisione, quando l’opera viene proposta per uno spazio pubblico la contrapposizione rischia spesso di diventare drammatica e quasi si scatena una sorta di scontro tra tifoserie opposte. Eppure, da parte di artisti che lavorano in equilibrio tra oggetto e progetto, tra opera e processo, lo scontro e l’incomprensione o il sostegno da parte della popolazione diventano senz’altro parte dell’opera stessa. 

I viaggi nella memoria di Rossella Biscotti iniziano spesso con una esplorazione dei luoghi, che prosegue talvolta nella realizzazione di calchi di monumenti o di dettagli architettonici che hanno non solo ospitato, ma quasi assorbito gli eventi storici, talmente tanto da esserne rimasti impregnati. È per questo che il calco in qualche modo restituisce quella patina della storia rimasta su oggetti o porzioni di architettura e che viene riproposta attraverso l’azione di realizzazione del calco, come nel caso de Il Processo (2010 – 2012). Talvolta l’esplorazione diventa opera essa stessa, come nel caso della performance Everything is somehow related to everything else, yet the whole is terrifyingly unstable (2008), azione compiuta dall’artista che percorre, sfidando il proprio  senso di vertigine, il muro di cinta del campo di concentramento di Bolzano, unica traccia superstite di quel doloroso passato, rievocato e rivissuto attraverso la sensazione fisica delle vertigini, tramite lo shock provocato dall’instabilità del proprio equilibrio, mediante il senso di smarrimento. Considerando il modus operandi di Rossella Biscotti, che, talvolta nel corso di un tempo più o meno prolungato, crea opere complesse, le quali possono arricchirsi di nuove articolazioni, si comprende facilmente quanto ogni lavoro sia preceduto da una fase di studio dei documenti e dei reperti, di raccolta di testimonianze e documenti. È un metodo paragonabile a uno scavo archeologico, ad una ricerca antropologica, che analizza nel profondo le tracce di eventi storici più lontani o più recenti, ma tutti estremamente significativi per il nostro presente. Per Rossella Biscotti, la memoria, la storia, il passato non sono solo evocati e riproposti, ma diventano lo strumento attraverso il quale l’artista propone una lettura del presente, illuminando di volta in volta una prospettiva inedita con cui leggere l’attualità (Ragaglia in Biscotti, 2014)[5]. Ecco allora che per un lavoro come Le teste in oggetto, Biscotti parte con la ricerca storica e di archivio e giunge in un deposito del palazzo degli Uffici all’EUR, dove sono conservate queste monumentali teste in bronzo di Benito Mussolini e di re Vittorio Emanuele III: da questo sopralluogo parte la scintilla che la porterà a prelevare ed esporre nel 2009 presso Nomas Foundation le sculture su pallet, nella stessa modalità con cui le ha viste nel deposito, o a trarne dei calchi in silicone frammentato e portarli in esposizione al Museion di Bolzano nel 2015. Commissionate originariamente in vista dell’Esposizione Universale del ’42, in seguito annullata, le cinque teste non erano mai state effettivamente utilizzate. Prelevando direttamente le teste commissionate a Prini e Rambelli, Biscotti le espone ribaltandone la prospettiva, le mette in diretto dialogo con il visitatore contemporaneo, che le può guardare da vicino e dialogare con la portata simbolica che avrebbero avuto se fossero state monumentalizzate. Ancora una volta, l’intento dell’artista si rivela di portata molto più ampia del prelievo del documento e della sua riproposizione in una installazione: «Anche lavori come La cinematografia o Le teste, che ripropongono in maniera diretta materiali dell’epoca, per me sono ambigui. Quello che tento di fare è aprire una discussione, farne un laboratorio: a me interessa quello che ruota attorno al progetto, che tipo di reazione e partecipazione nasce dall’intervento. Guardo a questi lavori come a una specie di performance, perché mi interessano solo quando sono all’interno di un pubblico, tra la gente – l’aspetto relazionale per me è molto importante» (Casavecchia, 2013). 

3.
Allargando ancora la prospettiva, andrebbero a questo punto considerate anche le azioni di artisti come Hogre o Geco – bollati da molte voci, anche autorevoli, come “vandali”, sicuramente autori di gesti irriverenti – e bisogna chiedersi se non abbiano l’intento di porre al centro della discussione il ruolo e il significato del monumento, e con esso, della Storia. I loro gesti sono negazione e atto dissacratorio degli edifici che profanano oppure un modo per affermare che questi lasciti del passato hanno senso solo se continuano a vivere, a porre interrogativi? Il quesito è molto delicato, e qui non troverà soluzione una questione estremamente complessa, tuttavia è necessario e doveroso coltivare un dubbio, arrovellarsi su un tema che non può essere liquidato in modo sbrigativo e superficiale, poiché la realtà è sempre molto più complessa delle nostre semplici linee di confine. Emblematico, l’intervento realizzato da Hogre a marzo 2020 su una tamponatura moderna inserita a supporto di una nicchia della Cisterna della Villa delle Vignacce del II secolo d.C. che si trova nel Parco degli Acquedotti a Roma (foto 4). 

Hogre, Il bacio Roma, Parco degli Acquedotti, Photo Alessandra Barbuto (2020)

Con un notevole tempismo e una sensibile capacità di sintonizzarsi con l’evento collettivo che si stava vivendo a causa della pandemia (la paura del contagio, la segregazione dentro le mura di casa, il tanto celebrato distanziamento sociale), Hogre, in pieno lockdown, dipinge in bianco e nero una coppia che si bacia attraverso le maschere antigas. Un faro li illumina e la loro ombra si staglia sullo sfondo. L’immagine è iconica, una sorta di istantanea del tempo cupo, della paura e delle incertezze che si stava vivendo collettivamente, scoperta dalla collettività nel momento del parziale alleggerimento delle restrizioni. Come era prevedibile, l’intervento di Hogre è stato subito accolto polemicamente, avendo lo street artist infranto una regola non scritta, ovvero quella di non toccare i monumenti, ancor più se antichi e comunque tutelati dal Codice dei beni culturali (ha violato probabilmente anche qualche altra legge, avendo realizzato il lavoro durante il lockdown). Eppure, la forza del suo gesto, forse anche la sua tempistica, insieme all’efficacia dell’immagine realizzata, ha colpito nel segno. Quell’immagine, apparsa come per incanto, era uno specchio nel quale affacciarsi, il desiderio di trovare comunque quel contatto umano, nonostante i dispositivi di protezione. Era un ovale che si inseriva nella cisterna romana, dialogando con il monumento, mettendo in connessione l’antico con il contemporaneo, ponendo un tema molto serio, ma ancora troppo complesso per non essere rapidamente liquidato: quello della continuità culturale tra il passato e il presente. Questo lavoro riporta la street art alla sua matrice più originaria e autentica, quella non autorizzata e non commissionata. Al percorso di addomesticamento della street art a cui negli anni si è assistito, ai tentativi di inserirla nel “sistema dell’arte contemporanea”, di renderla arte pubblica, dunque commissionata per lo spazio pubblico (e va benissimo, ma è un’altra storia), di staccarla dai luoghi di origine per portarla dentro le gallerie e i musei, a tutto questo Hogre risponde con un gesto che ha una stratificazione profonda di significati. A chi pensa che la questione posta da quest’opera avrebbe dovuto seguire il dibattito e non precederlo (Riccio, Iovane 2020) si può obiettare che da sempre l’artista opera sovvertendo le regole, anticipando il dibattito, anzi facendolo divampare. Operando una estrema generalizzazione, ci si può chiedere quanto i piedi sporchi in Caravaggio, i baffetti sulla Gioconda di Duchamp, ma anche le incursioni metropolitane di Keith Haring avessero a che fare con le regole.

Il gesto di Hogre mi ha fatto ricordare qualche frame dell’opera video Wonderland di Halil Altindere (2013): quei ragazzi di Istanbul che salgono sull’acquedotto romano e da lì vedono un panorama urbano devastato da speculazione e gentrificazione. È evidente, forse era fin troppo prevedibile, che l’intervento di Hogre fosse destinato a essere rimosso, ma quella che sembra una chance sprecata in una situazione culturale come quella italiana è che questo spunto non sia stato colto, in primis dalle istituzioni, per aprire un dibattito, per coinvolgere l’artista e la cittadinanza in quella che sarebbe stata una magnifica occasione per ragionare insieme sul senso della tutela, sulla possibilità che l’utopia della valorizzazione di un monumento antico possa passare anche attraverso il dialogo o la contrapposizione con un intervento contemporaneo. Un coinvolgimento pubblico avrebbe potuto cercare soluzioni alternative rispetto ai due poli opposti della questione. Invece, senza alcun dibattito, ma al contrario, con grande rapidità e solerzia, “il bacio” è stato cancellato, ripristinando legalità e decoro e ancora una volta un concetto di tutela statico e impermeabile all’idea che la cultura contemporanea non possa, non debba farci paura. Se è vero che, tra la necessità di dover rispettare la legge sulla tutela, anche per evitare che si creino pericolosi precedenti, atti a giustificare ogni forma di vandalismo, e il brandiano “riconoscimento dell’opera”, quel luccichio dell’arte che si insinua nelle pieghe della coscienza critica e la lascia folgorata, dentro di me si è svolto il più classico dei conflitti tra Super IO ed ES, la riflessione ex post mi ha condotto a riconsiderare la dicotomia tra memoria e presente, tra tutela e critica, tra conservazione e distruzione. Tale contrapposizione non è irrisolvibile come potrebbe sembrare a prima vista, il concetto della tutela non può essere rigidamente manicheo, ma deve saper cogliere la complessità della realtà che ci circonda. Anche se è il percorso più difficile.

Note 

[1] In questa prospettiva, sembra opportuno ricordare il Comitato tecnico scientifico speciale per il patrimonio storico della Prima Guerra Mondiale: istituito a seguito dell’emanazione della L. 78/2001, esso opera presso la Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del MiBACT e si occupa di promuovere interventi di ricognizione, catalogazione, manutenzione, restauro, gestione e valorizzazione delle vestigia della Grande Guerra.
[2] Articolato in più fasi, il progetto di censimento e catalogazione dei monumenti e delle lapidi dedicati ai caduti della Prima Guerra Mondiale, condotto dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, ha prodotto oltre 9300 schede di catalogo. Per saperne di più: si veda QUI
[3] Evento collaterale alla mostra Architetture in uniforme, tenutasi dal 19 dicembre 2014 al 3 maggio 2015, L’installazione di Favelli fu esposta nella hall del museo dal 2 aprile al 21 giugno 2015, sebbene fosse stata concepita inizialmente per essere realizzata su un muro di uno spazio pubblico urbano.
[4] Mentre stavo ultimando questo articolo, è giunta la notizia della scomparsa di Vittorio Iacovacci, carabiniere assassinato in Congo, insieme all’ambasciatore Luca Attanasio e all’autista Mustapha Milambo e idealmente penso che, purtroppo, la lista di Favelli si sarebbe allungata. Questo lavoro sulla memoria è dedicato a loro.
[5] Molto acutamente nel suo saggio Una mostra personale di Rossella Biscotti,Letizia  Ragaglia connette il lavoro dell’artista alla lettura proposta da Mark Godfrey nel saggio The Artist as Historian (Biscotti, 2014). 

*La presente ricerca non ha carattere istituzionale, pertanto le opinioni sono espresse a titolo personale

Bibliografia

Antonelli S., Gnessi C., Il bacio degli acquedotti di Hogre, in «Arte Magazine», 6 aprile 2020, consultato il 19 febbraio 2021
Bernini R., (a cura di), Il patrimonio storico della Prima Guerra Mondiale. Progetti di tutela e valorizzazione a 14 anni dalla legge del 2001, Gangemi Editore, Roma 2015
Bigi D., Lara Favaretto. Via terra e via mare. Monumentary Monument, in «Arte e critica»,consultato il 12 febbraio 2021
Biscotti R., Ten Works, Mousse Publishing, Milano 2012
Biscotti R., catalogo della mostra, Bolzano Museion 2015, Walther König, Köln 2014
Bordignon E., Lara Favaretto. Back to the future #38, «Klat», 22 novembre 2013, consultato il 18 febbraio 2021
Casavecchia B., Rossella Biscotti. Back to the future #26, «Klat», 26 luglio 2013, consultato il 20 febbraio 2021
Cavallucci F., Post Monument. XIV Biennale Internazionale di scultura di Carrara, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo 2010
Cavallucci F., Arte e potere. Monumenti e libertà, Convivere Carrara Festival, video del talk tenuto il 13 settembre 2020, visionato il 14 febbraio 2021
Del Prete E., Flavio Favelli, Gli Angeli degli eroi, consultato il 1 febbraio 2021
Favaretto L., Ageings Process, Mousse Publishing, Milano 2015
Favelli F., Riflessione sul murale di Cosenza (Marulla), (intervista), 5 marzo 2019, consultato il 2 febbraio 2021
Riccio G.M., Iovane G., Hogre al Parco degli acquedotti: opera d’arte o atto di vandalismo?, «Artribune», 17 aprile 2020, consultato il 19 febbraio 2021

Alessandra Barbuto. Storica dell’arte presso il Ministero della Cultura, Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio. In passato ha lavorato in Soprintendenza e Pinacoteca di Brera, in Galleria Nazionale e presso la Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee; poi, per circa un decennio, è stata responsabile delle collezioni del MAXXI Arte. La sua attività di ricerca si concentra principalmente sui temi della conservazione e della museologia dell’arte contemporanea, nonché sulle questioni legate alla trasmissione al futuro della cultura di oggi.