IL PARTITO PRESO DELLE COSE
Fictional design - writing ghost stories.
Il progetto delle cose secondarie
di Marco Petroni

Courtesy Johanna Schmeer, Clemens Winkler

“Un grido s’avvicina, attraversando il cielo.
E’ già successo prima, pero’ niente di paragonabile a ora”
Thomas Pynchon, L’arcobaleno della gravità

 

Le dinamiche culturali del nostro tempo si profilano come sempre più complesse, aggrovigliate e cercare di comprendere il filo che le tiene insieme appare un’operazione rischiosa ma non futile. Si può dire che siamo immersi in una sorta di labirinto dai sentieri frammentati e dispersi composti da ogni sorta di materiali spuri o addirittura antinomici e trovare la via d’uscita richiede l’atteggiamento del paziente esploratore. Inoltrandosi ben oltre i confini disciplinari consueti, bisogna annettere al territorio di uno sguardo specialistico anche la riflessione “ingenua” di chi azzarda l’ibridazione linguistica aprendosi su un campo indefinito povero di istinti univoci e dettagliati.

Si tratta di una sensibilità cronicamente infantile allenata alla sconfitta e alla precarietà che si muove attraverso una matassa di legami in cui pubblico e privato, visibile e nascosto, risultano alla fine inestricabili, confusi: una realtà che ha sempre un dietro e un altro, un complotto, un occulto. Sono forse questi elementi che indagano nel profondo la nostra antropologia, le perverse costruzioni del capitalismo finanziario a convincere che non si tratti di Storia ma del nostro presente. La realtà è complicata, e hanno un peso anche le passioni dei singoli, gli affetti, le frustrazioni, le ambizioni. Siamo trascinati in un universo che vive di continui rimbalzi e rovesciamenti dove è possibile cogliere consonanze e dissonanze – che ci proiettano dentro un meccanismo assurdo, una società assurda. Del resto, come ci ha insegnato lo scrittore americano David Foster Wallace: “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” e scrivere è “praticare il massaggio cardiaco agli elementi di umanità e magia che ancora resistono” e ancora, “parlare di cosa significa essere un fottuto essere umano”.

La dimensione del nostro quotidiano appare alla luce di queste considerazioni come uno spazio segnato dall’immanente possibilità di attivare nuove narrazioni utilizzando gli oggetti che la popolano come privilegiati catalizzatori culturali ed espressivi. Si intende esplorare un territorio, uno spazio sospeso, ai confini dell’arte e della vita, un luogo di tensione dove tutte le relazioni, i rapporti con gli oggetti sono capaci di creare un potenziale narrativo determinando un ambiente multiplo affermato unicamente da un senso di pluralità. Un’indagine che nasce dalla necessità di ri/definire i confini disciplinari del design proiettandolo in una dimensione che abbandona sentieri di ricerca estetica e formale, per abbracciare la complessità del nostro tempo in un campo allargato fatto di incroci disciplinari dove antropologia, letteratura, filosofia, arte, architettura disegnano una densità di possibili scenari. In un recente saggio di Roberto Esposito, dal titolo Le persone e le cose, il filosofo napoletano indagando la stretta relazione ontologica tra gli esseri umani e gli oggetti afferma che serve una forma politica che si determini dal basso, attivando le differenze e cooperando in vista di un potenziamento reciproco. Una forma che non si è ancora stabilizzata, sebbene molte persone, artisti, creativi la stiano praticando. E’ grazie a questo auspicato ricongiungimento che la politica delle cose sospese tra realtà e possibilità diviene un interessante territorio d’indagine.

L’affermazione della tecnica già secondo l’insegnamento di Marx e prima ancora di quello di Heidegger ha ridotto le cose a non esprimersi per quello che sono, ma le riduce a “risorsa” e quindi a elementi sottoposti a uno sfruttamento illimitato. La dimensione più chiaramente politica della riflessione di Esposito prova a indicare modalità di individuazione sul ritorno di ciò che è stato rimosso, bandito, esiliato nella vicenda della primaria relazione tra le persone e le cose. Questa esclusione s’incarna non solo nelle istanze del singolo individuo, ma anche in quelle collettive di un popolo — di una moltitudine — che è stata tenuta fuori dalla rappresentanza e che oggi spinge per denunciare il limite costitutivo di quella stessa idea di democrazia. È interessante l’aut-aut etico che Esposito ci consegna: prevarrà la passione immunitaria che esalta il proprio sul comune, l’interesse individuale su quello collettivo, l’Io sull’Altro o la passione per la comunità e l’economia del dono insieme al rischio di smarrimento e di perdita di identità che l’esposizione all’Altro sempre comporta?

Alla base di questo campo d’indagine appare di primaria importanza la relazione tra essere umani e cibo. Viviamo un tempo in cui le risorse naturali scarseggiano e la tecnologia occupa ogni spazio del nostro quotidiano. Siamo rapiti in una rete dove artificiale e naturale si confrontano continuamente alla ricerca di un precario equilibrio. Bioplastic fantastic between products and organisms, progetto della giovane designer Johanna Schmeer, prova ad indagare nelle zone d’ombra che attraversano le relazioni tra ricerca scientifica e futuro di ciò che mangiamo. Si tratta di utilizzare il design come efficace strumento d’analisi nella progettazione di scenari possibili da cui potrebbero emergere nuove tipologie di oggetti frutto di materiali innovativi nei settori delle bio e nanotecnologie. A dare una base scientificamente valida al progetto ha contribuito la recente scoperta di Russell Johnson, biologo che ha messo in atto un processo che permette l’ibridazione di elementi naturali con sistemi biopolimerici nanostrutturati, mantenendo le loro specifiche proprietà vitali. Attraverso la catalisi enzimatica che permette l’incorporazione di virus e batteri nei materiali bioplastici si può dare vita a una serie di oggetti naturali fortemente ibridati. Nascono così sette dispositivi progettati dalla Schmeer per la sua tesi di laurea al Royal College of Arts di Londra e presentati come uno scenario domestico composto da elementi interattivi capaci di fornire tutti i nutrienti e l’energia necessari a un essere umano per sopravvivere. “L’O.N.U. stima che il mondo dovrà produrre il 70 per cento in più di cibo entro il 2050”, afferma la Schmeer “Così, invece di discutere su come coltivare più cibo, forse abbiamo bisogno di ripensare completamente la nostra idea di alimentazione e di relazione con le risorse naturali.” La designer ha realizzato e progettato un’installazione ambientale caratterizzata da un’estetica che asseconda le opportunità creative che potrebbero verificarsi con questi nuovi tipi di materiali. Un design sensuale e caldo sottolinea come la perdita della naturalità del cibo tradizionale è sostituita dall’artificialità seduttiva di questi alimenti.

Gli oggetti che compongono Bioplastic fantastic producono acqua, vitamine, fibre, zuccheri, grassi, proteine e sali minerali sotto forma di liquidi e polveri. “Il progetto – conferma la giovane designer – non si concentra sul comunicare l’esatta funzionalità di questi oggetti, piuttosto intende attivare un’interazione con i fruitori attraverso l’estetica, il climax e le sensazioni stimolate dall’ambiente che ho realizzato.” La proposta della Schmeer non vuole essere una soluzione ma intende sollecitare nuove domande e generare riflessioni su quali tipi di applicazioni di bio e nanotecnologie vorremmo utilizzare nella nostra vita. Il progetto, dal forte valore concettuale, suggerisce possibili strategie per alimentare la crescente popolazione mondiale. Assistiamo, dunque, alla definizione di modalità progettuali che interrogano le criticità del nostro tempo elaborando traiettorie sensibili a un’idea di futuro più sostenibile e provano ad attivare nuove narrazioni al confine tra realtà e possibilità, tra finzione e funzione.

Dichiara tutto il suo potere narrativo la proposta progettuale di Clemens Winkler dal titolo Fictional Materials. Si tratta di un’indagine attorno alle reazioni che materiali insoliti e sperimentali possono produrre in un contesto reale. Un progetto che ridiscute il concetto di valore delle cose proponendo uno spazio in cui si producono nuovi rischi e benefici. I Fictional materials sono vissuti dal designer londinese come attivatori di una molteplicità semantica e per costruire narrazioni, collaborazioni, workshop e immagini. Sono stati creati diversi scenari – usando miscele dal sapore alchemico come una gelatina di glicerina capace di rilasciare zucchero in polvere, rivestimenti in fibra di carbonio ibridati con invisibili bioplastiche . Un contesto sperimentale in cui il progettista vuole suggerire nuove percezioni e interazioni sociali che liberino il valore degli oggetti dalla schiavitù del denaro e della loro funzione d’uso ed economica. Esempi di un design segnato dallo sconfinamento semantico e creativo che si propine come sistema di riflessione ampio sul mondo e la nostra inafferrabile condizione di esseri contemporanei.

 

Fictinal Materials | Mutable Drugs, Clemens winkler

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Marco Petroni, teorico e critico del design. Ha collaborato con La Repubblica Bari, scrive regolarmente su varie riviste d’arte e design tra cui Abitare e FlashArt. E’ Senior Curator presso il centro di ricerca museale Fondazione Plart (Napoli), dove sviluppa progetti curatoriali innovativi ed eventi legati ai temi del design con un approccio transdisciplinare. Tra i progetti che ha curato Nanotech Design in collaborazione con il Laboratorio di Nanotecnologie di Lecce, Luce sul design, Passages, Super-sentieri neo-barocchi tra arte e design, Botanica di FormaFantasma, Naturally Combined di Mischer’Traxler. Ha tenuto conferenze e lecture in varie università ed accademie tra cui Naba e Politecnico di Milano. Insegna Storia dell’arte contemporanea presso Abadir (Catania); Moda e Comunicazione presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli.