IL PARTITO PRESO DELLE COSE
Prometeo e il barone Bich
di Vincenzo Bernabei

Agli estremi confini eccoci giunti
già della terra, in un deserto impervio
tramite de la Scizia. Ed ora, Efèsto,
compier tu devi gli ordini che il padre
a te commise: a queste rupi eccelse
entro catene adamantine stringere
quest’empio, in ceppi che non mai si frangano:
ch’esso il tuo fiore, il folgorio del fuoco
padre d’ogni arte, t’involò, lo diede
ai mortali. Ai Celesti ora la pena
paghi di questa frodolenza, e apprenda
a rispettar la signoria di Giove,
a desister dal troppo amor degli uomini.

Eschilo, Prometeo incatenato

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Una delle caratteristiche essenziali di molte religioni e filosofie regolative è la ricorrenza di strutture di narrazione finalizzate a descrivere la profanazione, e quindi ciò che differenzia il puro dall’impuro, il sacro – quello che può essere rappresentato entro le mura del tempio, rendendosi accettabile dalle entità trascendenti – dal sacrilego (pro fanum: dinnanzi, fuori dal tempio). Si tratta di tòpoi dell’oralità (e successivamente letterari) finalizzati a tracciare erga omnes dei confini netti tra il lecito e l’illecito, con le divinità che tradizionalmente, oltre a fungere da fonte primaria e incontrovertibile di giudizio, liberano il proprio impeto vendicatore nei confronti del trasgressore comminandogli punizioni esemplari, castighi ed espiazioni di violenza talvolta inaudita. È così che Pandora ed Eva vengono punite per la loro curiosità, costrette a farsi carico non della propria pena ma, ancor peggio, della responsabilità di aver causato la sofferenza eterna del genere umano, che si sostanzia nella costrizione dei mortali a doversi misurare perennemente con i propri limiti, i propri bisogni e la transitorietà della loro stessa esistenza.

Tra i miti sacrificali generati per codificare i concetti di oltraggio e di potere quello di Prometeo è senz’altro uno dei più affascinanti. Imparentato proprio con Pandora tramite il legame nuziale tra quest’ultima e il fratello Epimeteo, lo scaltro titano viene rappresentato da Eschilo come l’anello di congiunzione tra l’essenza trascendente delle creature olimpiche e il consorzio degli uomini, di cui prese le difese di fronte a Zeus, e per cui compromise non tanto la sua integrità fisica con l’incatenamento in Scizia, quanto il suo privilegio di poter vivere senza privazioni, evitando di conoscere caducità e vendetta.

Prometeo, la cui più grande colpa è notoriamente quella di essersi introdotto nell’officina di Efèsto riappropriandosi del fuoco che il capo degli dèi aveva sottratto agli uomini, è insomma un ribelle e nobile altruista. Non agisce per se stesso, per soddisfare la propria sete di esperienza, ma per restituire dignità a una stirpe di deboli (a cui peraltro non appartiene) che altrimenti avrebbe dovuto nutrirsi in eterno di cibi crudi e alterati, esattamente come fanno le bestie. Passa perciò dall’idea di una trasgressione commessa per sé a quella di un’effrazione motivata, finalizzata, progettuale. L’essere industrioso per eccellenza ruba agli dei proprio la Tecnica, ciò che avrebbe conferito all’umanità l’occasione di plasmarsi come civiltà e di prolificare, immaginando e realizzando il proprio futuro fino ai nostri giorni, e oltre.

È corretto dire che il controllo del fuoco ha sempre costituito per la nostra civiltà un fattore imprescindibile per il dominio e la gestione di un qualsiasi territorio, e dal Paleolitico al Medioevo il mantenimento di una fonte di combustione (tanto in forma di brace che di fiamma) ha rappresentato un’opzione solitamente preferibile a quella dell’accensione ex novo, soprattutto a causa della perizia richiesta nell’uso della maggior parte delle tecniche e, talvolta, della difficoltà nel reperimento dei giusti materiali. In tal senso le caratteristiche pirogeniche di alcune pietre (ad esempio selce e pirite) sono conosciute da circa un milione di anni, e da allora – passando naturalmente attraverso adeguate e funzionali manipolazioni chimiche degli elementi – facciamo leva sostanzialmente sugli stessi agenti per la generazione delle scintille, oltre che ovviamente su alcuni materiali metallici a nostra disposizione a partire dal Neolitico. Ciò che invece è cambiato in maniera decisamente più sensibile da allora è l’uso dei combustibili, sia in ambito domestico che in quello pubblico e produttivo: basti pensare all’importanza che il petrolio e i suoi derivati hanno acquisito negli ultimi due secoli.

Come esca primaria in fase di accensione in passato si utilizzavano stoffe, tra cui il lino cotto e il cotone, o alcune specie di funghi (spesso il Fomes Fomentarius, rinvenuto ad esempio nel frugale equipaggiamento di Ötzi, la mummia ritrovata nei pressi del ghiacciaio Similaun nel 1991), e bisogna attendere l’invenzione dell’acciarino, risalente probabilmente alla fine del secondo millennio a.C., per avere a disposizione un utensile portatile appositamente concepito.

Fino all’epoca industriale l’acciarino in pratica ha rappresentato il punto di arrivo, in termini di funzionalità e controllo, per quel che riguarda l’accensione della fiamma, ed è interessante peraltro come la sua storia sia strettamente connessa all’invenzione e allo sviluppo delle armi da fuoco (non a caso l’altro nome usato per designare questo utile oggetto era focile, da cui fucile).

Come in vari altri ambiti, tra cui quello industriale e quello comunicativo, anche nel settore merceologico della combustione domestica è stato l’Ottocento il secolo della svolta. Di fatto il secolo XIX rappresentò una sorta di continua sperimentazione per la produzione di modelli pratici ed efficienti di accendino. Il francese Francois Derosne nel 1816 ne inventò una tipologia che sfruttava la frizione al fosforo, proprio mentre Alessandro Volta approntava il primo esemplare a gas. Negli anni Venti ci provò il chimico tedesco Johann Wolfgang Döbereiner e circa quarant’anni dopo fu il turno di Gaston Plantè, stavolta con l’introduzione di un meccanismo elettrico. Il maggiore problema di molti di questi modelli non era tanto la difficoltà che mostravano nel produrre la fiammata, quanto il loro alto tasso di pericolosità: non c’erano sufficienti rassicurazioni sul fatto che non scoppiassero da un momento all’altro, senza dubbio anche a causa dell’instabilità dei combustibili allora utilizzati per ottenere la fiamma. Per raggiungere in termini di diffusione i fiammiferi (inventati nel 1827 e diventati quasi subito molto popolari, soprattutto a causa della loro economicità e ridotta pericolosità) l’accendino dovette procrastinare al Novecento, secolo della sua definitiva consacrazione, la propria comparsa nelle tasche di milioni di persone. Prima il modello a miccia, poi quello a benzina (prodotto ancora oggi da alcuni brand specializzati), e infine quello a gas: l’”accendisigaro”, dopo un non lunghissimo periodo in cui aveva assunto le sembianze di soprammobile da esibire nelle case della ricca borghesia fumatrice, fabbricato utilizzando come base pesanti supporti di pietra o di metallo lavorati, è infine transitato nello spazio più intimo dei consumatori: le pochette e gli scomparti delle borse per le donne e, appunto, i taschini degli uomini.

A incentivare l’uso massiccio delle sue versioni rinnovate, però, non è stata tanto la praticità dell’oggetto, quanto il suo diventare accessorio. In fin dei conti il fiammifero sotto gli aspetti della maneggevolezza e dell’economicità non ha mai avuto nulla da invidiare al suo parente più sinuoso. Ciò che lo ha via via condannato a una condizione di progressivo disuso è stato paradossalmente il suo essere essenziale, il suo ridursi a mero elemento pratico concepito per unico obiettivo: consumarsi. L’ultima reale esigenza di ottimizzare le prestazioni vere e proprie dell’accendino si ebbe probabilmente durante la Prima Guerra mondiale: in un conflitto combattuto quasi interamente in trincea le improvvise fiammate dei fiammiferi, specie in piena notte, avevano lo sgradito effetto di allertare la linea nemica, che al fuocherello dello zolfo spesso rispondeva con quello dei fucili. Da quel momento in poi il piccolo mezzo di accensione, che probabilmente se si fosse diffuso con qualche anno di anticipo avrebbe salvato le vite di molti soldati, smise di rappresentare una soluzione alle esigenze pratiche di chi lo usava e iniziò ad abitare una sfera che attiene quasi esclusivamente al desiderio. Strettamente legato alla diffusione sociale del fumo da sigaretta, l’utensile divenne appunto accessorio, costruendo proprio sulla sua natura voluttuaria (di più: viziosa) la propria fortuna. Entriamo negli anni del divismo, dell’Hollywood cinematografica pronta a trasformarsi nella formidabile macchina dei sogni che ancora oggi conosciamo. Seduzione, ostentazione, trasgressione. La geografia del desiderio muta e i pubblici iniziano a sognare di farsi trasportare senza compromessi dalle star e dalle loro movenze esibite, inconsuete, capaci di far sentire tutti protagonisti: casalinghe, impiegati, operai si sentono in diritto di immaginarsi in nuovi schemi gestuali e comportamentali. Zippo diffonde i suoi modelli dotati di “cappuccio” metallico e di stoppino, e poco dopo Ronson immette sul mercato i primi esemplari a butano, dalla fiamma più regolare e dall’odore meno acre.

È nel 1973 però che l’accendino supera di fatto la sua essenza oggettuale e si fa esso stesso mito del quotidiano. Compare il modello in plastica usa e getta. Leggero, colorato, maneggevole, il nuovo accessorio diventa definitivamente sinonimo di spensieratezza (persino perderlo non è più un problema), e il suo lato tecnologico suggerisce con naturalezza i concetti di controllo e automazione. Il fuoco, che per millenni era stato una risorsa preziosa da proteggere, da un lato, e difficile da controllare, dall’altro, ora si lega a un oggetto che ne regola agevolmente l’intensità, e lo conduce ai valori moderni della sistematicità, della riproducibilità, della dilettevole ripetibilità del gesto.

Stavo finendo di ripiegare disegni e cassette quando una segretaria venne a dirmi che il signor Bich mi aspettava nel suo ufficio. Percorsi, col fiato sospeso, i corridoi del piano e bussai alla sua porta. Si aprì elettronicamente. Entrai. Pensai di aver sbagliato posto e secolo, ero a Versailles. La stanza era immensa, forse venti metri di lunghezza e non meno di otto metri di altezza. Una decina di stupendi arazzi di Aubusson coprivano i muri. Sull’unica parete spoglia troneggiava un camino gigante dove bruciavano alberi interi. Seppi poi che serviva più come inceneritore che come riscaldamento centrale. Il barone vi getta, giorno dopo giorno, tutte le sue carte. I suoi archivi si riducono a tre cartelle nere che conservano le sue domande di brevetti: una per la penna a sfera, un’altra per l’accendino, l’ultima per il rasoio. (Séguéla, 1979)

Così uno dei pionieri del moderno advertising, Jaques Séguéla, descriveva il suo incontro con il barone Bich, inventore degli accendini omonimi (se escludiamo la lettera ”h” finale, all’epoca espunta dal marchio forse per un vezzo del nobile imprenditore, più che per una consapevole e motivata scelta di branding), oltre che del rasoio usa e getta e della penna a sfera. Tre soluzioni che hanno mutato la vita di milioni, miliardi di consumatori, riscrivendo la nostra storia quotidiana attraverso l’introduzione di accorgimenti meccanici minimali. Quarant’anni dopo il curioso incontro raccontato da Séguéla il mito dell’accendino in plastica resiste e si trova a fronteggiare le insidie di mercato figlie del nostro tempo, tra cui – secondo la stessa Bic – la “concorrenza sleale” di produttori che per fabbricarli non rispetterebbero gli standard internazionali di sicurezza. Prometeo ci fece il dono della tecnica. È evidente che su come utilizzarla resistano ancora opinioni difformi.

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Goudsblom J. (1995), Storia del fuoco. Dalla preistoria ai giorni nostri, Donzelli, Roma 2008
Peterson H.L (1966), Armi da fuoco nei secoli, Mondadori, Milano, 1966
Jaques Séguéla (1979), Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… Lei mi crede pianista in un bordello, Lupetti, Milano 1993
Eschilo, Prometeo incatenato. Con frammenti della trilogia, Testo greco a fronte, BUR, Milano 2004
Germa P. (1979), Da quando? Le origini degli oggetti della vita quotidiana, Edizioni Dedalo, Bari 1983

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Vincenzo Bernabei è dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione. Coordina il master in brand management presso l’Istituto Europeo di Design di Roma, presso il quale insegna anche Storia della comunicazione. Ha pubblicato saggi e articoli sui consumi seriali, sul digitale, sulla marca e sui media, tra cui le monografie Cinema: evasione. Strategie di fuga nel più invasivo dei media e Sharing identities. Processi culturali e nuove forme del sé. È consulente d’impresa e formatore nel campo del branding e della comunicazione.