NURTURE o dell’educazione libertaria
Infanzia e filosofia. Un approfondimento sulla Philosophy for Children di Matthew Lipman
di Arianna Ioli

L’accusa più frequente rivolta alla filosofia è di non servire a niente. Accusa che è pressapoco uguale a quella rivolta all’istruzione scolastica: non avere alcun valore per la vita, quella vera che inizia quando la scuola finisce. Avvicinare l’infanzia alla filosofia è una delle possibili strade per ridare alla scuola l’opportunità di essere il campo di battaglia in cui viene a formarsi, nel presente, la società del futuro e alla filosofia il diritto di rivendicare un ruolo sociale significativo a cui sembra aver rinunciato. Oggi, in ambito educativo, si sente spesso parlare di filosofia con e per i bambini, tuttavia ritengo importante conoscere l’origine filosofica di questo connubio, che per i più continua a sembrare inconsueto e piuttosto bizzarro.
Gli Anni Sessanta e Settanta conobbero, in America e in Europa, il formarsi di una sensibilità educativa nuova che, articolata in numerosi movimenti, progettava un avvicinamento dell’infanzia alla filosofia; si iniziava a vedere, infatti, in questa strana coppia una strada percorribile per una possibile riforma dell’educazione1. Quest’articolo vuole soffermarsi su alcuni tratti fondamentali della Philosophy for Children di Matthew Lipman: al suo programma non va soltanto il merito di avere fornito una buona base teorica, supportata da ampio materiale didattico, per avvicinare la pedagogia al pensiero filosofico, ma anche quello di avere permesso lo sviluppo di una sensibilità educativa nuova, capace di espandersi al di là del luogo e del tempo in cui era nata, senza perdere il suo obiettivo originario: educare al pensiero. Al di là della proposta di Lipman, parlare oggi di Philosophy for Children significa far riferimento a un movimento che, differenziato nei diversi paesi e profondamente aderente ai diversi contesti di applicazione, ha fatto da cassa di risonanza all’idea che la filosofia con i bambini fosse non solo possibile, ma auspicabile per rendere efficace, in questo mondo, una riforma dell’educazione che avesse la filosofia stessa come protagonista.
La traduzione italiana “filosofia per i bambini” non rende giustizia a ciò che è la Philosophy for Children di Lipman, anzi, dà adito a fraintendimenti: per Philosophy for Children non si intende, infatti, una filosofia calata dall’alto, dalla prospettiva dell’adulto come colui-che-sa, per essere riportata a misura del bambino e del suo non-sapere; non è un modo per addestrare razionalmente il pensiero, né un qualcosa che ci conduce a un’infanzia idealizzata in cui tutti i bambini sono filosofi. Si intende invece un filosofare “con” i bambini dove il “con” racchiude in sé una relazione biunivoca più complessa dell’andare con la nostra filosofia verso il mondo dell’infanzia: nel “con” si situa il carattere della filosofia di Lipman come attività condivisa fondata sul dialogo, dove non è solo il bambino a orientarsi nel pensiero, ma anche e prima di tutto l’adulto che, riconoscendo il domandare dei bambini (e il loro non-sapere) più autenticamente filosofico della convinzione di possedere le risposte giuste, dovrebbe sfruttare l’occasione per essere reintrodotto, insieme con il bambino, alla dimensione filosofica dell’esistenza2.
Reputo perfette le parole che il filosofo tedesco Ekkehard Martens utilizza per delineare l’aspetto doppiamente provocatorio della Philosophy for Children: «Anzitutto come banco di prova per la filosofia tradizionale, accademica, costretta a rimettere in questione e saggiare, in una applicazione pratica inconsueta, la propria autocomprensione e i propri risultati come «filosofia applicata»; in secondo luogo, come sfida che una filosofia di questo tipo rivolge a una prassi educativa cristallizzata, impostata in modo routinario. Lo scopo più importante, tuttavia, sarebbe quello di stimolare gli adulti a intraprendere -per la prima volta o nuovamente- i primi passi della filosofia insieme ai bambini, orientandosi con loro nel pensiero3».
Lipman, insegnando logica alla Columbia University, si rese subito conto dell’enorme difficoltà che avevano i giovani a familiarizzare con quella dimensione critica ed euristica del pensiero che l’educazione scolastica pre-universitaria non prendeva nemmeno in considerazione. Intuì che gli alunni avrebbero dovuto acquisire il prima possibile, fin dalle scuole elementari, un habitus filosofico come modalità principale di approccio al mondo e al pensiero.
La Philosophy for Children, influenzata in un primo momento dalle idee piagettiane allora in voga sullo sviluppo infantile -che ritenevano il bambino delle elementari incapace di idee astratte e pensiero ipotetico-, aderì, in un secondo momento, alle istanze di pensiero dello psicologo russo Lev Semënovič Vygotsky4 (di cui Jerome Bruner si era fatto portavoce) secondo cui ad ogni fase dello sviluppo corrispondeva una logica a sé stante e rispettarla senza sminuirla era conditio sine qua non di una relazione didattica feconda che stimolasse il pensiero trascinando lo sviluppo dietro di sé e non semplicemente assecondandolo. Questa idea che le procedure didattiche potessero favorire i processi di crescita ed essere fondamentali nell’acquisizione di nuove strutture cognitive, unita alla tradizione psicologica interazionista fedele alla matrice sociale delle attività mentali, fu senz’altro determinante per dare slancio a un curriculum che aveva come obiettivo la formazione di un pensiero critico e deduttivo visto come pilastro imprescindibile dell’educazione a quella ragionevolezza che, il mondo, così come si presentava, sembrava richiedere a gran voce.
Lipman termina di scrivere nel 1969 Harry Stottlemeier’s Discovery5, la storia di un bambino di dieci anni che vive la scuola come un’avventura che lo porta alla scoperta del pensiero e delle regole che lo governano. Tali regole sono le regole della logica di modello aristotelico: secondo Lipman l’arte di generalizzare, di trovare una conclusione valida da premesse si apprende a partire dalle situazioni concrete in cui ci troviamo immersi fin da piccoli. Pertanto non c’è un’età giusta per imparare a usare la logica, ma usandola e riflettendo su come la usiamo ovvero pensando al nostro pensiero, iniziamo a scoprirne le implicazioni emozionali, etiche e sociali. Harry scopre il pensiero come se si trattasse di un giardino segreto che aveva sempre avuto vicino, ma che non aveva notato. I racconti proposti da Lipman infatti hanno come tema ricorrente proprio l’esplorazione di un mondo di cui il protagonista ha le chiavi di accesso, ma in cui non si è mai avventurato, probabilmente anche perché non è mai stato incoraggiato ad aprire la porta.
Lipman, nel 1970, portò Harry e il suo progetto nelle scuole e iniziò a svilupparlo dapprima con un piccolo gruppo di bambini di dieci anni, poi, vedendo che funzionava, continuò la sperimentazione in altre classi e, a partire dal 1974, rinunciando alla cattedra alla Columbia University, si trasferì al Montclair State College, in New Jersey, dove fondò l’IAPC (Institute for the Advancement of Philosophy for Children).  L’IAPC fece subito parlare di sé, ma il clima culturale del tempo fece sì che gli inizi di questa pratica fossero dapprima fraintesi, poi tutt’altro che facili: «I mass-media furono sedotti dalla relazione inedita tra la filosofia e i bambini: i due termini offrivano una saporita contraddizione. […] Questa vasta pubblicità dà luogo a una serie di malintesi. Il primo è che la Philosophy for Children avesse come obiettivo l’insegnamento e la memorizzazione per i ragazzi dei sistemi filosofici di Platone e Aristotele. Quando si spiegò che non si voleva che i bambini studiassero e apprendessero la filosofia, ma che invece i bambini la facessero, è emersa un’obiezione e cioè che si sa che i bambini non possono fare filosofia6».
Il curriculum di Lipman fu senza dubbio influenzato dai nuovi orizzonti psicologici che si aprivano nel panorama americano, tuttavia non si può intendere la sua riflessione come una rilettura dell’educazione alla luce di questi orizzonti. Non si tratta di una riforma educativa coerente con le nuove scoperte della mente umana, ma un ripensamento della filosofia in chiave formativa. Il nocciolo duro rimane, pertanto, filosofico e la proposta didattica di Lipman: «ritrova la sua peculiarità nel forte accento posto sui temi di derivazione e di ispirazione filosofica e, in particolare, sulla fiducia che la filosofia, riformulata nei termini di una didattica aggiornata, possa riacquistare una posizione di centralità nella scuola futura.[…] Si capisce, così, come il materiale didattico elaborato da Lipman possa assumere i caratteri di un’ alternativa radicale rispetto alle trattazioni manualistiche. Si tratta indubbiamente di opere di autore pensare, sin dall’inizio a misura del pubblico a cui sono destinate»7.
Lipman vuole recuperare attraverso i racconti la dimensione filosofica dell’esperienza come capacità di mettere in pratica le proprie capacità riflessive per sciogliere i nodi problematici con cui, nella vita, abbiamo a che fare. Educare non è preparare qualcuno ad un futuro che verrà, ma rispondere alle urgenze del presente, mano a mano che si presentano. In Lipman ricompare la fiducia di Dewey nell’intelligenza come capacità di servirsi del proprio pensiero in maniera autonoma imparando sempre e daccapo dall’esperienza. La relazione tra Lipman e Dewey è profonda: lui stesso lo spiega in un’intervista in cui chiarisce la relazione tra il suo cammino e la tradizione deweyana in cui a tutti gli effetti si inscrive8. Racconta di essere venuto in possesso di alcuni scritti di Dewey nel 1943, quando era soldato di fanteria durante la Seconda Guerra Mondiale e di essersi appassionato a questa lettura. Una volta tornato in America si iscrisse alla Columbia University e mandò a Dewey la sua tesi di dottorato, Dewey rispose al giovane Lipman mostrando un certo entusiasmo e dando inizio a una corrispondenza da cui Lipman rimase profondamente influenzato. Dice Lipman stesso nell’intervista: «penso che “Philosophy for Children” sia un metodo per introdurre la filosofia di Dewey nella pratica educativa. In questo senso, “va oltre” Dewey, che era profondamente deluso dagli sforzi di sviluppare la sua filosofia fatti quando era ancora in vita. Penso che molti filosofi si definissero deweyani senza rendersi conto che essere un vero deweyano non significa ripetere o parafrasare quello che Dewey ha detto, ma “andare oltre” Dewey, continuando a lavorare nel suo spirito»9.
Nella riflessione di Lipman si trovano ampie risonanze del pensiero di Dewey: l’idea di fondo è che ciò che garantisce la vita di una democrazia sia che i suoi cittadini si impegnino nel pensiero e ne diventino responsabili, pensare non è giocare con idee svuotate di realtà, ma utilizzare i prodotti del pensiero per dirigere l’azione. La filosofia può diventare la chiave di accesso a una realtà migliore solo se intesa nel suo senso originario di pratica quotidiana di ricerca che dura tutta una vita. Per educare al pensiero bisogna partire dalla consapevolezza che il pensare filosofico non lascia dietro di sé un insieme ordinato di risposte, ma traguardi provvisori sempre sottoponibili a nuove interrogazioni.  L’educazione non è solo la via di accesso alla cultura, ma il mezzo attraverso cui appropriarcene eliminando la sensazione che ci venga imposta dall’esterno. Se i bambini vogliono appropriarsi del patrimonio che mettiamo loro a disposizione devono potere accedere alla materia grezza, riviverne il processo che ha portato a conoscerla e riorganizzarla con uno spirito di scoperta che si rivela ben più stimolante dell’apprendimento mnemonico del prodotto finito. Apprendere qualcosa equivarrà così a quell’eccitazione che mette in moto il pensiero e lo spinge lontano: «in realtà imparare qualcosa è impararla di nuovo nello stesso spirito di scoperta che prevalse quando fu inventata per la prima volta»10.  Un ripensamento della filosofia come anima dell’educazione è un tentativo di ridare fiducia a quel sentimento di meraviglia che da sempre mette in moto il pensiero, ma a cui l’accesso alle aule scolastiche sembra essere vietato. Il sistema-scuola mette in atto contro i bambini un vero e proprio complotto per impedire loro di pensare autonomamente. Eppure, scrive Lipman, «non è facile impedire ai bambini di pensare. In realtà i ricordi cui siamo profondamente legati, degli anni trascorsi a scuola rappresentano spesso momenti in cui abbiamo pensato con la nostra testa e certamente non grazie al sistema educativo, bensì suo malgrado»11.
Il luogo che Lipman sceglie per far scendere sulla terra il pensiero filosofico è l’aula scolastica, organizzata come una comunità di ricerca. All’interno di questa classe-comunità è il dialogo a essere protagonista: portando infatti nuove narrazioni da parte di ciascun punto di vista, rappresenta un vettore di instabilità fondamentale in quell’ambiente strutturato che è la scuola. Al suo interno il bambino si sente parte insignificante di un mondo immutabile in cui il suo pensiero non è degno di ascolto né portatore di cambiamento. Ma questo mondo statico che la scuola propone è del tutto illusorio, costruito per difendere loro e gli adulti stessi dalla problematicità dell’esistenza che si vorrebbe veder risolta una volta per tutte. Se non riconosciamo che nessuna delle nostre conoscenze è abbastanza solida da non essere più rimessa in questione, allora davvero non potremmo insegnare ai bambini nulla di utile per la vita: il mondo, al di fuori dell’aula, è una costellazione instabile con cui gli alunni dovranno, prima o poi, avere a che fare. All’ansia di certezza che ci porta a costruire un ambiente mentale semplificato e inerziale all’interno del quale trovare solide risposte ai problemi del vivere, dovremmo rispondere, con un’«etica della fragilità»12 come spiega L. Mortari in un suo testo su educazione e pensiero autonomo. «Così come il vivere umano è costitutivamente fragile e contingente, altrettanto fragile deve essere il pensiero, ossia disposto a costruire teorie che mantengono uno statuto di fragilità perché tessute con idee pronte a frantumarsi sotto l’urto dell’esperienza e dell’incontro con altri universi simbolici»13. Questo incontro-scontro che permette di mettere in moto il pensiero e fluidificare le idee date per scontate è il dialogo autentico, quello che trasforma  l’ovvio in problema, la risposta in domanda. L’adulto, l’insegnante, il facilitatore ha il compito di permettere il libero fluire del pensiero, non impone alla comunità/classe «sistemi perfettamente coerenti di idee […] ma coltiva fermenti cognitivi vivi, ossia pensieri che danno da pensare»14.
Il dialogo autentico è esplorazione e ricerca sempre in atto, non abbandona la problematicità da cui è nato per sistemazioni definitive, ma impiega le sue energie in un pensiero creativo che scavi la materia sempre più a fondo pur con la consapevolezza che, a tale profondità, non c’è un limite. È  il pensiero creativo a rendere critico lo stupore del bambino verso il mondo: se la straordinarietà del mondo suscita meraviglia, è la meraviglia, che, se intesa come strada filosofica da seguire, conduce avanti le nostre ricerche. Il pensatore critico e quello creativo hanno punti di vista che si integrano e non si escludono: «il primo è, in un certo senso, un conservatore, poiché non è soddisfatto fino a quando non trova una credenza che renda superfluo il pensiero. Il secondo invece è essenzialmente scettico e radicale. I pensatori creativi sono contenti solo quando, come elefanti in una cristalleria, sono liberi di mandare in frantumi le cianfrusaglie del mondo»15.
Filosofare con i bambini manda in frantumi le cianfrusaglie del nostro mondo, disorganizzando gli schematismi mentali rigidi in cui le loro domande non trovano risposta. Le domande dei bambini, così come quelle dei filosofi, ci colgono senza risposte poiché quelle che davamo per scontate si rivelano del tutto inadeguate. Trovandoci spogliati delle nostre certezze, possiamo però decidere di ripartire  insieme con i bambini proprio da quelle domande che avevamo smesso di porci. Compiere questa operazione significa sedersi a gambe incrociate in quello spazio strettamente filosofico e sospeso che si trova tra la domanda e la risposta e lì restare. E pensare.

Oltre Lipman. Un luogo per filosofare: il teatro

In Italia si dovettero aspettare gli Anni Novanta affinchè la Philosophy for Children si imponesse come qualcosa che filosofi e insegnanti avrebbero dovuto prendere sul serio. Questo accadde grazie al lavoro di editori e professori che si impegnarono personalmente per far conoscere il pensiero e le opere di Lipman attraverso articoli e traduzioni16. Nacquero così numerose proposte che pur riconoscendo a Lipman la paternità del metodo si mossero in direzioni differenti per adeguare la Philosophy for Children alla specificità del contesto italiano. Il panorama italiano è vario e interessante, tuttavia, da quando ho iniziato ad avvicinarmi alla Philosophy for Children, che è stata argomento della mia tesi magistrale, ciò che ha suscitato maggiormente il mio interesse è stato un progetto di filosofare con i bambini in un teatro torinese che al tempo conoscevo appena.
Vorrei parlare di questo progetto perché a mio parere risponde bene alla domanda su come andare oltre Lipman tirando fuori il suo programma (spesso accusato di eccessiva scolasticità e rigidità) dalle aule scolastiche alla ricerca un luogo altro che la Philosophy for Children possa abitare. Qui il luogo altro è il teatro, inteso non solo come spazio fisico ma come pratica artistica e sociale.
Il Progetto Favole Filosofiche17 nasce nel 2006 a Torino dall’idea di Alessandro Pisci e Pasquale Buonarota, con l’intento di utilizzare il teatro per avvicinare i più piccoli e gli adulti al piacere di filosofare. Il progetto18 è caratterizzato dall’ avere messo in campo un vero e proprio metodo di ricerca e sperimentazione filosofica e teatrale che ha il suo punto di partenza nelle scuole confluendo in un secondo momento, in uno spettacolo pensato non solo per i bambini, ma da loro e grazie a loro. L’esperienza teatrale dei due attori e ideatori si inserisce nel tessuto sociale e culturale che li circonda attraverso un metodo di intervento nelle scuole volto alla formazione di un’assemblea pensante che trova nel teatro un luogo in cui esprimersi. I due artisti per dimostrare in pratica come la Philosophy for Children non sia ridurre la filosofia adulta a misura di bambino, non partono dalle loro domande sulla vita e sul mondo, ma da quelle dei bambini. La forma teatrale che ne risulta non è quella di un teatro per i bambini, ma con i bambini.
Fare teatro è filosofare con loro, o meglio, “Favolosofare”.
Punto di partenza del progetto sono le favole filosofiche, un vasto repertorio narrativo che include miti, fiabe, leggende e racconti di differenti culture che hanno l’obiettivo di alimentare domande urgenti: Chi siamo? Perché moriamo? Cos’è giusto? Cos’è bello? La risposta a queste domande non esiste, ma le domande sono sempre le stesse e uniscono gli uomini in un’universalità emotiva e interrogante che sfrutta le differenze per mettere in moto un processo dialogico. Il progetto, che dura in genere due anni per ognuno dei diversi temi che vengono scelti, parte nelle scuole dove il tessuto multietnico, spesso visto come un ostacolo all’insegnamento, si rivela, al contrario, un’opportunità per pensare insieme a partire da punti di vista diversi. La diversità vuole un dialogo che metta in comune le differenze e che, attraverso un processo di comprensione dell’altro, porti alla costruzione di una comunità i cui membri siano tutti uguali in quanto liberi di esprimersi. Il fare filosofia è la scoperta del diritto universale al pensiero non solo all’interno di una classe tra i bambini, ma anche nelle relazioni con gli adulti ,dove la libertà espressiva del bambino è spesso sminuita, se non addirittura messa a tacere. A partire dalla favola ai bambini viene chiesto di mettere in moto una vera e propria “macchina delle domande”, in cui essi sono chiamati a scoprire il gusto dell’interrogarsi ancora prima di quello di ricevere risposte. Tali risposte, i bambini se ne rendono presto conto, non le sanno dare nemmeno gli adulti. Ed è proprio a partire dalle domande che emergono dagli incontri nelle scuole che A. Pisci e P. Buonarota creano lo spettacolo che arriverà, soltanto l’anno successivo, a una sua forma compiuta. C’è da dire però che tale forma non è mai del tutto conclusa o definitiva, in quanto per natura rimane, filosoficamente parlando, sempre aperta a nuove domande, nuovi stimoli e nuovi finali.
Al termine del primo anno, dopo avere coinvolto nel progetto anche le famiglie dei bambini in incontri interattivi chiamati Feste teatrali, il percorso prende la forma di uno spettacolo adatto al circuito sia nazionale sia internazionale (il progetto è stato premiato nel 2009 con il premio nazionale Eolo Awards) dove è rintracciabile il percorso filosofico sperimentato nelle scuole, senza che l’elemento didattico vada ad intaccare la qualità estetica dello spettacolo messo in scena.
La domanda del bambino, nella declinazione emersa durante i laboratori, diventa la domanda dei protagonisti della storia e del pubblico che vi si immedesima. Lo spettacolo mette in luce, in modo lipmaniano, le domande che solitamente diamo per scontate: filosofare non è inventare, ma scoprire cose che avevamo sotto il naso e su cui, fino a quel momento, non avevamo riflettuto. Nei laboratori tenuti nelle scuole viene chiesto ai bambini che cosa sia per loro la filosofia: a ogni risposta che viene data tutti rispondono: “Qualcosa di vero c’è”. I bambini imparano la liceità di tutte le risposte, felici di non avere sbagliato nulla perché ogni risposta evoca in loro un modo di avvicinarsi al sapere: ciò che più di tutto la filosofia ama19. I bambini rispondono nei modi più disparati e sorprendenti alla domanda su cosa sia la filosofia: possono dire che sono ipotesi, racconti, un filo cristallino, un suono, una roccia con dei segni o delle forchette.
Scoprire che le risposte sono tutte legittime e che nessuno in realtà sbaglia, è il primo passo per capire che una risposta unica e certa non c’è, ma che bisogna darsi delle risposte provvisorie per far sì che le idee siano oggetti di un gioco serio. Questo dialogare incessante viene in un secondo momento messo in scena: dove non vediamo il caos di tutte le domande ma la loro convivenza all’interno di quel cammino tortuoso che porta alla costruzione di una comunità che cerca, a partire da un dubbio condiviso, di trovare una direzione comune. La domanda che nasce spontanea è come fanno tutte queste domande e dubbi a sciogliersi in un finale? Non c’è una risposta che metta fine allo spettacolo così come non c’è uno spettacolo che accontenti del tutto i bambini e metta fine alle domande. I genitori e gli educatori che partecipano agli spettacoli di Favolosofia se ne rendono conto e si rimettono in discussione. Si tratta forse davvero, a questo punto, di insegnare ai bambini a convivere con quell’universale instabilità emotiva che sta alla base di una comunità pensante. Il teatro permette quel movimento di ritorno della filosofia nel mondo da cui è nata: le domande e le risposte dei bambini nate nelle scuole, ritornano, attraverso il medium del teatro, anche agli adulti, rendendoli consapevoli che il loro compito sarebbe educare i bambini a crescere nella domanda e non al di fuori di essa.

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Alcuni tra i più grandi pensatori del tempo, da J. Bruner a G. Bateson a L. Kohloberg in ambito anglosassone, senza trascurare i contributi europei tra i quali spiccava il GREPH (Groupe de Recherche sur l’Enseignement Philosophique) coordinato da J.Derrida, cercarono, partendo da piattaforme diverse, di far fronte a quel bisogno di filosofia e di ragionevolezza che il mondo sembrava richiedere a gran voce. Cfr. «Modi di fare filosofia con i bambini/ragazzi» in C.Calliero- A. Galvagno, Abitare la domanda: Riflessioni per un’educazione filosofica nella scuola di base, Morlacchi Editore, Perugia, 2010.
Cfr. E. Martens, Philosophieren mit Kindern. Eine Einführung in die Philosophie, Philipp Reclam jun. GmbH und Co., Stuttgart, 1999; trad. it. Di Elisa Tetamo, Filosofare con i bambini: un’introduzione alla filosofia, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2007; pp. 16-25.
Ivi, p. 27.
Cfr. L.S.Vygotsky, Pensiero e Linguaggio, Giunti Barbera, Firenze, 1954; l’edizione italiana è basata sull’edizione inglese Thought and Language a cura di E.Hanfmann e G.Vakar (the MIT Press, Chicago, 1962) e sull’originale russo compreso nel volume Izbrannyie psichologiceskij issledovanija a cura di A.N. Leont’ ev e A. R. Lurija (Accademia delle Scienza Pedagogiche, Mosca, 1956), trad. it. Di A.F. Costa, M. P. Gatti, M.S. Veggetti.
Cfr.  M. Lipman, Harry Stottlemeier’s Discovery, IAPC, New York, 1974 trad. it. Di C.Iannuzzi, Il prisma dei perchè, Liguori Editore, Napoli, 2004.
Bulletin of the International Council for Philosophical Inquiry with Children, numero 2, vol. VII, dicembre 1992; tradotto in «Edizione», n.13, 1996, p. 113; citato in  C.Calliero- A. Galvagno, Abitare la domanda: Riflessioni per un’educazione filosofica nella scuola di base, cit; p.84.
«M. Lipman e la Philosophy for Children» Di A. Cosentino in  Filosofia e Formazione: 10 anni di Philosophy for Children in Italia (1991-2001)a cura di A. Cosentino, Liguori Editore, Napoli, 2002; pp. 76-77.
Intervista di M.Striano a Lipman in occasione della pubblicazione integrale del curriculum della Philosophy for Children per l’editore Liguori di Napoli. Cfr. «La filosofia come educazione del pensiero. Una conversazione con pedagogica con Matthew Lipman» di M. Striano, in Filosofia e Formazione: 10 anni di Philosophy for Children in Italia (1991-2001), cit.; pp. 61-65.
Ivi, pp. 62-63.
10«Pratica filosofica e riforma dell’educazione» di M. Lipman, in Filosofia e Formazione: 10 anni di Philosophy for Children in Italia (1991-2001), cit., p. 16.
11M. Lipman, Thinking in Education, Press Syndicate of the University of Cambridge, 2003 II (1991, New York); trad. it. Di A. Leghi, Educare al Pensiero, Vita e Pensiero, Milano, 2005; p. 10.
12L. Mortari, A scuola di libertà: formazione e pensiero autonomo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008; p. 28.
13Ivi, p. 31.
14Ivi, p. 46.
15M. Lipman, Thinking in Education, trad. it, cit.; p. 277.
16 Ricordiamo tra tutti l’editore Armando a cui si deve la prima traduzione di Harry Stottlemeier’s Discovery,  Ligurori Editore che nel 1999 fece tradurre e pubblicò tutti i racconti di Lipman con i rispettivi manuali per insegnanti e il lavoro di Marina Santi, Antonio Cosentino e Maura Striano.
17 Sito internet: www.favolefilosofiche.com.
18 Progetto realizzato grazie al supporto della Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani Onlus e al sostegno dei Servizi  educativi della Città di Torino.
19 Cfr. P. Buonarota, A, Pisci, Favolosofia numero uno. La favola dei cambiamenti, Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani onlus teatro stabile di innovazione e Fondazione Alberto Colonnetti, Torino, 2008, pp. 7-8.