§violenza
Le performance di cancellazione di Nalini Malani:
violenza, memoria e confine
di Martina Cavalli

Nalini Malani nasce a Karachi nel 1946, in quello che all’epoca è ancora territorio indiano. Nel 1947, a causa della Partition fra Pakistan e India che ha seguito l’indipendenza dall’Impero Britannico, Malani è costretta a trasferirsi prima a Calcutta e poi a Bombay[1] nel 1954. «Da quando ho memoria la mia famiglia ha sempre parlato del 1947 come del momento della Partizione, mai dell’Indipendenza. Storie di questo periodo hanno sempre gettato un’ombra sulla mia vita» (Kissane, Pijnappel, 2007: p. 99). Tutti gli episodi di violenza politica e sociale che da quel momento si susseguono in India, non ultimo il massacro dei mussulmani in Gujarat nel 2002, sono percepiti da Malani come eventi parte di una sequenza ciclica, e soprattutto come gesti insieme di replica e innovazione. La sua produzione artistica analizza questo andamento ciclico della violenza storica, in un eterno ritorno in cui essa è sempre anche nuova e originale. Contraria alle narrazioni nazionaliste che tendono a ricercare tracce di tradizione nel presente, Malani si concentra su tutto ciò che si evolve e muta, anche nelle tecniche e modalità in cui la violenza viene perpetrata; analizza le ferite profonde del dramma storico in forme esteticamente complesse che si servono di riferimenti e motivi derivanti tanto dalla tradizione indiana, quanto dalla poesia Urdu, dalla mitologia classica occidentale e dalla pittura devozionale Hindu.
Il lavoro di Malani è profondamente segnato dalle vicende politiche indiane e internazionali, in modo particolare si impegna a dare risonanza alle voci marginali, e alle istanze minoritarie che vengono puntualmente espunte dalla narrazione storica corrente. Tuttavia il suo coinvolgimento politico non assume la forma di un manifesto, di una contestazione diretta sotto gli occhi dello spettatore; al contrario si materializza nella scelta del dispositivo formale ed è percepibile nell’esperienza che dell’opera fa l’osservatore. Fra tutte le modalità espressive a cui Malani ricorre – installazioni multimediali, performance teatrali, pittura e video – sono forse i suoi wall drawing/erasure performance[2] a interrogare in maniera più insistente il discorso storico a proposito delle sue elisioni. I disegni a muro/performance di cancellazione sono interventi temporanei che Malani realizza a carboncino sulle pareti interne dei musei o istituzioni in cui espone, e che poi rimuove con strumenti sempre diversi. I soggetti sono figure umane o frammenti di esse, parti del corpo danneggiate, membra di uomini e donne emarginati, poveri, oppressi che sfilano sul muro come in una sorta di processione funebre, spesso intervallati da parole, brani testuali che Malani utilizza per cadenzare il ritmo e dotare l’opera di riferimenti storici e sociali. L’artista realizza il disegno prima o durante l’inaugurazione della mostra e di norma la performance di cancellazione avviene l’ultimo giorno in cui questa è aperta al pubblico.

Nalini Malani, City of Desires – Global Prasites, 1992-2018, (Foto: Federica Lamedica).

Si prenda come riferimento City of Desires – Global Parasites, il disegno a muro datato 1992-2018, realizzato da Malani nella tarda primavera del 2018 per la propria retrospettiva al Castello di Rivoli. L’opera conta sei figure principali e si dispiega come un fregio su due pareti ad angolo. Come primo elemento l’artista realizza un’ala spezzata, un riferimento all’innocenza perduta dei bambini che vivono in stato di guerra e in povertà. Dopodiché il visitatore incontra il mezzo busto di una donna ritratta con in mano un gomitolo da cui si dipana la mappa del quartiere inglese di Bombay in cui gli indiani nel periodo coloniale non erano ammessi dopo le cinque del pomeriggio. Lungo le strade del quartiere disegnate da Malani, l’artista inserisce brani tratti da Le città invisibili di Italo Calvino, in particolare dai capitoli dedicati alle città di Raissa e Olivia. Malani ritrae poi all’estremità del reticolo un dalit, un intoccabile, avvolto da fasce, sulle cui bende l’artista riporta frasi da I want from love only the beginning opera del poeta palestinese Mahmoud Darwish (1941-2008). Più avanti si riconosce una figura umana, forse un altro intoccabile, incastonato nell’angolo tra le due pareti. Lo stato di subalternità del dalit all’interno del sistema di caste indiano è reso visivamente attraverso l’anamorfosi con cui è deformata la figura. In successione si incontrano altre figure, un soldato che intima a un uomo di spalle di allontanarsi imbracciando un fucile; per ultimo un altro dalit che sembra uscire da un cervello umano. Attraverso quest’ultima figura Malani vuole fare riferimento alla vicenda di Bhimrao Ramji Ambedkar (1891-1956), uno fra i primi dalit nella storia dell’India a raggiungere un’educazione superiore arrivando a presiedere il comitato di redazione della carta costituzionale e nominato primo ministro della giustizia della neonata Unione Indiana. Il disegno a muro viene distrutto il 17 gennaio 2019 coinvolgendo in questo caso dei giovani di età compresa tra gli otto e i diciott’anni. All’eliminazione di ogni figura vengono destinati due giovani performer che cancellano il wall drawing con delicate piume di pavone.
Episodi di cronaca recente ed eventi storici locali si intessono sulle pareti a libere associazioni di pensiero con le quali il visitatore si lega anche grazie ai frammenti di testo che incontra lungo il percorso e che danno a loro volta origine a una cascata di riferimenti alla propria storia personale.

Nalini Malani, City of Desires – Global Prasites, 1992-2018, disegno a muro/performance di cancellazione, (Courtesy: Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Foto: Andrea Guermani).

Nei suoi wall drawing/erasure performance Malani coinvolge lo spettatore in un atto di impressione e cancellazione di immagini che gioca con le idee di violenza e lenimento, dimenticanza e ricordo, di recupero dall’oblio. Ricordare in questo caso può essere reale, oppure frutto di libere associazioni, o addirittura sogno: implica però una relazione fisica profonda tra gesto di creazione e di rimozione del segno pittorico, e lo sguardo di chi assiste.
Quando ancora il disegno è integro su parete, il movimento degli occhi dell’osservatore è rapido e provoca un succedersi a catena di immagini e riferimenti che si legano indissolubilmente a ciò che questi ha davanti. Durante però la distruzione del disegno, Malani costringe lo spettatore a frenare lo sguardo, a rallentare la velocità con cui normalmente i suoi occhi si posano sulle cose. Si attiva in questo modo l’azione della memoria che trattiene l’opera dall’oblio e recupera ciò che era stato rimosso. Inoltre i tratti densi del carboncino possono essere cancellati ma in maniera imprecisa, lasciando comunque delle tracce di colore sulla parete.
Questa è la base della forza politica dell’opera di Malani: sulle pareti rappresenta le ferite dell’umanità, i traumi collettivi e la loro violenza; cancellandoli li rende ancora più presenti. Il medium della cancellazione è radicale quanto paradossale: la performance di cancellazione pone il disegno a carboncino nella dimensione della durata nonostante la sua natura sfuggevole ed effimera, e rende visibile ciò che non lo è. Cancellare significa annullare, ma mostrare quest’azione rende l’oggetto più vivo e valido. Inoltre anche la violenza si colloca in questa struttura temporale durativa sia per la frequenza con cui essa accade nella quotidianità di certe società, sia per la dimensione a-temporale del trauma che essa genera.
Tentare di rendere qualcosa invisibile mette in risalto l’oggetto in maniera ancora più potente e a causa della sua sparizione questo diventerà lampante. Per Malani evidenziare un evento significa mantenerlo presente, vivido e quindi impedire che sfoci nel passato dimenticabile. L’artista crea quindi connessioni fra l’accadimento specifico che rappresenta a parete e il presente storico dell’osservatore, una rete che trattiene gli eventi e non permette a chi osserva di lasciarli andare e in questo modo perderli. Si delinea così un nuovo anno 0 nel momento della distruzione, l’inizio di un nuovo tempo presente della violenza, in questo caso nei confronti del proprio disegno.

Nalini Malani, City of Desires – Global Prasites, 1992-2018, dettaglio, (Foto: Federica Lamedica).

Gli esecutori materiali della performance di cancellazione sono sempre diversi (ballerini, lo staff di vigilanza del museo, i curatori della mostra, dei bambini, il pubblico presente in sala), e dalla loro prospettiva questo atto è carico di responsabilità: se vogliono ricordare ciò che stanno cancellando devono fare un grande sforzo per trattenere nella memoria l’immagine, tramite un movimento di intensità uguale e contraria a quello della propria mano. Lo spettatore/esecutore viene così costretto a creare un diverso tipo di archivio mentale, spezzando quell’ansia da cronologia tipica anche della storia dell’arte. Si produce così una nuova catalogazione in sottrazione dell’oggetto, in absentia. Il processo mnemonico si attiva tramite la sottrazione allo sguardo dell’oggetto da ricordare.
La pratica di cancellare il proprio disegno nasce nel 1992 in occasione della mostra personale alla Chemould Gallery di Bombay. Qui Malani realizza il primo disegno a muro effimero, City of Desires, esponendolo dal 26 maggio al 9 giugno 1992, giorno in cui mette in scena la performance di cancellazione dello stesso. Il dipinto è realizzato con carboncino, pittura acrilica e nero fumo, mentre il pavimento della galleria è cosparso di pigmento di ossido rosso. La composizione, realizzata direttamente sulle pareti, comprende un’anamorfosi, simbolo per Malani della distorsione connaturata all’atto del guardare e alla relazione che si instaura tra chi guarda e ciò che viene osservato. L’anamorfosi è qui un viso umano di grandezza innaturale che con occhio inquisitorio osserva il visitatore nel suo percorso all’interno della mostra. Soggetto di questo murale sono i senzatetto del quartiere di Lohar Chawl, sede di un grande mercato cittadino e fra i più poveri di Bombay: «Al di sotto della pelle mondana [di Bombay, NdA] giace un mondo alternativo che rivela se stesso soltanto quando non è “osservato”: quando è assorto in se stesso e non si alza per sostenere il tuo sguardo» (Malani, 1989). La distruzione del disegno nasce come gesto di partecipazione sentimentale allo stato di abbandono e incuria degli affreschi di Nathdwara in Jaipur, a causa della negligenza dello stato indiano che non li considerava degni di tutela. Nel 2014 in occasione della mostra You Can’t Keep Acid in a Paper Bag a cura di Roobina Karode al KNMA–Kiran Nadar Museum of Art di New Delhi, accanto al disegno a muro/performance di cancellazione Medea as Mutant 1993-2014 si legge in un testo a parete «this is a tribute to the fresco artists of Nathdwara whose works are getting destroyed by our callousness. This manner of working is in identification with those artists. These works will be wiped off after 15 days just as theirs have been. It is hoped that the sadness is shared by others. N. Malani. 5/92».
Datare questo scritto al 1992 significa creare continuità fra il primo disegno-cancellazione e l’ultimo, e mantenere valida l’origine di questo medium artistico: un atto di violenza creativa che si oppone come gesto politico a un atto distruttivo fine a se stesso. Ciò che rende diverso, infatti, questo atto di distruzione da quello degli affreschi di Nathdwara è la finalità opposta: uno elimina per trattenere, l’altro distrugge per sottrarre.
L’interesse di Malani per questo medium effimero nasce dagli studi che l’artista compie sul teatro e sulla performance per le potenzialità radicali di entrambi come strumenti di rielaborazione e messa in atto del trauma. A questo riguardo si pensi anche alla prossimità di teatro ed exhibition making per l’importanza che entrambi riservano all’azione del ricordo (Bal, 2016). La successione di immagini sui muri, nel loro progressivo opacizzarsi scalfisce il confine tra memoria personale e memoria collettiva: la porosità caratteristica della memoria infatti trova corrispondenza nella porosità del carboncino; in questo modo quel vissuto collettivo che risiede in ciascuno, nella visione di se stesso su parete tende a riconnettersi alla coscienza collettiva (Vial Kayser, 2015).

Nalini Malani, City of Desires – Global Prasites, 1992-2018, dettaglio, (Foto: Federica Lamedica).

A questo proposito si osservi anche come il disegno di Malani non sia fatto di linee, ma di aree, di zone di colore e come vi sia una sorta di idiosincrasia verso tutto ciò che genera separazione, verso un tratto che sia frontiera fondata sulla violenza. Una frontiera la cui violazione non normata causa altra violenza.
Il primo grande trauma della Partition è legato proprio a questo atto di separazione coatta di comunità e porta Malani ad agire graficamente contro un confine inteso come barriera, come non-spazio vuoto il cui unico proposito è quello di generare e alimentare esclusione (Boer, 2006).
Il segno sulla parete è spesso, è sicuro ma non definito, il carboncino sfuma disperdendosi e col passare del tempo valica il proprio limite grafico svanendo in innumerevoli gradazioni di grigio. I corpi di Malani sono campiture scure di colore a cui vengono cancellate delle parti con dei piccoli cerchi bianchi; i wall drawing sono opere senza delimitazioni fisiche se non quelle dello spazio in cui sono custodite. Esse creano dei veri e propri ambienti, sono delle modalità di creazione e rappresentazione che hanno un grande impatto fisico sul contesto che le accoglie. Trasgrediscono le funzioni del proprio formato: dall’essere una successione di tratti si trasforma in spazio di negoziazione e di incontro. La linea diventa un insieme aperto e una traiettoria violabile e violata dallo sguardo che grazie alla natura effimera del materiale allena l’occhio in una dinamica di accesso alla visione e inibizione alla stessa. Sotto questa luce la linea diventa quel luogo di possibilità, non fisso né normato, in cui visioni differenti soprattutto in termini di potere possono entrare in gioco, possono scontrarsi per poi fondersi in uno spazio di discussione ulteriore.
D’altro canto, sempre ricordando Boer, il confine è per sua natura arbitrario, temporaneo e mutevole: Malani lo rappresenta per ciò che dovrebbe essere, ovvero uno strumento che favorisca il dialogo e la commistione, che combatta il pregiudizio e l’ignoranza reciproca.
Attraverso la violazione fisica del proprio disegno, ovvero la sua distruzione, Malani offre anche la propria pratica al giudizio del fruitore e in questo tribunale mette in discussione se stessa e la propria arte: solo infatti un lavoro significativo può sopravvivere alla propria sparizione; il vuoto è percepibile solo se lasciato da una forte presenza.

Note
[1] Nonostante nel 1995 il nome della città di Bombay sia stato mutato in Mumbai, l’artista continua a usare la precedente denominazione, sia nelle sue pubblicazioni, sia nel suo linguaggio quotidiano, come gesto di resistenza al fanatismo e al clima di intolleranza. Inoltre chiede che sia rispettata questa sua scelta anche nei testi che parlano della propria arte.
[2] Malani ha coniato il termine “wall drawing/erasure performance” per indicare questa particolare modalità espressiva per mantenere visibili nel nome le due parti fondamentali che definiscono questa pratica.

Bibliografia
Boer I. E., Uncertain Territories. Boundaries in Culturla Ananlysis, Rodopi, Amsterdam 2006.
Bal M., In Medias Res. Inside Nalini Malani’s Shadow Plays, Hatje Kantz Verlag, Ostfildern 2016.
Bal M., Stains against violence: Nalini Malani’s strategies for durational looking, in «Journal of Contemporary Painting», vol. 4, n. 1, pp. 59-80, 2018.
Kissane S., Pijnappel J., (a cura di) Nalini Malani, Charta, Milano 2006.
Malani N., (a cura di) Through the Looking Glass, Contemporary Art, New Delhi 1989.
Sambrani C., Apocalypse Recalled. The recent work of Nalini Malani, in Pijnappel J., Nalini Malani: Stories retold, Bose Pacia, New York 2004.
Vial Kayser C., Nalini Malani a golbal storyteller, in «Studies in Visual Arts and Communication: an international journal», vol 2, n. 1. 2015. LINK (consultato in data 16/12/2019).

Martina Cavalli è nata a Modena nel 1993 ed è una storica dell’arte. Si è laureata in Lettere moderne all’Università di Bologna e in Storia dell’arte contemporanea all’Università Cà Foscari di Venezia. Ha collaborato con il dipartimento curatoriale del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea di Rivoli-Torino, e si è occupata della redazione di cataloghi di mostre. È co-fondatrice di CampoBase, curator-run-space di Torino.