§Memorie Sottopelle
che cosa sa un corpo
L’instabilità della voce selvaggia
di Paula Carrara

Queste parole, che si organizzano ritmicamente al rumore della tastiera, mettono in moto il desiderio di svelare, negli interstizi della pelle, un pensiero dimenticato. Sono righe che tracciano un percorso verso una possibile memoria sonora: la vocalità come pulsione esistenziale e la creazione di un immaginario attraverso il linguaggio. È un gesto poetico, uno sforzo per ristabilire legami perduti a causa dei processi di “onto-epistemicidio” subiti dalle popolazioni amerindie in Brasile. Non si tratta di un recupero nostalgico di una “ontologia indigena”, poiché questa non appartiene a un passato remoto e immemorabile, ma vive nel pensiero. 

Mi muove la possibilità di celebrare questa ereditarietà, di aprire una fessura che esponga la sua presenza, nascosta da anni di processi coloniali.  Come queste radici vivono nella sonorità del mio corpo?  Come guidano i miei pensieri? Ci sono delle  tracce di queste dinamiche anche nel modo in cui creo un  lavoro artistico? 

CASSANDRA we have a problem [1] è  una performance solo di una donna che attraversa gli eventi del mito greco di Cassandra. Barbara, figlia di un paese esotico, Cassandra è una principessa troiana  profetessa di un dio greco, Apollo, che le concesse la capacità di vedere il futuro.  Quando Cassandra si rifiutò di baciarlo, Apollo, furioso per essere stato respinto, le sputò in bocca, e da quel momento nulla di quello che lei dice verrà più ascoltato. Così, Cassandra rimase intrappolata nella tragica condizione di vedere chiaramente il destino che attendeva Troia, senza mai essere creduta.

È una performance che esplora le diverse sfaccettature della materialità vocale nel tentativo di discutere il tema della credibilità e del diritto di “avere una voce”. E sarà questa esperienza a farmi compagnia in questa breve indagine alla ricerca del selvaggio e della instabilità nella voce.

Frammento delle prove di CASSANDRA we have a problem – Video: Carlos Canhameiro

Assorbire l’altro e, in questo processo, trasformarsi

Prendo in mano il termine “brasilianità”, un concetto estraneo che indosso come un abito che è stato appena ritrovato in un angolo dimenticato dell’armadio. Visto dall’esterno sembra un abito fisso, statico, un’entità capace di trasmettere un’essenza inequivocabile. Ma da qualche anno, cerco di rispolverare i miei sensi e reintegrare al mio immaginario la complessità del contesto storico, sociale e culturale in cui sono nata.  Il Brasile è la mia prima circostanza.  

Cerco di stabilire un incontro dinamico con questo tessuto complesso di affluenze e variazione, e lo sento aderire sulle spalle, costole e bacino rivelando le forme del mio corpo – donna nata in Brasile nel 1983. Condivido con le donne della mia famiglia una marcata eredità dell’architettura amerindia  come il disegno degli occhi, la forma delle labbra e la robustezza delle caviglie. Indosso questa pelle, meno scura di quella delle mie parenti, ma ancora forte sotto il sole, con la stessa tendenza a scurirsi senza patire.

Non ho vissuto i tempi della “mata”, parola che in portoghese si riferisce alla natura selvaggia, e nemmeno mi ha cresciuto il “sertão”, con il suo clima secco e aspro, paesaggio dei racconti di mia nonna materna.  Sarebbe questa terra arida, terreno di  sopravvivenza difficile, responsabile per i miei piedi così lunghi e pronti a camminare? O sarebbero queste ossa il racconto di una possibile eredità africana, soppressa dai documenti e offuscata nei racconti familiari?

Le radici italiane si leggono dal mio cognome “Carrara” e le radici portoghesi dal secondo cognome “Silva” e dalla lingua che ha disegnato la mia esperienza di essere e di raccontare il mondo.  Lingua che non è rimasta intatta, ma che ha attraversato un processo di trasformazione improbabile e unico.

Caetano Galindo, ricercatore specialista in linguistica, racconta che la lingua parlata per la stragrande maggioranza delle persone che vivono in Brasile 

“é il frutto dell’elaborazione di un’eredità europea da parte di milioni di neri, meticci, asiatici, indigeni, poveri, privati e ignorati, che da sempre hanno costituito l’immensa maggioranza della popolazione delle fattorie, delle ville e delle città; della presenza centrale delle madri, che hanno trasmesso la loro versione di questa lingua ai loro figli (spesso generati da uomini bianchi europei in atti sessuali con vari gradi di consenso o violenza), sottraendo dalle mani degli uomini europei la linea di trasmissione di questo patrimonio linguistico”  (Galindo, 2023).

Questə cosiddettə “barbarə” del territorio hanno divorato e trasformato la lingua, mantenendola riconoscibile ma rendendola distinta dalla lingua parlata in Portogallo. 

Portare l’attenzione a questa traccia della storia della lingua, rievoca il carattere antropofagico della cultura brasiliana. Nella cultura amerindiana, specialmente tra le popolazioni vicine al litorale, il cannibalismo era un rito importante e di carattere simbolico, un modo di integrare diverse prospettive nella propria comunità.  Non si limitava al consumo fisico dei nemici sconfitti, ma rappresentava l’incorporazione dell’alterità. 

Eduardo Viveiros de Castro, antropologo noto per il suo lavoro sul prospettivismo amerindio [2], spiega che 

“il cannibalismo non rappresentava solo un atto di vendetta o di assimilazione, ma un modo per integrare la prospettiva dell’altro, assorbendo le sue qualità e forze, trasformando così la differenza in parte del proprio tessuto sociale. L’atto antropofagico è una potente metafora della complessità delle relazioni sociali e cosmologiche amerindie, dove l’alterità viene inglobata piuttosto che eliminata” (Viveiros de Castro, 2017).

Dei, nemici ed europei erano tutte forme di alterità che attiravano e dovevano essere assimilate attraverso un complesso dispositivo che riflette una visione del mondo in cui la relazione con l’altrə è centrale. 

Corpo e Linguaggio: Resistenza e Cannibalismo

Mi tolgo i guanti di pulizia verde scuro e accendo una sigaretta, significa che devo essere a circa metà performance. Con quel poco di rossetto che mi è rimasto sulle labbra, dico: 

“Troia ha perso la guerra. Mi trovo circondata dall’acqua sulla barca di Agamennone. Prigioniera, ex principessa, educata. Il colore della mia pelle e i miei modi non tradiscono il fatto che sono straniera. Ma la verità è: c’è una donna barbara in mezzo ai corpi civilizzati greci” (Carrara, 2020).

Scena di CASSANDRA we have a problem. Foto:Joža, cortesia del Faki Festival (Zagreb, 2021)

Seduta, indosso le cuffie e faccio partire, quando la performance è in Italia [3],  l’audio di un autentico madrelingua italiano. Ho un compito chiaro: immergermi nelle sue parole, parole scritte da me, e riprodurle ad alta voce. Il cambiamento della mia vocalità è chiaro e la sovrapposizione ritmica forse dilata la mia condizione di donna straniera in scena.

Amplificare la diversità non è una mancanza, è un’affermazione. Anni dopo che la performance era già in circolazione, ho ritrovato tra le mie note questa frase di Ailton Krenak [4] (2020): «Dobbiamo assumere i nostri corpi primitivi, primari, meticci, ‘caboclos’, che sono i luoghi in cui la colonizzazione non ha mai vinto». Il mio accento brasiliano e la mia fisicità “cabocla” fanno del mio corpo in performance un testimone di resistenza? E quali discorsi emergono quando il mio corpo – donna, straniera, non conforme – attraversa frammenti del mito di Cassandra? È possibile costruire, attraverso l’arte, meccanismi che destabilizzino gli stereotipi e che invitino a riconoscere nella diversità dei corpi una presenza più potente della brutalità del mondo?

Esiste un’idea istituita dal colonialismo, quella del “corpo come mancanza”, pensiero che sembra aver creato radici profondissime, anche nella più alta intellettualità progressista occidentale. Al corpo diverso, periferico, straniero tocca essere associato alla mancanza di anima [5], mancanza di cultura, mancanza di civiltà. Ai corpi provenienti dai paesi – ancora oggi – chiamati “esotici” è concessa una condizione sottomessa, inferiore, anche se, saltuariamente, sono molto adatti agli scaffali istituzionali dedicati al folklore e al “decolonialismo eurocentrico” [6]

Culturalmente sottovalutati, i corpi marchiati come “selvaggi, stranieri, non conformi” sono spesso associati a un’altra caratteristica: la mancanza di linguaggio.

Scena di CASSANDRA we have a problem. Foto: Pavlos Vrio, cortesia del Buffer Fringe Festival (Cipro, 2023)

“La cosa più difficile nel tradurre una lingua è il suo ritmo, il suo metabolismo. Ogni lingua è un percorso di eccitazioni biologiche. Una parola, un’unica parola è lo sforzo perfezionato generazione dopo generazione. Io ho sempre desiderato questo potere di essere, di parlare in tante lingue. Je sais parler votre langue. I know your language. Yo hablo tu lengua. So parlare la tua lingua. E ti fa infuriare sapere che la tua lingua ora è anche la mia”.

 CASSANDRA we have a problem

Questo testo nasce come risposta al primo studio della performance presentato a Napoli, nel 2018. Dal materiale presentato, ciò che ha risuonato di più e provocato più discussione tra il pubblico presente era un frammento del testo di Eschilo, Agamennone, proiettato in scena.

“Le porte del palazzo si aprono e appare Clitemnestra che, dai gradini, si rivolge a Cassandra, ancora immobile sul carro:

CLITEMNESTRA
Puoi venire dentro anche tu, Cassandra: Zeus ha voluto che, senza rancore, con gli altri servi tu partecipassi alle purificazioni in palazzo(…)

Cassandra rimane sul carro, in silenzio, come se non avesse sentito Clitemnestra.

CORO
Parole chiare ha detto a te, Cassandra. Potresti darle retta or che il destino le sue reti fatali ora ha gettato. (…)

CLITEMNESTRA
Se non parli la tua lingua esotica, cercherò di esprimermi in modo che capisca, e la farò obbedire ai comandi della ragione.

CORO
Sembra che la straniera abbia bisogno di un interprete: si comporta come un animale selvatico appena catturato, non rassegnato alle catene.

CLITEMNESTRA
Ah, è pazza, questa cagna baccante! Anche adesso si mette a ululare! Sembra demente e fuori di sé, senza capire cosa è: un trofeo di guerra, venuta da una terra appena conquistata e saccheggiata, riluttante al giogo”.

Il rifiuto di Cassandra di rispondere, lei che è sacerdotessa di un dio greco, viene interpretato da Clitemnestra come una “mancanza di lingua”, attribuita al suo “essere selvaggio”. Intanto, non appena Clitemnestra si ritira, Cassandra parla, e poco dopo, rivolgendosi al coro, conferma che parla bene la lingua [7]

“CASSANDRA
Io lo dico e ripeto: vedrai che avverrà.

CORO
Sarà destino; ma io voglio che non sia così.

Cassandra
Eppure, io parlo bene la lingua ellenica”.

Questo dialogo mette in luce come il linguaggio non è solo uno strumento di comunicazione, ma un veicolo di potere e identità. La “mancanza di lingua” di Cassandra non è reale, ma un costrutto sociale che serve a relegarla al margine e a disumanizzarla. 

Attraverso la scelta consapevole di quando tacere e quando parlare, Cassandra disobbedisce e sfida la struttura oppressiva stabilita, esprimendo il suo dissenso in questo alternare. Padroneggiando pienamente una lingua straniera, Cassandra si ribella, e nella scelta di non parlare esercita con autorevolezza il suo essere “selvaggia”.

L’incostanza dell’anima

La cattura delle alterità esterne alla società rappresentava uno dei motori principali delle popolazioni amerindie, in particolare per i Tupinambá, focus delle ricerche di Viveiros de Castro. «La guerra mortale contro i nemici e l’ospitalità entusiastica verso gli europei, la vendetta cannibale e la voracità ideologica esprimevano la stessa propensione e il medesimo desiderio: assorbire l’altro e, in questo processo, trasformarsi» (Viveiros de Castro, 2017). Per questa cosmologia, lə altrə sono considerati una soluzione prima di diventare, come gli invasori europei [8], un problema.

Tuttavia, anche questa apertura non è un elemento stabile o rigido. Il selvaggio è mobile. Nelle numerose descrizioni del contatto con i gesuiti portoghesi e nel loro fallito tentativo di imporre il cattolicesimo agli amerindi, si osserva che «gli indigeni facevano tutto ciò che dicevano i profeti e i sacerdoti – tranne ciò che non volevano» (Viveiros de Castro, 2017).

Questo comportamento rimanda a un’analogia descritta da António Vieira, gesuita e missionario portoghese, nel suo Sermão do Espírito Santo del 1657:

Questo dialogo mette in luce come il linguaggio non è solo uno strumento di comunicazione, ma un veicolo di potere e identità. La “mancanza di lingua” di Cassandra non è reale, ma un costrutto sociale che serve a relegarla al margine e a disumanizzarla. 

Attraverso la scelta consapevole di quando tacere e quando parlare, Cassandra disobbedisce e sfida la struttura oppressiva stabilita, esprimendo il suo dissenso in questo alternare. Padroneggiando pienamente una lingua straniera, Cassandra si ribella, e nella scelta di non parlare esercita con autorevolezza il suo essere “selvaggia”.

L’incostanza dell’anima

La cattura delle alterità esterne alla società rappresentava uno dei motori principali delle popolazioni amerindie, in particolare per i Tupinambá, focus delle ricerche di Viveiros de Castro. «La guerra mortale contro i nemici e l’ospitalità entusiastica verso gli europei, la vendetta cannibale e la voracità ideologica esprimevano la stessa propensione e il medesimo desiderio: assorbire l’altro e, in questo processo, trasformarsi» (Viveiros de Castro, 2017). Per questa cosmologia, lə altrə sono considerati una soluzione prima di diventare, come gli invasori europei [8], un problema.

Tuttavia, anche questa apertura non è un elemento stabile o rigido. Il selvaggio è mobile. Nelle numerose descrizioni del contatto con i gesuiti portoghesi e nel loro fallito tentativo di imporre il cattolicesimo agli amerindi, si osserva che «gli indigeni facevano tutto ciò che dicevano i profeti e i sacerdoti – tranne ciò che non volevano» (Viveiros de Castro, 2017).

Questo comportamento rimanda a un’analogia descritta da António Vieira, gesuita e missionario portoghese, nel suo Sermão do Espírito Santo del 1657:

“La statua di marmo richiede molto lavoro per essere scolpita, a causa della durezza e resistenza del materiale; ma una volta fatta, non è necessario intervenire ulteriormente: mantiene sempre la stessa forma. La statua di mirto è più facile da formare, grazie alla flessibilità dei rami, ma è necessario lavorarci continuamente per mantenerne la forma. (…) Ecco la differenza tra le nazioni nella dottrina della fede. Ci sono nazioni naturalmente dure, tenaci e costanti, che difficilmente accettano la fede e abbandonano gli errori dei loro antenati; resistono con le armi, dubitano con la ragione, rifiutano con la volontà, si chiudono, insistono, argomentano, replicano, richiedono grande sforzo per essere conquistate; ma, una volta convertite, una volta accettata la fede, rimangono salde e costanti in essa, come statue di marmo: non è necessario fare altro. Ci sono altre nazioni, invece – e queste sono le nazioni del Brasile – che accolgono tutto ciò che viene loro insegnato con grande docilità e facilità, senza discutere, senza replicare, senza dubitare, senza resistere; ma sono statue di mirto che, non appena il giardiniere solleva la mano e le cesoie, perdono subito la nuova forma e ritornano alla loro antica e naturale rozzezza, diventando di nuovo foresta come erano prima”.

Secondo Viveiros di Castro, questo è il tratto distintivo delle società amerindie: la mutabilità è un valore centrale. Intanto, come le statue di mirto, questo processo non porta mai a un’abdicazione totale della propria origine culturale. Appropriarsi di una pratica, delle conoscenze, di un mito e anche di una lingua e rimanere instabile, sostenere l’incostanza che permette navigare tra due (almeno) mondi. Una fluida e elegante capacità di trasformarsi nell’incontro con un’alterità, per subito dopo ri-diventare foresta.

La Voce Selvaggia

La voce è concreta. Si manifesta nell’interazione tra corpi, collegando chi la emette a chi la riceve e modificando lo spazio che attraversa e «anche dal semplice punto di vista fisiologico, essa implica una relazione» (Cavarero, 2003). 

Nella cosmologia amerindia, la voce è dotata di poteri creativi e trasformativi. Parlare e cantare non sono meri atti di comunicazione, ma gesti profondamente connessi al pensiero, all’intenzione. La voce è dotata di incanto, una forza creativa e trasformativa, che non solo esprime ma anche modella la realtà. E in quanto portatrice di incanto, diventa un mezzo per manifestare l’essenza delle cose, per dare corpo all’intangibile e per connettere mondi diversi tra loro. Attraverso l’incanto, la voce agisce sul mondo,  dando vita a nuove possibilità di esistenza, istituendo attorno a sé il suo caratteristico spazio di liminarità – uno spazio che è intrinsecamente instabile. 

La voce fluisce, si trasforma, è incostante, rifiuta la fissità e abbraccia il mutamento continuo. La voce è selvaggia.  E questa sua caratteristica di instabilità è quello che ho cercato di rincorrere nella creazione di CASSANDRA we have a problem. Mentre attraverso le azioni della performance, sento svelarsi la materialità non visibile del mio corpo:  il diaframma, i polmoni, le corde vocali. La voce che attraversa CASSANDRA we have a problem non è mai statica; è in perenne oscillazione tra lingue, ritmi e intensità, riflettendo l’incostanza, o come ho preferito chiamarla, l’instabilità, che caratterizzano tanto la mia identità quanto gli eventi che attraverso. 

Scena di CASSANDRA we have a problem. Foto: Marcella Foccardi, Maison Brison (Milano, 2024)

L’arte è un territorio privilegiato dove l’instabilità della voce può essere esplorata, coltivata e condivisa. Un spazio che mi ha permesso di riattivare pulsioni che parlano di libertà e di alimentare, nell’incontro con altre voci, altri testi, altrə artistə una nuova immaginazione politica.

«Chi non è pronto per la festa non è pronto per la guerra» dice Ailton Krenak (2020) e le sue parole risuonano forte nella memoria sonora che costituì il terreno su cui cammino nella mia ricerca sulla voce: 

“Mia nonna rideva molto forte. Rideva forte e rideva tanto. Ho un ricordo chiaro di quando mi avvicinavo al cancello di casa sua, e già prima di arrivarci sentivo la sua risata. Rideva con tutto il suo minuscolo corpo di “un metro e quaranta e qualche centimetro” e i suoi capelli tinti di biondo. (…) so che ho ancora un lungo percorso da fare per raggiungere la semplice libertà della risata di mia nonna” (Carrara, 2016).

L’irriverenza, la festa e il riso sono sovversivi. Per me, incarnano la natura deliberatamente incompleta, incostante e potente delle dualità concettuali amerindie. Incarnano gli incontri in famiglia e una logica eversivamente ironica di leggere il mondo che io tanto ammiro. La voce che è libera per ridere forte è la stessa pronta a gridare la rivoluzione. Cassandra ha una voce, e nell’ultimo atto alza un bicchiere e celebra il fatto di poter cantare insieme. Non serve un dono divino per sapere che A liberdade não tem volta [9].

Teaser di CASSANDRA we have a problem. Video: Joža, cortesia del Faki Festival (Zagreb, 2021), editing: Paula Carrara

Bibliografia

Canhameiro C., Carrara P.A.S., Cassandra we have a problem. [manoscritto teatrale non pubblicato], 2020.
Carrara P.A.S., [Corpo Voz Escuta] – Reflexões sobre a pratica do ator, Editora Lamparina Luminosa: São Bernardo do Campo, 2016.
Cavarero A., A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003.
Eschilo, Orestea. Tradotto da M. Valgimigli. Rizzoli, Milano 1980
Galindo C.W., Latim em pó: Um passeio pela formação do nosso português, Companhia das Letras, 2023.
Krenak A., Futuro ancestral, Companhia das Letras, São Paulo, 2022.
Krenak A., Vagamundos – Um Laboratório Cênico: Abrindo Terreiros – Cosmovisões Terra 2020, YouTube video, Sesc São Paulo, 2020, disponibile su LINK (Accesso: 19 agosto 2024).
Monteiro G.L.G., A virada decolonial nas artes da cena, Revista Brasileira de Estudos de Presença, 2(51), pp.1-21, 2024.
Paiva A.S., A virada decolonial na arte brasileira, Mireveja, Bauru/São Paulo, 2022.
Viveiros de Castro E., Cannibal metaphysics: Amerindian perspectivism, Radical Philosophy 182, 2013.
Viveiros de Castro E., A inconstância da alma selvagem, Ubu Editora, São Paulo, 2017.

Note 

[1] CASSANDRA we have a problem è un lavoro con creazione e performance: Paula Carrara  regia: Carlos Canhameiro visual concept: Renan Marcondes apollo: Christian Piana  agamennone (ITA): Alberto Baraghini agamennone (ENG): Benjamin Michael artistic consultant: Daniel Gonzalez| Maristela Estrela | Giulia Tollis |Cristina Salmistraro artistic advisor: Paula Mirhan | Carolelinda Dickey|Carolina Bianchi |Carla Stara |Giulia Grechi translation advisor (eng): Nicholas Redding, Mariana Pessoa, Benjamin Michael produzione italia. Camilla Brison MUD Residenza Artistica (CREARE – Campania / IT),  Kulturfactory Residency (Domicella / IT) e Oficina Oswald de Andrade (São Paulo / BR).
[2] Il prospettivismo amerindio di Viveiros de Castro è una teoria antropologica che sostiene che, nelle cosmologie indigene dell’Amazzonia, diverse specie (umani, animali, spiriti) vedono se stesse con la stessa anima e il mondo secondo prospettive culturali proprie.Questa visione destabilizza le dicotomie occidentali tra natura e cultura, suggerendo che la soggettività e l’identità dipendono dal punto di vista dell’osservatore.
[3] CASSANDRA we have a problem è stata creata in italiano, ma ha anche una versione integrale in inglese e portoghese.
[4] Ailton Krenak è un attivista, leader indigeno, ambientalista e scrittore brasiliano appartenente al popolo Krenak, un gruppo indigeno che vive principalmente nello stato di Minas Gerais, Brasile.
[5] Un esempio significativo è dato dagli scritti del gesuita spagnolo José de Acosta, che nelle sue opere descrive i nativi del Nuovo Mondo come esseri che, seppur dotati di una certa intelligenza e capacità pratica, erano considerati inferiori rispetto agli europei per la loro mancanza di una “vera anima” cristiana. Acosta, nel suo “De Procuranda Indorum Salute,” parla della necessità di convertire questi popoli “senz’anima” per salvarli dalla perdizione.
[6] Tentativo di criticare o superare le strutture coloniali che si basa su paradigmi, metodologie o quadri concettuali che non si distaccano realmente dalla centralità dell’Europa o dall’imposizione di valori e concetti occidentali.
[7] E nonostante parli bene la lingua, la sua voce non sarà ascoltata.
[8] La scelta del genere maschile prevale nella narrazione storica dell’invasione e colonizzazione del Brasile principalmente perché la stragrande maggioranza degli invasori europei erano uomini.
[9] In italiano “La libertà non torna indietro”.

Paula Carrara Originaria di São Paulo, è regista, performer e vocal coach. Dal 2001 esplora la creazione contemporanea, concentrandosi sul territorio della voce come costrutto bio-politico. E’ laureata in Pedagogia Teatrale (2007) e ha un Master in Studi Performativi (2015) presso l’Università di São Paulo. Integra la Cie. de Faux (Francia) e collabora con artistə in Italia e Brasile. Nel 2022 ha fondato AUTENTICA, voce e comunicazione, e pubblica mensilmente la newsletter Co(spirare) dedicata alla voce.