PERFORMING HISTORY
Un percorso senza garanzie
di Iain Chambers

Stuart Hall era un uomo venuto dai Caraibi, dallo stesso spazio coloniale di C.L.R.James, Aimé Césaire, Frantz Fanon, Édouard Glissant e Bob Marley. Questo spazio, costituito attraverso lunghi processi di creolizzazione, ha collocato la politica e la poetica in nuove configurazioni.  Arrivando dalla cosiddetta ‘periferia’ del mondo metropolitano Stuart era destinato a disturbare e radicalmente smontare i termini ‘inglese’, britannico, europeo e bianco. Come Frantz Fanon, Assia Djebar, Derek Walcott e Edward Said, ha dovuto rimescolare le carte ereditate dal colonialismo e dallla cultura del paese madre.

In un saggio pubblicato nel 1988 con il titolo ‘New Ethnicities’ Stuart Hall dichiarò la fine dell’età dell’innocenza del ‘soggetto nero puro.1 Prendendo a esempio la complessa geografia delle formazioni dell’identità nera all’interno della modernità occidentale, è forse il caso di insistere, persino più incisivamente, sulla fine dell’innocenza del ‘soggetto bianco’ egemone. Ciò richiamerebbe una costellazione critica dove l’idea stessa di un ‘Atlantico nero’, quale proposta da Paul Gilroy, divenga una sfida filosofica alle coordinate di comprensione della modernità, date per neutrali, e dunque per universali.2 Una formazione discorsiva  ̶ la filosofia europea   ̶  eredità apparente di una tradizione inaugurata sulle coste del Mediterraneo dai greci, è a questo punto interrotta. Non è né cancellata, o ignorata, né semplicemente sovvertita; piuttosto, è costretta a viaggiare in uno spazio che è di gran lunga più esteso. Una continuità, accudita e garantita da interrogativi generati apparentemente dentro il regno autonomo del pensiero, è interrotta e dispersa.

Uno dei modi di pensare l’impatto culturale e filosofico degli studi culturali e postcoloniali nel mondo anglofono, di fatto, sarebbe precisamente quello di tenere in considerazione la figura fondamentale di Stuart Hall. Dai Caraibi all’Europa, l’intrecciarsi di una figura critica e biografica che conduce, dopo l’impero, verso un pensiero ‘privo di garanzie’, adesso osservato attraverso le lenti aggiuntive della razza, del genere e dell’etnia. Si tratta di una posizione planetaria che non può essere ignorata o semplicemente distinta da enunciati critici. Essere un maschio ‘nero’, e il ‘soggetto’ di una ‘cultura profondamente coloniale’, non è mai una mera caratteristica individuale (Derek Walcott). E’ proprio questa dimensione   ̶  il posizionamento bio-politico della voce in una cartografia critica profondamente caratterizzata da poteri asimmetrici  ̶  a infiammare ciò che ha conquistato, probabilmente, la massima prominenza nel campo degli studi culturali e postcoloniali, e nel potenziale d’impatto che questo ha sulle configurazioni filosofiche contemporanee: la questione dell’identità. Fino a che punto l’insistenza di un corpo situato, contrassegnato e costruito da forze storiche, politiche, culturali ed economiche sia autorizzata a intervenire nella configurazione della ‘filosofia’, non è per niente chiaro. Il suo status di ambiguità dissemina un’inquietudine, un’interrogazione.

E’ questa appropriazione leggermente ribelle, persino irriverente, a indurre una disposizione critica grazie alla quale ‘l’esterno’ e il non-riconosciuto, o il ‘non-filosofico’, fa irruzione nel campo. In questo scenario il corpo postcoloniale − storicamente segnato e culturalmente situato  − non è tanto una figura che cerchi di stabilire un’identità: lui o lei, come ha precisato Fanon molti decenni fa, è già stato totalmente assoggettato a un: ‘Toh!, un negro!’.3 Lui, o lei, è piuttosto una figura che rivela l’identità: i suoi meccanismi, la sua disciplina, le sue ideologie. In questa esposizione critica le procedure e i protocolli dell’identità sono disturbati e de-familiarizzati. A questo punto, pensare le fondamenta stesse del pensiero, smontando ‘il fardello della rappresentazione’ (Kobena Mercer) imposta e rifiutandosi di ‘essere’ ciò che era stato ordinato in precedenza, conduce a quello che si può considerare un multi- o inter-culturalismo critico.4 La stessa domanda identitaria (per chi? Dove, quando, e come?) diventa problematica per tutti, e non solo per quelli già situati nelle marginalità designate e nelle posizioni subalterne di nero, nativo, indigeno, e quant’altro: tutto quel che disturba l’universalità incolore del bianco.

A fronte di questa espansione degli orizzonti critici, ci si trova sempre nella prossimità di Stuart Hall. Il precedente importante lavoro di Hall sulle configurazioni di media e televisione nella cultura inglese contemporanea, all’apparenza locali, fu motivato da un’attenzione alla costruzione e all’articolazione di un consenso culturale, politico e sociale. In seguito fu raffinato nelle sue elaborazioni, molto autorevoli, di come la  razza sia costruita interattivamente dal posizionamento e dalla definizione del soggetto razzializzato dentro la narrazione emergente della nazione.  Questo lavoro critico ha reso gli affetti performativi di un linguaggio profondamente politici. Ha anche messo in questione la presunta neutralità, e la conseguente autorità, della voce disciplinare (dalla sociologia e la storia sociale alla politica e alla cronaca dei media) che analizza, spiega e definisce gli attori coinvolti. Sempre più, nell’ultimo lavoro di Hall, è negli spazi del tutto più incerti, procurati e provocati dai linguaggi delle arti visive, che tali argomenti hanno trovato una risonanza crescente.5 La svolta verso questi linguaggi, e un discorso che è apparentemente estetico, hanno paradossalmente fornito i mezzi per sondare, provocare e propagare un senso più ampio del ‘politico’. Negli anni Ottanta, durante l’era Thatcher caratterizzata da insurrezioni e risentimenti contro una politica razzializzata e rigide definizioni di nazione e cittadinanza, l’insistenza radicale sull’essere al contempo nero e British aveva sfidato la limitazione delle prospettive culturali e sociali. Tutto ciò si riversò non solo nelle strade, ma anche in un movimento artistico avanguardista nero. Il lavoro visivo, filmico e fotografico di giovani artisti neri quali Isaac Julien, Mona Hartoum, Keith Piper, John Akomfrah, Sonia Boyce, Eddie Chambers, Sutapa Biswas, insieme a molti altri, aprì un’importante serie di spazi di intervento in Gran Bretagna. Sfidando conoscenze più conservative, l’occupazione simultanea di discorsi etici ed estetici (filosofia e arte) realizzò una nuova costellazione critica. Qui, negli spazi interculturali e interdisciplinari impressi ed esplorati nel campo visivo sono stati riconfigurati gli epistemi ereditati di identità, linguaggio e arte.

Come pioniere del pensiero trans-disciplinare, l’operato di Stuart Hall era destinato a viaggiare oltre gli schemi già stabiliti. Gettando le premesse per itinerari trans-nazionali – dai Caraibi all’Europa, da Napoli a Shanghai e Buenos Aires – i suoi lavori, come quelle linee ‘blu’ tracciate sul globo dal suo amato Miles Davis, erano destinati ad arrivare lontano. Il taglio critico inciso sul corpo della cultura britannica (ed europea) da Stuart e dagli studi culturali hanno fornito e provocato una nuova serie di coordinate con cui mappare, navigare e negoziare un mondo che è ormai irreducibile agli interessi esclusivi di Londra, Parigi, Berlino o Washington. Nelle sue analisi del disfacimento dell’impero britannico evidente nel centro metropolitano (e di come il mondo ex-coloniale è crollato sull’Occidente), Stuart aveva aperto un percorso critico dove il particolare e il planetario si intrecciano continuamente in uno scenario politico di cui non si capiscono le conseguenze… se, se non osiamo seguirlo nello spazio che lui ha sempre insistito è uno spazio ‘senza garanzia’.

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1 Stuart Hall, “New Ethnicities,” in Stuart Hall: Critical Dialogues in Cultural Studies, David Morley and Kuan- Hsing Chen (eds) (London: Routledge, 1996).
2 Vedi Paul Gilroy, The Black Atlantic: Modernity and Double Consciousness (Cambridge: Harvard University Press, 1992).
3 Frantz Fanon, Pelle Nera, Maschere Bianche, trad. Mariagloria Sears, Milano: Marco Tropea, 1996,  p. 97.
4 Kobena Mercer, Welcome to the Jungle: New Positions in Black Cultural Studies (New York: Routledge, 1994).
5 A parte molti articoli e discussioni sull’argomento, il culmine dell’impegno diretto di Hall verso questi processi artistici critici sono state la promozione e la soprintendenza della realizzazione dello Institute of International Visual Arts (Iniva) e dello Autograph ABP di Rivington Place, che si è aperto a Londra nel 2007.

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Iain Chambers teaches Cultural, Postcolonial and Mediterranean studies at the University of Naples. He studied with Stuart Hall at the Centre for Contemporary Cultural Studies and is the author of many books including Urban Rhythms (1985), Migrancy, Culture, Identity (1994) andMediterranean Crossings. The Politics of an Interrupted Modernity (2008).