§restituire, lenire, ridistribuire
Prezzo e valore di una restituzione:
il caso dei Motunui Epa
di Daniela Gervasi

La verità, vi prego, sulle restituzioni
La sera del 18 gennaio del 2008 accade qualcosa di inedito nella storia della televisione italiana: l’allora Ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli viene ospitato di persona nello studio del Tg1, il più importante telegiornale nazionale, per presentare al pubblico quello che tutt’ora è il simbolo, per il nostro paese, della lotta per la restituzione dei beni archeologici scavati clandestinamente: il cratere di Eufronio.
«Si tratta di una grandissima vittoria, una volta tanto parliamo delle cose buone che il nostro paese sa fare» [1].

Il vaso, opera di uno dei più importanti artisti della Grecia classica, unico per dimensioni e raffinatezza della decorazione, sarebbe stato la punta di diamante della mostra Nostoi. Capolavori ritrovati, la prima di una serie di esposizioni  tramite le quali il Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri presenta ogni anno il frutto del proprio operato al grande pubblico.
Ma di che vittoria parlava, esattamente, Rutelli?

I pezzi esposti in Nostoi provenivano tutti da grandi musei americani, Metropolitan e Getty Museum in testa. Direttori e curatori che li acquistarono conoscevano benissimo la provenienza illecita di queste opere, ma ciò non ha impedito loro di impossessarsene comunque.
Oggi questa storia è stata ampiamente raccontata da inchieste giornalistiche [2], libri [3], numerose trasmissioni televisive e perfino un podcast [4]; è diventata un caso di studio che ha attirato l’interesse dei criminologi, consentendo per la prima volta di studiare in maniera seria il traffico internazionale di reperti archeologici, inquadrandolo a pieno titolo come il fenomeno criminale che è e liberandoci, almeno in parte, di una narrazione che fino a quel momento aveva visto nel tombarolo l’ultimo eroe romantico. Non solo: per la prima volta si hanno prove concrete del fatto che siano proprio i grandi musei ad alimentare questo fenomeno, come dimostra lo schema trovato nella macchina di Pasquale Camera, finanziere corrotto morto in un incidente stradale nel 1995 [5]. 

Interessante è ciò che scrive il Ministro Rutelli nella sua prefazione al catalogo della mostra, a proposito della strategia adottata dall’Italia per fare pressione sui musei americani: «La nostra posizione, ancor prima che con la legge, intende proporsi con la forza dei principi etici. Pensiamo che non si possa accreditare come un’istituzione culturale quella che propone al pubblico opere trafugate e illegalmente acquistate: sarebbe paradossale invocare la cultura per giustificare la detenzione di opere trafugate. Grazie a questo metodo, sono stati conclusi con successo i negoziati con il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Museum of Fine Arts di Boston e il Princeton University Art Museum, che ci hanno consentito di recuperare numerose ed importanti opere d’arte, molte delle quali sono esposte in questa mostra, ma ancor più di intraprendere stabili collaborazioni e scambi scientifici ed espositivi» [6].

Da un lato c’è la pressione esercitata facendo leva su quei principi etici che non solo sono l’essenza stessa su cui si fonda il concetto di museo, ma che da un altro punto di vista fanno sì che l’opinione pubblica non riesca mai a figurarsi un direttore o un curatore museale capaci di fare scelte sbagliate.
Ma la parte più interessante riguarda gli scambi: se in televisione Rutelli usa toni trionfalistici parlando di vittoria piena, la verità riportata sul catalogo è quella di una più realistica contrattazione su cui il curatore Louis Godart, all’epoca Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico della Presidenza della Repubblica Italiana, scende più nel dettaglio: «Grazie all’azione condotta dal nostro Ministero per i Beni e le Attività Culturali, istituzioni museali che erano entrate in possesso di capolavori al termine di transazioni puramente mercantili si rendono oramai conto che, nel supremo interesse dell’arte e di tutti coloro che ne sono gli amanti, è indispensabile rispettare leggi e regole precise prima di entrare in possesso di un’opera. È con questo spirito che quattro grandi musei statunitensi hanno firmato un accordo con il nostro Ministero, accettando di restituire all’Italia decine di capolavori dell’arte greco-romana che avevano lasciato clandestinamente il nostro Paese negli anni passati. In cambio l’Italia, consapevole di aver trasmesso all’Europa e al mondo il messaggio civilizzatore di Atene e Roma, si è impegnata a favorire i prestiti di opere, creando così una sorta di immenso spazio museale che vede protagonisti la nostra arte e la nostra cultura» [7]. 

In pratica: i grandi musei americani, messi di fronte a responsabilità che vanno molto oltre l’aver acquistato consapevolmente reperti archeologici provenienti dal mercato clandestino (alimentato da loro stessi, se è vero, come è vero, che l’archeologo Oscar White Muscarella ha denunciato il fatto cheal Metropolitan il celebre curatore Dietrich Von Bothmer facesse vanto di aver corrotto di tasca propria ufficiali di polizia per favorire l’esportazione illegale di opere d’arte in America [8]) hanno sì accettato di restituire il maltolto, ma in cambio del prestito di altre opere, in modo da non rimetterci troppo economicamente e, soprattutto, di non perdere la faccia nei confronti di visitatori e finanziatori.
Che la restituzione sia una questione di mercanteggio anziché un atto di giustizia riparatrice lo aveva denunciato, molto tempo prima di tutto questo Rodolfo Siviero, noto come la “spia dell’arte”, storico dell’arte che per conto dello Stato ha recuperato non poche opere rubate, in un episodio riportato in bel contributo sulla sua figura che si può ascoltare sulla app Raiplay Sound [9].
Siviero racconta la storia di una croce identificata in Germania, acquistata (questa volta in buona fede) da un acquirente che non ne conosceva la provenienza illecita.
Siviero si recò in Germania per provare a chiederne la restituzione, ma il proprietario si rifiutò di restituirla basandosi sul fatto che dal punto di vista legale più che la provenienza dell’oggetto conti la buona fede dell’acquirente.

Lo storico dell’arte a quel punto provò a giocarsi la carta del ricatto, minacciando l’acquirente di rendere pubblica la storia.
In realtà – e qui veniamo al punto davvero interessante dell’intervento – Siviero si rese conto da solo che la cosa non avrebbe sortito alcun effetto, perché ai giornali italiani oggi come allora di certi temi interessa solo se c’è la grande storia, il Ministro che va in tv in prima serata. Un fatto del genere, come ebbe a dire egli stesso, non sarebbe stato nemmeno pubblicato.

La storia della croce ebbe comunque un lieto fine: Siviero andò a Londra e, tramite una rete di amici antiquari, trovò un nome molto in vista che trattasse per suo conto l’acquisto e gliela spedisse in Svizzera. Arrivata in Svizzera, l’antiquario inglese avvisò il collezionista svizzero che avendo scoperto, a seguito di un controllo, la provenienza da un furto si era sentito in dovere di restituirla al consolato italiano, dove ad intascarla e a riportarla in Italia c’era Siviero in persona.

Questo episodio è emblematico non solo perché, come ho già scritto, è uno dei tanti esempi che ci ricorda quanto la restituzione sia frutto di mediazione, ma ce ne spiega anche il motivo: se, come nel caso dei reperti scavati clandestinamente dalla rete criminale che ha portato il cratere di Eufronio al Metropolitan, ci sono prove materiali (casse di polaroid che immortalano gli oggetti al momento dello scavo clandestino) che rendono relativamente semplice dimostrarne la provenienza illecita, è assai più difficile dimostrare la malafede del museo o del collezionista acquirente.

Nel caso del Metropolitan e del Getty ciò è stato possibile solo grazie al comportamento particolarmente arrogante di curatori e direttori, ma in molti, moltissimi altri casi la situazione è stata – ed è – talmente complessa  che non bastano rogatorie, appelli alla stampa, petizioni per ottenere risultati. Da questo punto di vista ho scelto di raccontare un caso particolarmente edificante e poco conosciuto in Italia: quello dei “Motunui epa”, pannelli di legno con incisioni rituali, che finirono nelle mani di uno collezionisti più privi di scrupoli, George Ortiz.
La Nuova Zelanda dovette combattere per decenni anche con gli eredi, ma il risultato che ha ottenuto è ben lungi dal poter essere definito una piena vittoria. O forse sì, se si riuscirà a compiere quel lavoro di ricucitura fortemente auspicato dalla storica Rachel Buchanan.

 

L’importanza degli epa per la cultura Maori e primi ritrovamenti

I motunui epa. Foto: Werner Forman/Universal Images Group/Getty Images

Taranaki iwi (parola che in lingua Maori sta per “tribù”) è una delle regioni che compongono la più vasta regione di Taranaki. Essa occupa la zona più a ovest dell’isola del Nord, una delle due isole principali che compongono la Nuova Zelanda.
Che sia un’area la cui storia è costituita da un costante succedersi di guerre (prima tra popolazioni  provenienti dal mare e altre  stanziali che vivono sulle montagne, poi contro i coloni europei) lo si evince dal detto in lingua Maori: “K?ore e pau, he ika ?nahi ni” (“Loro non si possono conquistare, loro sono come pesci con grandi e spesse squame”) [10].
Nel 1819 le popolazioni (iwi in Maori) di Ng? Pui, armate di moschetti europei, muovono guerra alle iwi dell’isola del Nord.

È in questo contesto di alleanze e rovesciamenti che gli epa, pannelli di legno incisi simbolo stesso della cultura di quella popolazione, vengono nascosti.
Se le popolazioni  nemiche se ne impossessarono sarebbe un grosso problema. Non si tratta solo di oggetti di grande valore artistico, ma dell’identità stessa di una comunità.
Questo genere di pannelli, infatti, decoravano le strutture dove veniva accumulate e conservate le scorte di cibo (in lingua maori: p?taka) che dovevano sfamare l’intera comunità: è proprio l’importanza di questi edifici, fonte della vita stessa della popolazione, a spingere gli uomini a decorarle in maniera sempre più elaborata e raffinata.
Secondo la storica Rachel Buchanan, i pannelli risalgono al 1820 e furono nascosti (con tutte le accortezze del caso) in una palude, dove rimasero fino al 1971 [11], probabilmente perché a causa delle successive guerre con i coloni europei se ne perse la memoria, o non si fu materialmente più in grado di recuperarli [12]. 

I primi ritrovamenti di pannelli di legno incisi nell’area di Motunui avvennero nel 1960, a seguito dei lavori di bonifica della palude. Il fango li aveva conservati praticamente intatti. Per fortuna in questo caso vennero contattate le autorità e i pannelli vennero trasportati al museo Pure Ariki, dove si trovano tuttora.
I cinque pannelli oggetto di questo articolo, invece, hanno avuto una sorte ben più triste, anche se secondo gli studiosi sarebbero strettamente connessi ai pannelli conservati a Pure Ariki.

Storia di un trafugamento

Nel 1972 il capo di una comunità locale chiamato Manukonga viene chiamato dai contadini dell’area per esplorarla in cerca di manufatti antichi. Trovò cinque pannelli incisi, il più alto dei quali alto circa 1,5 m., e li trafugò portandoli a casa sua.
Secondo Rachel Buchanan, [13] l’uomo avrebbe voluto farne dono al museo di Taranaki, ma nessuno sarebbe andato a visionarli. Avanti un acquirente inglese, Lance Entwistle, che li acquistò da Manukonga per 6000 dollari neozelandesi, e violando le leggi dell’isola li portò a New York via Auckland.

Entwistle venne a sua volta contattato dal tristemente noto (perché parte di quella rete di trafficanti senza scrupoli che portò il cratere di Eufronio a New York) George Ortiz. Entwistle avvisò Ortiz che l’esportazione negli Stati Uniti era avvenuta illegalmente, ma essendone comunque il proprietario non ritenne che ci fossero problemi per la vendita.
Il 23 aprile del 1973 Ortiz acquistò i pannelli per 65000 dollari e li trasferì nel porto franco di Ginevra, lì dove si trovava anche il resto della sua collezione.

 

La lunga battaglia legale per la restituzione

Il governo neozelandese scoprì il furto nel 1978, quando Ortiz fu costretto a vendere parte della sua collezione in un’asta da Sotheby’s per ottenere i soldi necessari al pagamento del riscatto della figlia rapita.
Fu proprio grazie al catalogo dell’asta che si poterono identificare le opere e intraprendere la lunga battaglia legale per la restituzione.
Il governo neozelandese chiese la restituzione tre giorni prima della vendita fissata dalla casa d’aste, ma per tutta risposta ottenne solo che i pezzi venissero tolti dalla vendita.

Di tutti i procedimenti legali, il più tristemente conosciuto è quello del 1982, in cui si stabilì che la Corona avrebbe avuto diritto alla restituzione solo se gli oggetti in questione fossero stati trafugati, e non solo illegalmente esportati come avvenuto in quel caso. Come ho scritto all’inizio di questo articolo: la chiave per ottenere una restituzione è riuscire a dimostrare la malafede dell’acquirente, perché una provenienza illecita, o anche solo dubbia, di per sé non ottiene nulla.
Oltre ai tentativi di restituzione del 1978 e del 1982, comunque, ce ne furono altri quattro: 1985, 1995, 2005 e 2007. Dopo il pagamento del riscatto della figlia, Ortiz decise che non avrebbe più venduto i pannelli.

 

La restituzione da parte degli eredi di Ortiz

Ortiz muore nel 2013 e il governo neozelandese torna alla carica l’anno dopo, chiedendo e ottenendo un incontro a Ginevra tra i suoi figli e i vertici del museo nazionale Te Papa.
I figli di Ortiz dichiararono l’intenzione del padre di  restituire i pannelli alla Nuova Zelanda, ma per tale restituzione il governo neozelandese dovette pagare 4,5 milioni di dollari (oltre alle spese legali).
Come si vede, anche in questo caso non c’è nulla di equo, anche se per Buchanan il fatto che il figlio di George Ortiz, Nicholas, abbia salutato la partenza dei pannelli da Ginevra usando una formula in lingua Maori implica una sincera volontà di riappacificazione (Buchanan 2021).

Conclusioni

Buchanan ritiene che sarebbe opportuno che si mettesse da parte la narrazione che vede al centro della vicenda dei Motunui epa il trafugamento e l’acquisto da parte del grande collezionista bianco per crearne una nuova, basata sul loro valore storico e archeologico, a cominciare dai confronti con gli altri pannelli di legno incisi presenti nel museo Pure Ariki.
Da studiosa del traffico internazionale di reperti sono in parte d’accordo: se ripenso alla storia del cratere di Eufronio con cui ho aperto questo pezzo, un momento importante è quello del trasferimento dello stesso dal Museo Nazionale Etrusco di Villa a Giulia al Museo Archeologico di Cerveteri.

Cerveteri è il luogo da cui il vaso proviene, ed è il simbolo di una spoliazione altrettanto grave e sistematica: il primo strappo deve essere ricucito con la popolazione locale, che deve divenire consapevole di ciò di cui è stata privata.
La storia che un reperto archeologico racconta è innanzitutto quella del territorio a cui appartiene, a maggior ragione in un Paese come la Nuova Zelanda, dove gli europei hanno strappato terre ai Maori, sradicandone la cultura.
Come insegna l’archeologia, tutto fa parte della storia di un reperto archeologico, compreso il suo danneggiamento.

Ma la sua stessa esistenza, per quanto mutilata delle informazioni preziose di cui il suo contesto di scavo avrebbe potuto arricchirlo, è il simbolo stesso di una storia che resiste e che deve essere tramandata alle future generazioni. Del resto, anche il percorso umano di Rachel Buchanan segue questa direzione, con la riscoperta delle radici Maori ereditate dal padre.
Studiare i Motunui epa, dedicare loro un saggio che finalmente si concentri sugli aspetti storici e artistici, è il vero valore della loro restituzione alla Nuova Zelanda che, pur costretta a pagare un riscatto, ha potuto comunque riappropriarsi di una parte della propria identità.

Note

[1] Virgolettato tratto dall’articolo “Torna a Roma il vaso di Eufronio”, in La Repubblica, 19/01/2008
[2] Si vedano a questo proposito i due volumi in inglese P. Watson e C. Todeschini, The Medici Conspiracy, New York 2007 e J. Felch, R. Frammolino, Chasing Aphrodite, Boston 2011
[3] Imprescindibili sia quello di F. Isman, I predatori dell’arte perduta, Skyra 2014, sia quello di T. Cevoli, Storia senza voce, Viterbo 2020
[4] Tra tutte le trasmissioni televisive segnalo la più recente, Art Raiders, andata in onda su Sky Arte a partire dal 19 ottobre 2021. Quanto al podcast, si intitola Assassini dell’arte, è stato realizzato da Intesa Sanpaolo ed è disponibile su Spotify.
[5] Si veda a questo proposito N. Brodie, Organigram, in Trafficking Culture, 21 agosto 2012
[6] L. Godart, S. De Caro (a cura di), Nostoi. Capolavori ritrovati, Ancona 2007, pp. 14-16
[7] Ibid. pp.17-19
[8] O.W. Muscarella, The Fifth Column within the archaeological realm: the great divide, in Archaeology, artifacts and atiquities in the Ancient Near East, 2013
[9] Wikiradio, episodio del 2 aprile 2021.
[10] Per questa e altre informazioni sulla storia della regione si rimanda al sito Te Ara, un’enciclopedia online sulla storia della Nuova Zelanda. In particolare questa pagina sulla storia delle tribù dell’area di Taranaki iwi, e la relativa bibliografia. Altre risorse sono presenti anche sul sito del museo di Pure Ariki, con particolare riferimento alla pagina dei reperti che ci interessano
[11] Per queste altre dichiarazioni si veda l’articolo per RNZ, The Tale of Motunui epa, 25/10/2021
[12] Questa ipotesi è contenuta nell’articolo di Donna Yates per il suo blog Anonymous Swiss Collector, Ramsons and repatriotion: the Maori Motunui panels, 05/07/2014
[13] Si veda il già citato articolo su RNZ 

Bibliografia

Godart L., De Caro S. (a cura di), Nostoi: capolavori ritrovati. Ancona 2007
Siviero R., in Wikiradio, episodio del 02/04/2021
Yates D., Ramsons and Repatriations: the Maori Motunui panels, in Anonymous Swiss Collector, 05/07/2014 link
The tale of the Motunui epa, in RNZ, 25/10/2021 link

Daniela Gervasi è un’archeologa specializzata nel traffico internazionale di reperti. Dal 2017 al 2021 è stata docente del Master in Archeologia Giudiziaria e Crimini contro il Patrimonio del Centro Studi Criminologici di Viterbo. Sul tema ha pubblicato vari articoli. La sua  newsletter si chiama “Archeocrimini”.