§afrofuturismo
Afro-futurismo e mitologia nera:
derive estetiche tra moda, musica e cinematografia
di Grazia Ciani
House of Malakai. Photo: Viktor Herak

Filo rosso tra le pratiche performative, intendendo dunque in primis l’esperire della nostra performance identitaria nel mondo, sono gli abiti e gli accessori in quanto elementi in grado di caratterizzare, distinguere, trasformare. Detentori di una forte valenza generativa e citazionista, questi estendono il potere comunicativo del corpo, trascendendo la soglia della pelle intesa come confine, aprendosi a nuovi discorsi intorno ai concetti d’identità e appartenenza. Con il corpo hanno in comune un’ambiguità semantica che permette di viverli allo stesso tempo come limite e come mezzo espressivo. Possono arrivare a rappresentare la nostra identità fino a diventare la nostra pelle. Il corpo rivestito [1] indossa abiti che trascina come un fardello o con cui si confonde (Calefato 2007). In questo senso i segni della moda agiscono quindi su di noi, sul corpo sociale, permettendo la costruzione di una sensibilità comune che si esprime attraverso archetipi dell’immaginario, modelli, stereotipi, appartenenze spingendosi fino a metterne in discussione i confini e le prospettive passate, presenti, future. Lo sguardo culturale concorre allora a stabilire le coordinate di riferimento di ogni produzione simbolica, mettendone in luce la complessità e la conflittualità delle dinamiche di produzione e ricezione. I processi di codificazione e decodificazione originano nuovi significati, ideologie e connotazioni valoriali che si adeguano o entrano in confitto con canoni di riferimento predeterminati.
Ma se il valore culturale raggiunge la sua piena espressione allorché si incardina all’interno di precise visioni temporali che permettono allo sguardo di decifrarne la messa in discorso, la relazione di senso e il sotto testo specifico di ciò su cui si posa, cosa accade quando ciò che lo sguardo vede è il tentativo di riscrivere su – e attraverso – un corpo la storia di un’identità che è stata esclusa dalle narrazioni culturali passate? In quale maniera può diventare possibile immaginare la proiezione di un’identità presente e futura laddove a questa è stata negata la partecipazione attiva a una storia culturale da cui attingere, alle cui letture simboliche far riferimento?

Troppo lungamente protagonista di una disparità culturale umiliante sono stati proprio il corpo e l’identità “nera”. Oggi, l’ibrido immaginario contemporaneo ha dovuto necessariamente risolvere e ri-semantizzare la coscienza post-coloniale e l’universo estetico-simbolico a esso connesso, sempre all’erta rispetto al carattere intrinsecamente collettivo dell’ordine dell’estetico (Maffesoli 1996).
Questo tentativo, tuttora nel pieno del suo divenire, ha trovato luogo anche e soprattutto nella produzione di miti e icone comunicative che mirano a voler superare il lungo patteggiamento tra l’identità nera e, quello che potremo definire, il mercato e i luoghi dell’immagine.
Attraverso i fenomeni di rimediazione in essere all’interno della mass e popular culture (Wu Ming 2007) è possibile tentare di comprendere la ridefinizione delle narrazioni culturali in atto nel tentativo di operare un superamento del suddetto patteggiamento tra identità nera e immaginario collettivo, reso possibile nel solco dell’universo estetico-simbolico afro-futurista (Attimonelli 2018).
La pratica della resistenza attraverso lo stile (Hebdige 2000) diviene – in questo caso ancor di più – importante strumento di rivendicazione e, attraverso le pratiche citazionistiche e di ri-significazione delle visioni intorno alla mitologia nera, permette di mantenere fervidi i discorsi sul carattere ideologico dei segni culturali (Barthes 2016). Le scelte estetiche che guidano la vestizione del corpo definiscono una pratica di forte negoziazione, espressione e manifestazione identitaria laddove si offrono come mezzo per l’accesso a un momento di contatto con la memoria e la sensibilità collettiva, come schegge di materiale iconico.
Un immaginario sì complesso necessita tuttavia di letture capaci di mantenere intatta la propria puissance (Maffesoli 2005). La moda, la musica e il cinema si pongono pertanto come luogo di transito dinamico naturalmente predisposto all’inscrizione di una semantica nuova in cui sviluppare una nuova coscienza e sensibilità rispetto l’esperienza diasporica e l’estetica dell’identità afro-futurista, un immaginario contaminato dalla conservazione degli archetipi della tradizione africana e dalla distopia del cyborg.
Questo percorso visuale nell’immaginario estetico afro-futurista si muove attraverso le suggestioni che più immediatamente dichiarano la loro appartenenza alla galassia dei segni della moda. Le motivazioni per cui si è scelto di attingere a suddetto bacino d’interpretazione sono da rintracciare in quanto fin ora espresso, nella capacità intrinseca che questa ha di esprimere e attraversare i limiti culturali verso una più ampia possibilità di valorizzazione dell’identità e della soggettività, nel suo offrirsi come luogo di resistenza e di ribellione immediatamente percepibile.
Voltandoci indietro, siamo chiamati ad avviarci in questo percorso partendo dai riverberi di metà degli anni ’80 e dal corpo di Grace Jones, decorato dall’inconfondibile tratto di Keith Haring e da una linea di accessori creata per lei dal jewelry designer David Spada. Per lei Spada realizza delle vere e proprie architetture, ornamenti fatti di gomma, plastica e metalli, che da una parte richiamano a gran voce gli ornamenti tribali della storia culturale nera e dall’altra, per la tipologia di materie prime scelte, si inscrivono nell’esperienza estetica dell’epoca postmoderna e dei consumi di massa (Kershaw 1997).

Grace Jones by Keith Haring, 1984. Photo: Robert Mapplethorpe

Gli scatti che la ritraggono, a firma di Robert Mapplethorpe, ci restituiscono un’immagine estremamente carica di senso seppur irrintracciabile in un assoluto passato – e quindi difficile da collocare in un presente o futuro ammesso – quanto fortemente legata ad una mitologia che nel tempo è andata definendo sempre più i suoi tratti culturali. Grace Jones, d’altra parte, è probabilmente una delle icone della pop culture che più efficacemente ha utilizzato il proprio corpo e la propria aura (Benjamin 2014) per operare un tentativo di riscrittura dell’immaginario della diaspora africana attraverso una negoziazione spinta quanto fascinosamente naturale tra la forze estetiche maschili e femminili africane. Oltre i generi, oltre il tempo, oltre le razze è divenuta immagine prima e simbolo poi.
Proprio mentre l’orizzonte storico-culturale condiviso appare completamente spostato verso occidente, ecco che prepotentemente irrompe una nuova narrazione identitaria iscritta sui corpi e veicolata da un sistema di segni in grado di agire sull’immaginario collettivo. Enunciandosi in uno spazio e in un tempo definito, quale quello contemporaneo, abiti e accessori riescono laddove la coscienza storica ha mancato e realizzano un tentativo vincente di presentificazione della mitologia nera.
Nel momento in cui attorno al concetto di afro-futurismo si è andato creandosi un ampio campo di senso collettivo, si è costituita una dimensione all’interno della quale le nuove generazioni hanno avviato un dialogo trans-temporale che da una parte li vede impegnati nella valorizzazione di una sorta di ricerca archeologica rispetto a quelle che sono le radici culturali e mitologiche della storia identitaria africana – che nella diaspora ha un momento cruciale – e, dall’altra, s’impegna a trasportarne con forza l’archetipo in un futuro che si pensava non potesse appartener loro.
Traduzioni sensibili in questo senso sono quelle offerte, tra gli altri, da Lukhanyo Mdingi, Ibrhaim “Ib” Kamara e Malakai Hom.

Lukhanyo Mdingi_FW19_Backstage: Lukhanyo Mdingi Backstage FW19

Nato e cresciuto a East London, Lukhanyo Mdingi è oggi non solo uno dei giovani talenti più promettenti e interessanti della moda sudafricana ma anche, in seguito al suo recente debutto alla Men’s and Women’s Fall/Winter 2019 New York Fashion Week, della scena internazionale. Tessuti, forme e palette sono gli elementi attraverso cui nelle sue creazioni viene rielaborato l’evidente legame con la tradizione estetico-culturale africana trasposta in un futuro mitico. Le siluette sono innovative laddove si propongono come mezzo per annientare la distanza tra i tempi, le razze e i generi, quasi a offrire una chiave di lettura universale, che supera la necessità di categorizzazione in favore di un’esperienza – una performance – che è al contempo unica e plurale, oltre le gerarchie e le negoziazioni identitarie. Seppur estremamente contemporanee e minimali, le visioni stilistiche di Lukhanyo Mdingi, emanano tutta la fiera ed elegante alterità delle tribù africane. Quasi sembrano suggerire l’esistenza di una storia che le ha viste protagoniste in un tempo e in un luogo altri, che non ci è stato concesso conoscere, e che ad un certo punto esse siano tornare da noi per rivendicare il riconoscimento del loro passato in virtù del loro futuro. I tessuti utilizzati rappresentano un ulteriore momento di congiunzione tra passato e futuro: completamente sostenibili esprimono una rinnovata forma di legame con la natura che da madre generosa e benigna in grado di soddisfare i bisogni primari dei suoi figli, si trova ora a dover essere tutelata e rispettata. Il legame ancestrale con la terra assume pertanto forme nuove che non possono non tener conto della possibile deriva futura.
Più di rottura è invece l’interpretazione e l’immaginario su cui lavora lo stylist Ibrahim Kamara. Ancora una volta è interessante notare come, parallelamente ad un percorso di ricerca che tenta di connettere passato e futuro del popolo africano, ci si muova sul terreno dell’identità a più ampio spettro: di genere, di razza, culturale. Ancora una volta è come se il corpo nero, quasi in virtù della sua lunga esclusione dalle narrazioni storiche, assurga a luogo universale di ricerca e indagine sui limiti di una gabbia culturale che ha evidentemente esaurito il suo potere e si ritrova oggi a non poter rispondere esaustivamente alle urgenze identitarie contemporanee.

Ibrhaim Kamara: Styling Ibrahim Kamara, Photo Kristin-Lee Moolman

Ibrahim Kamara lavora generando materiale visuale forte e d’impatto, che gode della visibilità offertagli da importanti riviste di moda e brand. Nato in Sierra Leone e cresciuto in Gambia e poi a Londra, come stylist mixa abiti e accessori per plasmare un’estetica fortemente ispirata dalla sue radici eppure in divenire, sorprendente, che attinge all’immaginario della mitologia nera – nei tessuti, nelle forme, nei colori, negli ornamenti, nei materiali, nelle ambientazioni- per poi astrarsene completamente, sovvertire gli stereotipi, rivestirsi di glamour ed entrare a gamba tesa nella dimensione del fashion di matrice bianca e occidentale.
Estremamente interessante è ancora l’immaginario estetico offertoci da Malakai Hom e dalle sue creazioni. Artista multidisciplinare di base tra Berlino, Bali e Los Angeles, con il suo progetto – House of Malakai – compie la fusione perfetta tra elementi tribali, suggestioni ritualistiche e un immaginario più immediatamente proveniente dalle sottoculture punk e goth.
Il legame con la sfera mistica trova espressione nella scelta dei materiali utilizzati che spaziano da elementi ossei, a piume e cristalli, ma anche negli archetipi fissati nell’immaginario visuale che Malakai Hom intende restituirci. A metà strada tra l’intenzione di decorare il corpo e il modificarlo esteticamente oltre che nei suoi apparati, le sue creazioni si propongono come tentativo di sintesi tra sacralità e visionario: maschere che celano e sottraggono alla vista, antenne che fremono per captare ciò che è ancora impercettibile ai sensi comuni, figure guerriere che fluttuano in un limbo temporale sospeso tra un lontanissimo passato e un futuro avanguardistico che prende il sopravvento sulla fragilità umana. Luogo di collocazione immediato diviene lo scenario afro-futurista nel quale proliferano le nuove tribù (Maffesoli 2004) metropolitane, sensibili tanto al fascino delle possibilità tecnologiche e delle mutazioni che esse possono realizzare, quanto segnate da una stratificata mitologia i cui valori costituiscono l’origine di questa forma di ribellione immaginifica attualmente in atto.

House of Malakai. Photo: Viktor Herak

Negli ultimi anni le opere di Malakai Hom sono apparse sulle più importanti riviste di moda e sui volti e sui corpi d’interpreti musicali e celebrità di fama mondiale, a ribadire la possibilità che il mezzo musicale ha di veicolare e permettere la familiarizzazione con immaginari sensibili come quello afro-futurista.
D’altronde il binomio moda – musica è da sempre fautore di universi simbolici estremamente evocativi già a partire dagli anni ’70 e dal punk, nato proprio dalla scintilla tra l’incomparabile estro creativo di Vivienne Westwood e il corpo rivestito dei Sex Pistols. Se nel 2013 Riccardo Tisci sceglieva Erykah Badu come volto della campagna Givenchy SS 2014 – un’icona di stile e magnetismo che reinterpreta la nuova collezione della maison alla luce di un cultural crash che fonde il mistico e superbo afflato africano con lo street style – oggi gli esempi di questa contaminazione si sono moltiplicati.
Beyoncé, FKA Twigs, Nicki Minaj sono solo alcuni dei nomi che, nel mondo della musica e ognuna a suo modo, hanno preso parte a un percorso di smantellamento degli stereotipi dominanti e dato voce ad un invito condiviso di ri-sensibilizzazione rispetto alle conseguenze culturali della diaspora africana. La loro aura amplifica il messaggio di cui, attraverso i loro corpi e le loro immagini, si fanno portatrici. «Un Olimpo di vedette domina la cultura di massa, ma comunica attraverso questa cultura, con l’umanità corrente» (Morin 2005, p.147), è questo il principio grazie al quale queste figure riescono a porsi come medium efficace a veicolare l’idea di un futuro sempre più creolizzato a partire dalla riscoperta dell’immaginario mitico black e dell’estetica ad esso connessa.
Copertine, videoclip, gallery social, performance live: sono i luoghi i cui questi corpi si ammantano di potere comunicativo, di rimandi simbolici attraverso ciò che più immediatamente li veste e li decora. Riti e costumi della diaspora africana balzano verso un universo plurale di tempi futuri in cui il corpo nero supera l’umanesimo, ancora timoroso verso il primitivo, per reincarnarsi nelle icone della pop culture.
Lisergica[2], FKA Twigs, attraversa lo stato dell’essere umano per muoversi in un campo di senso alterato. Decora il suo corpo con piume e metalli, fonde la sua pelle con i materiali che l’adornano, acconcia i capelli secondo estetiche tribali. I movimenti sono ammalianti e sembrano guidarla, e guidarci, attraverso un fluire ininterrotto e confuso di tempo e spazio. Ad attenderci alla fine del viaggio c’è la consapevolezza del fascino di un immaginario che tenta di continuare un discorso brutalmente interrotto secoli fa, tra la storia e l’identità.

FKA Twigs

Forte, potente ed evocativa è l’immagine di Nicki Minaj sulla cover dell’album Queen (2018) che riprende un frame del video Ganja Burn. Non è un corpo schiavo, non è un corpo costretto a flettersi di fronte al potere coloniale, a compromettere la propria identità, a dimenticarla. È un corpo fiero e orgoglioso, il carisma è quello di un’antica dea che pare sfidare chi la vorrebbe sottomessa alla cultura dominante. A enfatizzarne i tratti, le creazioni di Malakai Hom: dopo la sua rinascita tra le fiamme il capo è adorno da quella che si figura come un’aureola, lunghe e sottili catene dorate le si sostituiscono ai capelli. Qualche istante a seguire il suo volto appare decorato da una maschera mitica di oro e cristalli che a ben vedere sembra quasi naturalmente confondersi con i tratti del viso.
Non solo Nicki Minaj, Malakai Hom collabora anche con Rihanna e Beyoncé. Di quest’ultima soprattutto è particolarmente significativa l’immagine e la performance durante i Grammy Awards 2017. Un’apparizione mitica che diviene celebrazione, inno del corpo storicamente taciuto, quello su cui più biecamente ha agito nel tempo la cultura occidentale: il corpo nero femminile. Troppo spesso svilito, abusato, dominato, azzittito, Beyoncé su uno dei palchi più importanti del mondo ne rivendica la dignità, l’importanza, la storia, il presente, il futuro. Vestita d’oro, appare come una madonna afroamericana, ne detiene la carica simbolica.
La sacralità viene riletta sotto la lente della cultura africana come se, semplicemente, un mondo diverso dal nostro non avesse mai subito il trauma della schiavitù e della diaspora e oggi si trovasse ad abitare naturalmente i luoghi del contemporaneo, a condividerne il panorama simbolico.
A velocità diversa anche il cinema ha iniziato a rendere dignità all’identità nera. Dopo numerosi tentativi falliti di rappresentazione stereotipata, finalmente con Black Panter (2018) Hollywood è riuscita a segnare un valido punto da cui partire per risemantizzare l’esperienza legata alla cultura africana all’interno dell’immaginario condiviso della pop culture.
Il film di Ryan Coogler rappresenta uno spartiacque in primis perché è il primo blockbuster ad avere come protagonista un supereroe nero ed un cast quasi completamente africano, in secondo luogo degna di nota è l’ambientazione dell’intero film che seppur lontana dalla realtà – lo stato di Wakanda – è idealmente da ricollocare in Africa.
In linea con quanto trattato fin ora, pur non volendo sottovalutare l’importanza del sotto-testo politico che si dirama parallelamente alla trama, ci è in questo contesto utile comprendere le ragioni puramente estetiche e di stile che hanno contribuito al successo.
A ragion veduta potremmo, infatti, sostenere che la pellicola appare la trasposizione cinematografica proprio del tentativo di risemantizzazione dell’immaginario black attraverso le possibilità narrative offerte dall’afro-futurismo.
Per far ciò uno dei linguaggi scelti è proprio quello della moda e dello stile, degli abiti e degli accessori. L’estetica qui non è solamente un elemento tra quelli che a vario titolo concorrono ad abbellire la ricostruzione e la credibilità del film, ma è funzionale alla narrazione. Rappresentandone un ulteriore livello di interpretazione e dialogo, gli abiti servono a caricare di senso la celebrazione del mitico universo panafricano che si anima attraverso lo schermo.
Il lavoro di ricerca che è culminato con la vittoria, non a caso, dell’Oscar per i migliori costumi a Ruth Carter (una delle più importanti costumiste nere), ha portato a termine una rottura netta rispetto allo stereotipo del nero. Ciò che si è fatto, nella valorizzazione della multiforme, complessa e variegata espressione dell’esperienza estetica culturale africana, è stato tentare di sintetizzare in maniera sorprendente elementi che attingono a un bacino simbolico lontano nel tempo con contaminazioni non solo presenti ma addirittura future.
La scena alle cascate dei Guerrieri ci offre una rapida panoramica di quanto espresso fin ora.
Il primo elemento che sorprende è la moltitudine di riferimenti alla cultura e alla storia africana rappresentati dalle diverse tribù di Wakanda.

The Tribes, Disney/Marvel Studios

La palette cromatica è netta così come i tratti stilistici che le caratterizzano. L’effetto ottico è immediato e oltre a permettere, in un solo colpo d’occhio, di cogliere appieno il valore della diversità insito nella storia culturale africana.
Ciò che subito dopo colpisce, una volta che si inizia a porre l’attenzione sui dettagli, è come gli elementi decorativi – che appunto caratterizzano le diverse tribù – sono quasi immediatamente rintracciabili nella storia africana così come siamo stati abituati a conoscerla. Eppure qualcosa non torna. A creare un corto circuito rispetto a quella rappresentazione stereotipata con cui nel tempo abbiamo familiarizzato è il modo in cui si è arrivati ad ottenere questi elementi. A ben guardare sembra quasi ci sia qualcosa di non-storico, quasi innaturale. Innaturalmente rigido ci appare, ad esempio, il mantello che copre le spalle della regina e, a ben vedere, un motivo c’è. Il mantello – ma anche, ad esempio, le corone ispirate al tipico copricapo Zulu dell’Africa meridionale – sono stati realizzati attraverso la stampa 3D e il suo ricamo disegnato grazie ad un algoritmo che ne ha reso la realizzazione precisa. Ancora, lo sciamano Zuri appare vestito con un abito che pur essendo tipico del popolo nigeriano, è qui reinterpretato e realizzato in maniera innovativa attraverso l’uso di sottili tubicini di seta di colore viola, con evidente riferimento ai Tuareg.
Seppure quindi i richiami siano accurati e più o meno fedeli ed evidenti – dalle stampe dei tessuti alle maschere, dall’uso dei piatti labiali tipici di alcune tribù dell’Etiopia alle divise dell’esercito reale evidentemente ispirati dalle vesti dei Masai – ciò che colpisce è come l’immaginario simbolico tradizionale sia stato abbracciato, esplorato e poi rielaborato secondo tecniche artificiali.
Dopo aver a lungo subito l’esclusione dalle grandi narrazioni, il percorso visivo dell’esperienza identitaria africana sembra stia finalmente incamminandosi verso un luogo, all’interno dell’immaginario collettivo, di serena consapevolezza all’interno del quale si è reso possibile un ritorno ai tratti salienti della mitologia nera e in cui radici mitologiche, sussulti avanguardisti e luoghi contemporanei possono pacificamente coesistere.

Note
[1] A tal riguardo rimandiamo alla definizione che ne da l’autrice, studiosa di moda: «Definisco “corpo rivestito” il territorio fisico-culturale in cui si realizza la performance visibile e sensibile della nostra identità esteriore. In questo testo-tessuto culturale composito, trovano modo di esprimersi tratti individuali e sociali che attingono a elementi quali il genere, il gusto, la sessualità, il senso di appartenenza a un gruppo sociale e a una comunità o, viceversa, la trasgressione. […] La moda, o meglio le mode (al plurale) costituiscono i dispositivi che organizzano nel tempo e nello spazio i segni del corpo rivestito, quasi come ne forgiassero la lingua, e allo stesso tempo rappresentano le possibilità di mescolare i codici di riferimento costruendo ibridismi tra segni, analoghi proprio agli ibridismi linguistici e culturali entro cui si costruisce l’idea stessa d’identità» (Capecchi, Ruspini 2009, pp. 19 –20).
[2] Per estensione da acido lisergico: alcaloide della famiglia delle ergotossine a partire dal quale si sintetizza l’LSD. Il suo utilizzo in forma aggettivale rimanda, in questo contesto, ad un’estetica allucinogena, trasognante, caleidoscopica. Una sorta di allucinazione visiva che deforma e altera la conformazione canonica del corpo e dei suoi tratti.

Bibliografia
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Calefato P., Giannone A., Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda. Vol. v. Performance, Meltemi, Roma 2007.
Capecchi S., Ruspini E., (a cura), Media, corpi, sessualità. Dai corpi esibiti al cybersex, Franco Angeli, Milano 2009.
Frederick C., Black Panther’s Ruth E. Carter on Designing for the Revolution, 2019
Kershaw M., Postcolonialism and Androgyny: The Performance Art of Grace Jones, 1997
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Wu Ming, Prefazione a cultura convergente di Henry Jerkins, 2007.

Sitografia
Instagram.com
lukhanyomdingi.co.za

Filmografia
Black Panther, 2018, Coogler R., USA.

Videoclip
Alas, M., Piggot, M., Ganja Burn, Nicki Minaj, 2018

Grazia Ciani. Formazione in Editoria e Giornalismo con specializzazione in Scienze dell’Informazione Editoriale, Pubblica e Sociale. I suoi campi di ricerca vertono sulla comunicazione e la cultura visuale, i suoi interessi di ricerca sono: fashion theory, le estetiche di genere e la cultura pop. All’interno dell’Università Aldo Moro di Bari è parte del gruppo di ricerca Mem (Mediateca ed Emeroteca Musicale) e del progetto di ricerca Archivio di Genere.