#1
Guardatelo bene quel dolore
e non occorre
avvicinarsi
troppo.
Si posa
dietro le ossa, nel fiore
in giardino.
Compimento incompiuto.
Danno inflitto.
Notizia di diserzione.
Presa di posizione.
Composizione.
L’ombra delle cose future
sta nei fiori recisi,
appassiti,
appena appena guardati.
#2
C’è un corpo errrrrante
che incontra sè stesso
nelle ferite che goc
cio
la
no opache.
Al crepuscolo,
si fa cuccia in quelle piaghe
dove nemmeno dio è certo
di poterlo guardare.
Bocca a bocca canta l’anomalia
che rende strabici occhi normali.
La grazia del cadere piano,
stropicciata dal tempo
sul volto di labbra
sottili
infette.
È questo un ritratto inclinato
che ama abbondantemente
con il poco che ha.
Anche nella foglia riarsa
che resiste
al deserto che avanza
c’è un piccolo amore in abbandono,
una funzione d’onda che collassa.
#3
ra m
Nella trama di un mondo in f n tu
i
un corpo barbaro insorge.
Chiamato a raccolta, non dice,
racconta,
offre un grido, l’ombra
d’immagini
insolenti,
allegria che esplode
fuori
dal fondo del mare,
dalla troppo facile vergogna
marchiata a r
i
t
m
o
d’offesa.
#4
Un corpo cammina
quatto quatto a quattro zampe
i
tra le r v della città.
o ne
Strappa veli con le v
e
r
t
e
b
r
e
spezzate,
ne fa petali per giochi bambini,
d’amore.
Poi torna a bbalbbettttare la sua rabbia
ruba la lingua,
contorce lo sguardo di chi guarda,
ma non assolve,
interroga
attraversando l’incertezza
con scintille di delicatezza.
#4
C’è una gentilezza sgrammaticata
su questa pelle
fissata da spilli.
Parole umane, troppo umane
c
a
d
o
n
o,
altre
si affilano
nel viaggio in fondo alla carne.
Sul filo teso la luna scorsa
sta un acrobata del tempo
assalito da scarne carezze.
Patico,
politico
vigila perchè il futuro
non si arresti
sulla salute
al sapore
di pacificazione.
Paziente ne rivaluta lo sfondo
mentre un rintocco di farfalla
fa contrassegno,
e nel silenzio dello spazio
non poteva essere più forte.
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“La tenerezza dello sfondo
medica il male delle figure.”
(Chandra Livia Candiani 2023, p.21)
Queste annotazioni prendono corpo inciampando. E forse, visto la materia di cui si tratta, non poteva andare che in questo modo. Una materia che follemente tace e perdutamente risuona, quella di corpi convalescenti, costituiti come caduta, come infezione iniziale. Continuamente dislocati, dalle posture aberranti, questi corpi non possono che spostare senza sosta chi si avvicina a loro.
I prossimi paragrafi non saranno un secco dispaccio di resa, piuttosto rovi di virgole e punti di domanda che accudiscono inesattezze e refusi in attesa di sistemare la propria grammatica. Piccoli segnali, tracce di confidenze in cerca di un corpo a corpo nella materia in cui sono stati abbozzati. Convalescenze appunto.
Questo “qualcosa di scritto” non è niente di più che un timido invito a praticare una scrittura che ha abdicato alla sua autonomia per dissolversi nel corpo in cui si inscrive. Qualcosa che non è troppo diverso da ciò che Georges Bataille (2022) proponeva nel “il linguaggio dei fiori”: mostrare come le immagini tratte dalla natura, a maggior ragione quelle che riteniamo più putride, possano inquietare il pensiero, modellarlo, esaurirsi in esso, producendo qualcosa che avrebbe potuto non essere lo stesso. Una volta che l’immagine viene pronunciata in un certo modo il pensiero ne è trasformato, ha luogo uno smottamento, il sé espulso. Ed è questa strategia operativa a provocare una scoperta, una frizione, la materializzazione di un corpo in cui non è possibile dire chi sia il produttore, cosa il prodotto.
In fondo è nella tensione tra creato e creatore, sul senso che diamo a queste parole, che si gioca tutta la drammaturgia dell’incontro che fa mondo, l’esperienza limite che precipita in ciò che chiamiamo materia, a cui diamo il nome di realtà. Le forme concepite in sé e per sé sono quello che sono, eppure, niente è soltanto ciò che è.
“Che il tuo corpo sia sempre
un amato spazio di rivelazioni.”
(Alejandra Pitzarnik 2004, p. 49)
Una figura nell’atlante anatomico, un’alba d’acqua, un cadere in polvere, un essere stati là, un accadere qui. Ogni volta che si impugna una parola per dire del corpo, un’immagine, non lo si tradisce mai abbastanza. C’è sempre un eccesso, qualcosa che pretende, precede e sussegue. Nel corpo qualcosa persiste a preludere, una materia che ci sorprende sempre sparpagliando le carte del tempo e dello spazio, confondendo il momento con la distanza.
Nel corpo eccedenza e reticenza suonano assieme. Ed è Judith Butler (1996) ad annotarlo come fosse una preghiera a ciò che le sfugge:
«Ho iniziato a scrivere questo libro cercando di concentrarmi sulla materialità del corpo e ho scoperto che questo pensiero mi portava invariabilmente verso altri ambiti. Ho cercato di costringermi a restare sul mio oggetto, ma mi sono accorta di non poter fissare i corpi come semplici oggetti di riflessione. Non solo i corpi mi rimandavano a un mondo alle loro spalle, ma questo movimento al di là dei loro stessi confini, un movimento che coinvolgeva i confini stessi, sembrava riguardare direttamente ciò che i corpi “sono”. Continuavo a perdere di vista il mio oggetto. Mi sono scoperta incapace di un comportamento disciplinato. Inevitabilmente, ho incominciato a pensare che la mia resistenza alla necessità di fissare il mio oggetto era parte integrante della materia che intendevo investigare». (Butler 1996, p. XVII).
Solo quando un confine ha preso corpo è possibile volgersi verso il mondo alle sue spalle, coinvolgersi nel suo movimento, rivolgerlo, trasgredirlo. Ma un confine, lo sappiamo, non prende mai corpo da solo.
Trasgredire un confine significa allora trasgredirne più d’uno insieme, aprendo una voragine come si apre una falla in un gomitolo imbrogliato. E aprire una falla, guardare nel vuoto, non è la misura del nulla, piuttosto lo sbandamento di un desiderio che non può essere calcolato. Come il vuoto prodotto da un salto quantico, anche la voragine aperta da una trasgressione è il baleno di un processo. Un passaggio sottile che riempie lo spazio di possibilità eterogenee, a condizione che l’energia prodotta in quel frangente non precipiti mai in un corpo massiccio, insomma che continui a persistere nel non essere mai abbastanza.
Ma quali sono i confini qui in questione? Quale la vertigine?
Per rispondere a queste domande occorre prenderci un po’ di tempo, procedere con cura e fare un giro un po’ più lungo, sapendo che non c’è abisso in cui si possa guardare impunemente. Ed è la resistenza della materia di cui stiamo parlando che ce lo chiede, perché in questo luogo che ci portiamo dietro e ci trascina sempre altrove (Foucault 2008) cresce e cade un discorso pericoloso in cui incespica inevitabilmente anche chi ha le migliori intenzioni. Attorno ai corpi gli angeli esitano e gli spettri osano, eppure, lo sappiamo bene, in ciò che è pericoloso cresce sempre anche ciò che salva.
“Chi ama, come chi scrive, si protende verso la finzione di una fusione futura – fra chi ama e chi è amato, chi scrive e chi legge – cercando di superare il confine tra le soggettività, che pure è il fondamento della stessa possibilità di piacere implicita nella sua trasgressione. Se il confine fosse veramente dissolto, il luogo del desiderio sarebbe cancellato.”
(Elvia Wilk 2023, p. 43)
Scrivere del corpo non è mai innocente. Scrivere di corpi come materie viventi e non come oggetti da notazione lascia intatto poco o nulla.
A volte si desidera essere assorbiti da ciò che si scrive, avvolti da ciò che è scritto, dissolti e decomposti dalla materia stessa con cui entriamo in contatto, da quel qualcosa che ci chiama a prendere la penna, ad accendere il computer. Scrivere è una specie di incursione erotica, un corpo a corpo che crea un cortocircuito non solo in chi scrive, ma tra chi scrive e chi è scritto.
Scrivere del corpo è sempre uno scrivere con il corpo, e quando i corpi si rivoltano nelle pieghe delle pagine anche la scrittura che li accoglie non può restare immutata. La norma supposta all’ordine del discorso si fa zoppa, la grammatica usuale non sembra più essere tanto utile al racconto. La distanza tra l’intensamente erotico e l’intensamente politico si fa piccola come un segreto, le epistemologie quotidiane saltano, le ontologie familiari si incrinano, la semantica barcolla.
Eros mette in crisi i confini, ne disturba l’omeostasi. Questa incursione, lo dice bene Anne Carson (2021), è il rischio più grande della nostra vita poiché nell’incontro erotico veniamo in contatto con ciò che è dentro e fuori di noi in modo impetuoso. L’amante può essere catturato dall’oggetto del desiderio, conquistato, reso incapace, disperato, pazzo. Perso il controllo, l’amante si dissolve, la potenza dell’incontro al fine cancellata. Eppure, la storia, “la nostra storia”, ed è ancora Carson che parla, «comincia nel momento in cui Eros entra in noi» (2021, p. 178), perché è il desiderio stesso che cambia l’amante rispondendo a una promessa infranta un poco prima, facendo strada per una storia diversa, il miracolo di un mondo che ricambia il tuo amore con un briciolo di speranza. Una grazia dei sensi, ambivalente, erotica, dolceamara.
Se l’amante cambia l’amato, chi è scritto cambia chi scrive, a patto che i corpi non si dissolvano l’uno nell’altro, che persista un interstizio, la possibilità di uno sfregamento, un movimento d’abbrivio. Una soglia di misura simile a quella che resta tra le lettere di una parola, e che permette a un testo di essere letto, ad un corteggiamento di aver luogo, che ammette il ficcare il muso nell’alfabeto zuppo d’umori per creare una specie di mondo, circolante, compostabile, con tutti i rischi della gioia e della morte che attende ad ogni incontro.
Ondulazioni, movenze, tentennamenti. Intra-azioni ci sembra di poterle chiamare con Karen Barad (2007), ossia congiunture tra due o più termini che compongono una scena oscillante senza atti separabili dalla calata di un sipario. Congiunzioni, sovrapposizioni, coinvolgimenti senza che l’uno si risolva totalmente nell’altro. Corpi che interferiscono come se fossero parti di uno stesso organo beffardo, incompiuto, di quel qualcosa che non esisteva prima del loro incontro, di quell’entanglement, legame che dà corpo ai corpi, principio base di interrelazione che è la componente generativa del mondo. Se Karen Barad scrive dell’intra-azione tra materia misurata e misuratore come urto che produce ciò a cui diamo nome di realtà in un laboratorio, forse possiamo dirci che anche l’intra-azione tra un corpo che scrive e un corpo che è scritto è un sussulto che produce mondo. Scrivere, infatti, è una specie di trasfigurazione. Chi scrive, chi è scritto, trasmutati reciprocamente in uno strano montaggio queer. Significati latenti risvegliati, affetti ed emozioni esposti a movimenti non scontati. La pagina si fa terra errante dove i corpi procedono e agiscono, reagiscono e si ribellano.
«Matter and meaning are not separate elements. They are inextricably fused together, and no event, no matter how energetic, can tear them asunder. Even atoms, whose very name, atomos (atomos), means ‘‘indivisible’’ or ‘‘uncuttable,’’ can be broken apart. But matter and meaning cannot be dissociated, not by chemical processing, or centrifuge, or nuclear blast. Mattering is simultaneously a matter of substance and significance, most evidently perhaps when it is the nature of matter that is in question, when the smallest parts of matter are found to be capable of exploding deeply entrenched ideas and large cities» (Barad, 2007 p.3).
Parole come prensioni fagiche, corpi come precipitazioni di significato, una festa chiassosa che si sente dall’altro lato dell’isolato, così consueta da sorprendere. Non è solo la lacrima a essere cosa intellettuale ma il pensiero ad avere il peso di una lacrima.
Nulla a che vedere con il paradigma referenziale per cui si crede che il senso si esaurisca nell’attribuzione di un segno ad una cosa, ma scrittura come creazione d’ambiente, contesto moltiplicatore di senso e condizione di individuazione. In fondo, «l’energia erotica diventa politica non appena viene considerata ecologica» (Wilk 2023, p. 53).
“Compagni patetici che a pena sussurrate, andate con la lampada spenta e restituite i gioielli. Un nuovo mistero canta nelle vostre ossa. Sviluppate la vostra legittima stranezza.”
(Michel Foucault 2012, p. 24)
Nell’abstract inviato alla redazione di roots§routes ho proposto un titolo, “corpi con/valescenti” e un argomento: trattare i corpi eccentrici, malati, deformi, disabilizzati, mostruosi, come corpi speculativi. Corpi che abbracciano la differenza da sé e nel sé a partire da un punto di vista contestato, quello emerso dalla condizione di infetti. Corpi ab-errati e ab-erranti, sconcertanti perversioni dalla retta via. Errori forse, ma che nella tensione tra prefisso e nome tracciano pure un allontanamento, un moto a luogo, un’erranza possibile da un certo modo di fare e pensare. Una dipartita con andatura storta, senza scopo, un’abiura della solita strada, che lascia dietro di sé una cagnara di tracce sghembe, oblique, ma che pure potremmo tentare di decifrare qualora ci rendessimo conto che il camminare in linea retta è più pericoloso del procedere per deviazioni, per disperate empietà.
Pensavo alla convalescenza grazie alla rilettura che Sarah Mann-O’Donnell (2010, 2016) ha fatto di Nietzsche, Deleuze, Artaud e Proust, e per la quale sarebbe la stessa sintomatologia a rivelare le supposte condizioni di salute dell’epoca in cui vive un corpo malato e che contribuiscono al morbo.
Intendevo scrivere dei corpi ritenuti abietti e bizzarri, delle cicatrici sopra e sottopelle, dei comportamenti anomali e fuori norma, di ciò viene rubricato a mera patologia destoricizzata, depolicizzata e costretta a ventriloquare il suo stereotipo. Corpi annuncio di un conflitto in atto e che, con la loro supposta degenerazione, interrogano le premesse della loro infermità: il crogiuolo di violenze che nei loro profili più che generali prendono nome di specismo, razzismo, colonialismo, colonialità, supremazia bianca, patriarcato, classismo, stato-nazione, catastrofe ecologica.
Erano quei corpi a fare segnale, quei “detriti”, come li chiama Ann Laura Stoler (2008), che, attraverso i loro sintomi, rivelano ciò che persiste a far male anche quando riteniamo le cause della loro sofferenza ormai passate o mai esistite.
Avevo in mente i corpi dei rifugiati, richiedenti asilo o immigranti senza documenti che incontro nelle cliniche etnopischiatriche in cui lavoro come volontario; i corpi del popolo palestinese scheggiato da un genocidio che sembra non aver fine. Pensavo anche ai troppi amici e amiche portatori e portatrici di patologie croniche collegate alla tossicità dell’atmosfera che respiriamo, al cibo di cui ci nutriamo, a tutti coloro che affetti da sindromi e disturbi psichici ci segnalano le alienazioni del nostro quotidiano. Pensavo ancora alle storie lette e rilette della distruzione in atto delle grandi foreste e dei popoli che le abitano, ai corpi trasformati dalle radiazioni nucleari di Chernobyl, dalle bombe atomiche sganciate a Bikini e Enewetak, alle contaminazioni chimiche di Bhopal, Taranto, Seveso. Mi chiedevo come queste scorie persistano nell’ambiente, contaminando gli affetti, facendo calco nella biologia di un corpo deforme, sia esso umano e non umano. Ci sono nei miei pensieri anche tutti quei corpi non umani che con loro malattie, con le loro agonie silenziose, nei segni lasciati un attimo prima della loro scomparsa o nell’assenza di impronte laddove ce le saremmo aspettate, ci stanno urlando in faccia con un linguaggio che comprendiamo a stento le infezioni in corso: siano essi gli abeti rossi che stanno essiccando in massa sulle Alpi o la strage degli ulivi in Puglia, la danza macabra dei gatti di Minamata, gli uccelli che precipitano nelle acque inquinate, ma anche gli orti sotto casa bruciati in agosto o i pesci che non riescono più a vivere nei mari troppo caldi in cui ero solito nuotare da bambino.
Pensavo a questi corpi come Cassandre della contemporaneità destinate a rivelare non solo le passate catastrofi ma quelle a venire, senza mai essere credute. Ma soprattutto, e forse per resistere allo spregiudicato “non c’è più nulla da fare”, cercavo ciò che di inappropriabile resta in un corpo su cui ciò che chiamiamo modernità, a cui diamo retrospettivamente il nome progresso, ha impresso il suo sigillo. Ciò che cercavo erano i contrappunti nelle storie alle spalle di questi corpi, gli annunci oltre la periferia della loro pelle, gli accenti che balbettano al condizionale futuro. Indizi di un corpo insorto, orme lasciate da corpi indocili.
Ma come scrivere di questi corpi né determinati dai rimorsi della storia né liberi dallo choc violento che ne ha fatto impronta e che oggi non risparmia nessuna area del pianeta? Come rendere la complessità delle interazioni chimiche, spettrali e multispecie con cui i corpi sono fatti e disfatti? Come parlare del crogiuolo di affetti coloniali, radiazioni atomiche e fantasmatiche che nelle loro sovrapposizioni con-formano un corpo mostruoso? Se l’ontologia che siamo soliti pensare regola la nostra vita smaterializzando la realtà, dimenticandosi di come la materia diventa materia, se i problemi d’estetica sono ricondotti a un mero problema di linguaggio e rappresentazione non è difficile cogliere l’estensione del problema. Lo sappiamo, le immagini della violenza pietrificano e ti inchiodano all’atto; i concetti che tendo a generalizzare, per non dire universalizzare, anche quelli in buona fede, spazzano via la complessità delle storie lasciando poco spazio all’immaginazione. Essenzializzare, rappresentare sono una crudeltà. Questioni che lungi dall’essere problemi distinti fanno parte dello stesso discorso unitario e uniformante in spasmodica ricerca di differenze da cui nutrirsi, digerire, e al fine decretarne l’estinzione. Ma come assumersi il rischio di trasgredire questi confini – ilomorfismo, etnocentrismo, antropocentrismo – sul quale fanno calco le frontiere che separano la possibilità dalla necessità, il significante dal significato, il prodotto dal produttore? Necessario un cambio di paradigmi, mutamenti prospettici, tessere altri rapporti tra forma e materia. Un atto di decreazione, lo chiamerebbe Carson (2023). Né creazione né distruzione, ma un disfacimento in perpetua tensione creativa tra la realtà e le forme estetiche con cui siamo abituati a pensarla. Un’aberrazione in fondo, inevitabile quando l’idea di realtà antropocentricamente centrata come principio di equivalenza, mascherata da teoria critica, si fa complice di una trionfale mercificazione che prevede la naturalizzazione delle relazioni di potere, la trasformazione dei corpi in risorse naturali da sfruttare, combinati in unità discrete da cui estrarre valore produttivo, invisibilizzando quello riproduttivo.
Sarà forse una scrittura in grado di farsi mimetica, ossia sensibile e sensuale, con la materia che interroga, a rendere giustizia a questi corpi? Se i corpi mettono la storia in atto è perché in questi corpi aberranti, sintomatici, contaminati da epoche infette è la storia stessa a presentarsi come sintomo. In fondo, «la sintomatologia pertiene sempre all’arte», scrive Gilles Deleuze (1996, p. X). Benissimo, ma quale arte? a cosa somiglierebbe questa scrittura?
“Se sapessi dirlo non avrei bisogno di danzarlo.”
(Isidora Duncan)
Esistono incontri inattesi ma che arrivano con una tale puntualità per cui le parole caso o destino non hanno più senso di essere tenute separate. E questa volta si tratta di un libro, arrivato quasi fosse un contrappunto per un testo inceppato in un problema di composizione: come scrivere facendo corpo comune con la resistenza della materia di cui la scrittura stessa è rottura e prolungamento? Come sarebbe un’arte deflessa a contatto con una storia dislocata?
E tutto questo letto in diffrazione al rapporto dispiegato tra arte, natura e politica, sull’evidenza di come il capitale abbia raggiunto un punto estremo nella colonizzazione della materia e dei corpi. Tale forma di poetica ricurva potrebbe contribuire alla messa in discussione dei presupposti che hanno generato la catastrofe in cui ci troviamo, la cui violenza genocida si esercita non solo sui viventi di oggi ma anche su quelli di domani con entità mai vista prima?
E’ Gustav Sjöberg (2022), in La fiorente materia del tutto a tentare un risposta tanto semplice quanto complessa: l’arte potrà farsi strumento geopolitico a patto che smascheri la logica rappresentativa che vi sottende, rifiuti il presupposto umanistico che la abita e si faccia minuscola, togliendosi la corona che una certa cultura di destra gli ha conficcato permanentemente sulla testa. Ma tutto questo resterebbe lettera vuota e vacuo formalismo se l’arte non infrangesse il suo stesso fondamento estetico, ossia la distinzione tra ciò che è prodotto dall’uomo e dalla natura, idea che riposa sulla contrapposizione aristotelica di un atto puro e una materia infima, ciò che mancando di tutto è pura potenza senza forma. In poche parole, Sjöberg propone che l’arte rinunci alla sua autonomia per farsi filologia naturale, rivendicando le ragioni della materia per riconfigurare i rapporti tra sé e ciò che diciamo natura: concependo la natura non come substrato passivo ma produzione di innumerevoli forme, in cui la distinzione tra io e mondo, organico e inorganico, umano e non umano si dissolva per far detonare l’eccesso delle loro differenze. Natura, in questo senso, non ha niente a che vedere con ciò che è naturale. Piuttosto è sentita come plastica consistenza che non tende ad alcuna sintesi superiore, «una totalità trasformata incessantemente, un giardino planetario senza centro, né periferia» (Sjöberg 2022, p.108). Così, l’arte può divenire ciò che è sempre stata, uno degli innumerevoli linguaggi contingenti della natura, solo se in grado di disseminarsi in essa, come dissoluzione e ricombinazione di forme molteplici in cui è impossibile distinguere tra momento formato e formante, compimento dell’opera dal processo del suo sorgere.
L’arte come atto mimetico insomma. Sublime metamorfico lo chiama Taussig (2023), convergenze e assemblaggi eterogenei che insistono sulle reciproche convocazioni facendo saltare le gerarchie, contaminandosi, costituendosi da sempre come differenza da una supposta origine data. E in questa scommessa non c’è niente di facile, niente di scontato, nulla di prevedibile. Ma è forse qui, in questo spazio altamente performativo, abitando il rischio di perdersi, giocando con il pericolo di non essere riconosciuta, che l’arte può farsi ordigno, creare ambienti, ispirare, avere cura dei fragili legami per un mondo in divenire. Né arte della natura, né arte nella natura, ma arte come natura.
Nel fiore che sboccia c’è un mondo che precipita così come in un’opera d’arte e questo incontro erotico comporta tutti i pericoli e i godimenti, ma anche l’intossicazione e la tossicità, che siamo soliti attribuire soltanto all’amore tra umani.
Allo stesso modo la scrittura come rischio e gioia, come arte sparpagliata nella natura, può esserlo soltanto se abbandona il presupposto del soggetto creatore misura di tutte le cose per impastarsi nella vita di ciò che fa mondo. Farsi carne, farsi suono, produttrice di circostanze. In fondo, anche scrivere ha a che fare con un certo modo di manipolare uno strumento per modificare l’ambiente in cui insorge, renderlo abbastanza reale da stupirci, innescando una trasformazione estetica, percettiva, sensibile, cognitiva, corporea. Il che significa tracciare la possibilità di una diversa organizzazione dell’esperienza, un’altra partizione del sensibile, direbbe Jacques Rancière (2022), che assimila, rielabora e sposta, producendo un campo di forze, pervertendo le risposte, mentre circola come parte di mondo tra i corpi nel mondo.
“È questo che un corpo può fare per un altro corpo: rivelare una libertà condivisa, che penetra sotto pelle. Libertà non significa sbarazzarsi del peso del passato. Significa guardare al futuro, sognare tutto il tempo. Un corpo libero non deve essere necessariamente intero o inviolato o inalterato. Cambia, cambia, cambia sempre, una forma fluida dopo l’altra. Immaginate, per un momento, che cosa significhi abitare un corpo senza nessuna paura, senza bisogno di alcuna paura. Immaginate cosa potremmo fare. Immaginate soltanto il mondo che potremmo costruire.”
(Olivia Laing 2021, p. 299-300)
C’è un piacere motorio nella scrittura fatta come gesto compiuto per niente. Ma forse è questa inutilità che permette alla scrittura di continuare a farsi corpo, a fare senso, partecipando alla costruzione di un mondo e così interrompere la ripetizione della norma, la domesticazione simbolica, incrinando la pretesa di una verità assoluta, lo scopo di provvedere all’edificazione morale del lettore. La grande scommessa che caratterizza il nostro tempo potrebbe essere legata proprio alla capacità di attivare un’arte, una scrittura come tecno-estetica (Simondon 2021), ossia un dispositivo di innervazione, radicato nell’ambito della corporeità. Un prolungamento di ciò che è mondo, di ciò che diciamo agentività.
Ossessionato da questo pensiero ho provato io stesso a farne collisione, a farne sprezzatura, per modellare la scrittura nella materia delle mie interrogazioni. E un’ossessione ha sempre a che fare con una pulsione. Ho provato dunque ad assumerne il rischio, tentando di infrangere quei confini che nel loro lavoro congiunto tengono separati le immagini e le parole dalla materia, il senso dalla cosa, il passato dal futuro, l’umano dal non umano, l’organico dall’inorganico.
Mi sono chiesto che voce avesse un corpo in convalescenza. Che odore sparge la sua pelle? che ritmo tiene il suo passo? cosa percepisce il corpo contorto nell’epilessia della storia? Che cosa vede uno sguardo distorto? Che suono fanno le ossa saccheggiate? Ho tentato la mia decreazione con il chiasso di voci, luoghi, oggetti, persone, corpi, che a volte non restano nemmeno tanto a lungo da poter essere riconosciuti, ma che pure si danno appuntamento nella pagina, costringendo sulla scena dell’infestazione, presentificandola, contagiando la radice. Mi sono messo alla prova sulla soglia intensiva tra immagine ed esperienza, mentre quella stessa soglia si allargava un po’ di più sulla mia pelle, scavava sotto le mie dita. Ho rischiato di cascarci dentro, ho girovagato attorno.
Eppure, anche quando i nostri migliori sforzi falliscono, c’è sempre un punto cieco in cui trovare rifugio. E alla fine resta il desiderio di ringraziare i passi avanzati, l’aver indugiato a lungo, guardato piano, aver accarezzato le parole alla sera, averle colpite con rabbia. Anche fosse solo un piccolo gesto ciò che resta, alla fine ci troviamo un poco più in là di dove siamo partiti.
Scrivendo qualcosa succede, risuona, al fine qualcosa accade. Una parola segno inciampa nell’accozzaglia di minime cose e di cose trascurate, mandando fuori norma il corteo loquace della storia, disponendo le presenze in modo insolito, curioso, in contatto con chi è assente, appoggiandosi a un comune, sia pure effimero. E questo, forse, è già una specie di girotondo convalescente. In fondo, indugiare in con-valescenze è provocare una convulsione, la precipitazione un valore condiviso, ossia un con-valore. Convalescenze, convulsione, convalore, una possibile traccia da seguire.
Non ho piani e proclami qui, al massimo sussurri cospiratori. Tracce di una scrittura obliqua che tenta uno spasmo teorico mentre cerca di farsi contrazione, gesto, impulso musicale, senza soluzione di continuità, a contatto con la materia convalescente su cui insisto e che mi convoca, mentre ci digeriamo reciprocamente. Queste almeno le intenzioni. Non so se ci sono riuscito. Ma si sa, qualsiasi cosa sia al fine l’intenzione, sia esso un pensiero, un gesto, un movimento, è qualcosa che si trova a metà strada tra la causa efficiente del libero arbitrio e l’effetto determinato da cause mondane. Ancora contaminazioni, ancora convalescenze.
Lascio qui un messaggio in bottiglia arrotolato goffamente, fragile come una foglia che cade nel suo osare al vento. Una coreografia minuta e pronunciata male, un invito a sperimentare una scrittura possibile a contatto con la materia con cui fa corpo, qualsiasi essa sia. Magari interrompendola, magari prolungandola, rimettendola in circolo.
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Riccardo Malatto, laureato in “Metodologie filosofiche” presso l’Università di Genova e dottorando nel dipartimento di Scienze Umane e Sociali nell’Università di Bergamo. La sua attuale ricerca interseca i nessi tra sintomatologia e violenza da una prospettiva filosofica e antropologica. Nel momento in cui scrive è volontario presso il centro Frantz Fanon di Napoli e membro dell’equipe etnopsichiatrica operante presso il Ser.T di Lavagna (Asl4, Genova).