Italianità
Dell’italianità. Una storia di dilagazioni
di Cristina Lombardi-Diop

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New York, City Hall, settembre 1995. Collezione privata. Courtesy of the author

 

 

Dinne s’alcun latino è tra costoro (Dante, Inf. XXIX, 88)

Succede che alla fine degli anni Novanta una famiglia italiana, la mia, cambia nome e cambia volto. Questo avviene attraverso un segno diacritico, un trattino, che unisce e divide. Lombardi, uno dei cognomi più diffusi in Italia, si unisce a Diop, uno dei cognomi più diffusi in Senegal. Cambia quindi il volto dell’italianità e il contenuto della memoria, il significato delle radici. Tale cambiamento scatena una serie di reazioni – alcune microscopiche, impercettibili, quasi nascoste, altre invece più visibili, allargate, direi quasi dilaganti. Queste investono vari soggetti sociali, luoghi, generazioni, fino a muoversi dalla sfera affettiva e intima (quella mia e di mio marito) alla famiglia d’origine, ai parenti, ai vicini, al quartiere, alla mia comunità accademica, per poi toccare la sfera della politica di varie nazioni, quella in cui sono nata (l’Italia), quella dove è nato mio marito (il Senegal), e quella dove sono nati i nostri figli (gli Stati Uniti). È una storia che accomuna il destino delle donne e degli uomini, che dilaga e sconfina nella geografia del pianeta. È una storia di attraversamenti, di rimozioni, di reazioni, di alienazioni, di dilagazioni.

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Attraversamenti

L’Italia cambia volto e con esso anche il senso dell’italianità. E’ una svolta epocale che mi coinvolge in prima persona e mi catapulta verso altri luoghi identitari. Quando considero questi cambiamenti, il mio pensiero va immediatamente alla generazione precedente alla mia, quella di mio padre e a mia madre. Loro uscirono adolescenti dalla seconda guerra mondiale, crebbero sotto il fascismo, divennero adulti negli anni del boom economico e in quelli di piombo. Negli anni Ottanta, mia madre – di padre socialista e anti-fascista – continuava a votare il Partito Comunista e a credere nella forza del sindacato, mentre mio padre era passato a Craxi e per poco aveva anche espresso simpatie per Berlusconi, prima ancora che Forza Italia salisse al potere.
Litigi intimi, quelli legati alla politica, in cui le differenze di abitudini e di classe tra mio padre e mia madre riemergevano come l’accento calabrese nella pronuncia forte, imponente, delle dentali. So che per loro, crescendo, essere italiani voleva dire essere meridionali, castroviddari e muranisi, ma anche il riconoscersi in una comunità somaticamente omogenea. In quale momento e con quali modalità l’identità di luogo, di regione, aveva trasceso la geografia, allargandosi fino a comprendere entità astratte quali la ‘nazione’, la ‘razza’? In quale misura, per la generazione precedente alla mia, il colonialismo fascista e la decolonizzazione furono responsabili di questo passaggio identitario? E per i miei genitori? Non sono sicura di avere risposte certe.
Mio padre, quella propaganda coloniale che quasi per osmosi aveva penetrato la sfera sociale e quella privata della sua famiglia, della nazione, doveva averla assorbita in misura maggiore, non certo ‘inconscia’, rispetto a mia madre. Nonno Guido Lombardi conduceva un giornale, la famosa Vedetta, e in casa non si parlava d’altro, quando c’era il nonno. Nel corso degli anni Trenta, della politica del regime nonno conosceva tutte le chiacchiere e gli intrallazzi locali. Ci aveva creduto nella rivoluzione del ’22, era chiaro in quell’editoriale a sua firma (in cui evitò di firmarsi, come spesso faceva, con il suo pesudonimo, d’Artagnan) in cui dichiarava che nel fascismo vedeva “un’opportunità di democrazia”. Poi, quattro anni dopo, l’anno in cui nacque mio padre, ecco che apparve un altro editoriale. La crisi Matteotti era passata, il PNF aveva tenuto al governo, nonostante la secessione dei deputati, e alla stampa cominciavano ad essere messi i bavagli. Dopo il discorso del 3 gennaio del 1925, dopo le misure repressive contro la stampa e qualsiasi forma di dissenso, mio nonno si era indignato, aveva sentito che il fascismo non voleva proteggerli, che il regime stava cambiando il corso della storia. L’editoriale parla chiaro. Mussolini non era l’uomo della rivoluzione, della democrazia, ma una minaccia alla libertà di parola.
Eppure, in qualche modo, anche il nonno cedette. Come direttore di un giornale, nel pieno della sua carriera di avvocato, anch’egli aveva riconosciuto il potere nel passo ritmico degli stivali, nel saluto romano. La vita scorreva, il paese si modernizzava, il giornale si riempiva di notizie piccanti e l’opinione pubblica si arrendeva alle esigenze della storia. Nel ‘35, dopo l’annuncio entusiasta dell’inizio del conflitto, mio nonno aveva appeso nel suo studio una mappa di quel paese lontano. Con freccette tricolori appuntate come spilli seguiva l’avanzare delle truppe sull’altopiano etiope, mentre mio padre lo guardava incantato. Sua moglie, la nonna Emma, donna elegante e colta, socializzava nei Circoli dei Fasci Femminili, una nazione intera ammaliata, come lei, dal rumore assordante dei comizi in piazza e della propaganda anti-abissina.

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I nonni paterni. Castrovillari, senza data. Collezione provata. Courtesy of the author

A mia madre, invece, quella storia – che in qualche modo la rendeva ‘diversa’ da suo marito – doveva esserle stata raccontata. Lei non era ancora nata quando a suo padre, mio nonno Pietro, gli squadristi del paese imposero l’olio di ricino per fargli pagare le sue idee socialiste, gli rovinarono gli affari, cercando di bloccarne ogni ambizione. La Colombia forse gli salvò la vita, al nonno Pietro. Come la salvò a mia nonna Emma Mainieri* – così diversa da suo marito – lei che scattava foto artistiche alle figlie, suonava Chopin, seguiva con passione la poesia contemporanea e scriveva in versi invettive contro la moda infatuante del futurismo letterario.

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Ritratto della figlia, foto di Emma Mainieri. Senza data. Collezione privata. Courtesy of the author

In quale stile, nonna, decidesti di scrivere la novellina apparsa su quella famosa rivista, Cordelia? Di essa si sono perse le tracce, poiché nessuno in famiglia conosceva il tuo pseudonimo. Un segreto ben celato, nonna, che neanche io sono riuscita a svelare dopo molte ricerche. I miei attraversamenti dal mondo di mia madre, quelli di mia madre dal tuo, e quelli degli uomini della famiglia che partirono verso il Sud delle Americhe, in qualche modo ci salvarono, fecero di noi delle donne forti, eclettiche, sognatrici. Io in aereo da Roma a New Haven, mia madre in treno da Morano a Roma, e tu invece in locomotrice, fino a Firenze per potere studiare al prestigioso collegio del Sacro Cuore, grazie alle monete d’oro suonanti inviate da Caracas da tuo padre.

 

Rimozioni

Come tuo padre, anche tuo marito emigrò all’America. Le tracce del nonno Pietro, sarto esperto, che andava e veniva da Morano a Baranquilla, rimangono nel nome e nel ricordo di mio cugino, mio coetaneo, nato dall’unione di mio zio, il fratello di mia madre, e una donna colombiana di un piccolo paese vicino Baranquilla. In famiglia si parla ancora poco di quell’emigrazione. Da Baranquilla il nonno scriveva lettere mischiando il dialetto moranese allo spagnolo. Il passato socialista di suo padre, la sua emigrazione in Colombia, una mamma pianista, fotografa e poetessa, rendevano quindi mia madre ‘diversa’ da mio padre? A pensarci bene, quell’‘innato senso di giustizia’, – come lo chiama lei – che mia madre ha cercato in tutti i modi di inculcare a noi e che ora vuole trasmettere quasi ossessivamente ai suoi nipoti afro-italiani, le deriva probabilmente dal ricordo confuso e doloroso di quel padre socialista, vittima del fascismo, eroe dei due mondi, che morì all’improvviso, nelle campagne moranesi, in uno dei suoi viaggi di ritorno dall’America del Sud. Eppure anche mia madre, come tutti, del resto, avrebbe voluto dimenticare il fascismo. Anche lei, come mio padre, era stata esposta alle immagini veicolate dall’educazione scolastica, dai libri per l’infanzia, dalle réclame pubblicitarie, dai discorsi pubblici di Mussolini, dalle cartoline coloniali, dai resoconti di viaggio, dai fumetti a stampa per le piccole italiane, dai romanzi coloniali, dagli oggetti di consumo quotidiano (saponette, cioccolatini, scatole di latta).
Tutti, italiane e italiani, da Milano a Reggio Calabria, da Trento a Genova, dal Gargano alla Sicilia, tutti gli abitanti delle provincie come quelli dei centri urbani, chi più chi meno, tutti si sentirono investiti di un’identità che li accomunava in quanto bianchi e li separava dalle popolazioni colonizzate al sud del Mediterraneo, in Libia, nell’Africa italiana, a Rodi, in Albania. Non vi è italiano di quella generazione che non abbia provato quel senso intimo di connessione e di assoluta alterità nei confronti degli altri, dei neri, degli africani. E allora? Anch’io ho voluto dimenticare? Non ho ricordi dell’Africa prima che arrivassero gli immigrati marocchini e senegalesi nei quartieri del centro di Roma, prima che anch’io emigrassi fuori dall’Italia, prima del mio matrimonio. Sparita l’Africa, come per miraggio.
Fino a quando, negli Stati Uniti, scopro che il mio Paese si è a lungo coinvolto in guerre di occupazione nel Corno d’Africa, guerre violente, piene di misfatti indicibili. Qualcuno parla di amnesia, di rimozione, ma questi termini non ci aiutano a capire. Mi sembra che tendano a una nuova forma di rimozione. Finiscono per offuscare il disegno politico, programmatico, di cancellare ‘la menzogna della razza’, ossia tutti quei misfatti compiuti in nome di essa. È come se dietro i silenzi e le omissioni non ci fosse stata una volontà istituzionale, ma solo un meccanismo inconscio.

 

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Il nonno con il nipote. Cittadella del Capo, estate del 1996. Collezione privata. Courtesy of the author

 

Reazioni

Mio padre, davanti alle foto che inviai per la prima volta da New York del mio futuro marito, uno studente di economia di Dakar anch’egli emigrato negli Stati Uniti per studio, lamentava di non riuscire a vederne bene i tratti del viso, troppo scura la fotografia. Nessuno aveva avvisato mio padre, nessuno della mia famiglia venne a New York per il matrimonio. Mio padre venne invece a prendermi alla stazione del treno di Paola, una cittadina riversata sul Tirreno calabrese, la prima volta che tornai in Italia. Era notte e Alassane, il mio primogenito di pochi mesi, era avvolto in un fagotto di tela che lo copriva quasi interamente. Mio padre non volle guardarlo, nel tragitto fino a casa, e poi per alcune ore, fino a quando il piccolo fagotto fu disteso sul grande letto di famiglia per essere cambiato. Mio padre andava su e giù, passo passo, fuori dalla stanza, mentre il fagotto sgambettava felice sul letto. La porta era aperta, e mio padre faceva avanti e indietro, passo passo, su e giù pel corridoio. Poi, a un certo punto, me lo ritrovo accanto, lievemente ricurvo sul letto: “Ma è cosi bello…!”.
Con un “ma” di sorpresa e tenerezza nacque l’amore tra quest’uomo già anziano, che aveva superato la soglia della stanza e combatteva un tumore senza saperlo, e suo nipote Alassane. Alassane, nato a New York, da padre senegalese e madre italiana, nato due anni prima della sua morte, ebbe solo una breve estate per conoscere suo nonno. Durante quell’estate, il paese di mare fu il teatro della loro gioiosa unione. In paese, dove mio padre era conosciuto da tutti come ‘il giudice’, per via della scorta che negli anni di piombo sostava a lungo sotto casa, dopo l’arrivo di Alassane nessuno più si ricordava di quel nome. “Ora” – diceva mio padre con orgoglio – “tutti mi chiamano il nonno di Alassane”. Il nonno di Alassane, un uomo borghese del sud, sposato a una donna di un paese non lontano dal suo, cresciuto sotto Mussolini, socialista craxiano, che leggeva Baudelaire e Hemingway e avrebbe voluto scrivere un libro su Giolitti. Senza fare in tempo.
Lei, invece, mia madre, fece in tempo a vederlo nascere, suo nipote Alassane, attraversando l’oceano da sola, per la prima volta, fino al Nuovo Mondo, dove anche suo nonno materno, e poi suo padre, erano arrivati quasi cent’anni prima. Mia madre si ritrova a Brooklyn, nel quartiere polacco di Greenpoint dove vivevamo e si sistema sul divano del mio studio. Nella stanza accanto, mia suocera veglia da giorni sulle mie doglie inconcludenti. Mi ha fatto bere un infuso amaro di radici polverose che ovviamente sono miracolose ma non hanno nessun effetto su di me, nuora sciagurata, mamma del suo primo nipote, nato lì dove la terra gela. È arrivata anche lei da lontano, da quella punta a stella sull’Atlantico, affogata di sole, che è la penisola di Dakar.
Nel suo primo viaggio da noi aveva provato, senza riuscirci, a dissuadere il figlio. Una donna europea, bianca, cattolica, non era certo il destino che aveva immaginato per il suo aîné, per se stessa. Come avrei potuto io, senza neanche una parola di wolof, entrare nel suo mondo, starle accanto, prendermi cura di lei? Eppure, durante quella prima visita, mi ero prodigata a prepararle un’accoglienza degna di lei, rinverdendo il mio francese, cucinando quanto di meglio sapessi fare: lasagne, salse di carne, timballi di patate e formaggio. Mia suocera, stesa sul tappeto del mio appartamento di Brooklyn, tra una preghiera e un’altra, avvolta d’incenso e di mistero, non aveva toccato cibo, alludendo a un’intolleranza al burro, al formaggio, probabilmente al parmigiano. Al parmigiano? Come si fa a essere intolleranti al parmigiano? In quei giorni affannati le due donne non avevano comunicato, o così immagino ora, ma quella era l’ultima delle mie preoccupazioni. Io e Daouda ci trovavamo ad affrontare per la prima volta la questione, che diventò all’improvviso spinosa, delle nostre origini. Le nostre madri si ritrovavano riunite sotto lo stesso tetto nel momento in cui stavamo per dar vita a un’esistenza che le avrebbe incluse entrambe. Incluse, ma come? E le origini?

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La nonna con il nipote. Cittadella del Capo, estate del 1997. Collezione privata. Courtesy of the author

 

Alienazioni

È proprio a Brooklyn, qualche anno dopo, che mia madre sperimentò su di sè il senso di alienazione derivante dalla separazione epidermica del colore. La nonna porta a spasso suo nipote nelle strade affollate di Greenpoint e a un certo punto quel bambino ribelle le sfugge di mano, non vuole sentirne di starle appresso, corre in avanti, si nasconde nell’atrio di un negozio e si rifiuta di seguirla.

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La nonna con il nipote. Brooklyn, estate del 1996. Collezione privata. Courtesy of the author

“Vieni Alassane, andiamo a casa dalla mamma”. Ma nulla. Il bambino si rifiuta di darle la mano, si rifiuta di muoversi. La nonna lo prende per un braccio, lo strattona un poco. Non vede, non si rende conto che nel frattempo qualcuno si è fermato, una, due, tre persone le si sono fatte intorno. Fanno capannello, le chiedono – in una lingua che lei non capisce – cosa stia accadendo. Cosa sta accadendo? Mia madre non risponde, non può rispondere, ovviamente, non parla l’inglese. A lei sembra ‘normale’ strattonare un poco quel nipote ribelle, che non vuole obbedire. Poi capisce. Le persone che la circondano non hanno capito il legame di sangue che c’è tra lei e quel bambino riccioluto, dalla pelle ambrata. Non si somigliano, nessuno immagina che sia la nonna e non una sconosciuta che sta tentando di portarlo via. Deve spiegare, lo fa a gesti, e alla fine tutti ridono, e la lasciano andare.
Mia madre sa che suo nipote Alassane “discende pe’ li rami” – come lei ama dire – ossia fa parte del suo stesso albero genealogico, appartiene alla famiglia. Eppure raramente cerca in lui somiglianze somatiche con se stessa. In lui vede piuttosto tratti della suocera, che lei ha conosciuto. In Italia, durante il periodo dell’infanzia dei miei figli, quando sedevo con loro nei giardini di Roma accompagnandoli ai giochi, mi veniva spesso posta questa domanda: “ma da dove vengono, in quale Paese li ha adottati?” Domande che spesso rivelavano una curiosità che sembrava innocente ma nell’insistere diventava quasi morbosa, rivolta a capire il mio grado di alienazione dalle loro origini, dalla loro diversità epidermica. A secondo dell’interlocutore, o del grado della mia tolleranza del momento, la mia risposta variava da un semplice ed elegante “mio marito è senegalese’, a un vomitato “sono nati nel mio utero, sono rimasti nella mia pancia, sono usciti dalla mia vagina.”
Cosa sono le origini, come si esprimono, cosa vogliono dire? Cosa vuol dire perdere, acquisire, avere i tratti dell’italianità? La questione delle origini ci coglie quasi tutti impreparati, soprattutto quando queste origini tendono a sfuggirci – quando non riusciamo a rintracciarle nella somiglianza dei tratti, del profilo, nel colore della pelle di coloro che consideriamo i ‘nostri simili’. Eppure ognuno di noi è abbagliato dal mito delle proprie origini. Proiettarsi nell’illusione dell’immortalità creata dal mito della discendenza vuol dire tessere invisibili radici verso i luoghi della nascita, dell’infanzia, della memoria e verso un futuro che sappiamo con amarezza essere a noi ignoto e fuori dalla nostra portata. Il mito tenta di contenere l’alienazione causata da tale ignoranza. È un sottile gioco di propagazione dell’io, che ha risvolti narcisistici, e che si allarga dall’io al sociale, alla nazione.
La storia dell’Italia, ad esempio, le cui origini si perdono nelle complicate stratificazioni dei movimenti dei popoli attraverso la penisola e il Mediterraneo, nel loro incessante incrociarsi e disperdersi, ci porta a ricercare costantemente la definizione di un momento fondante, un rinascimento, un risorgimento, una rivoluzione, un regime, una resistenza, un post-evento rigeneratore e uniformante. La nostra modernità (mai effettivamente nostra) è stata il prodotto di un regime radicalmente nuovo, di una guerra devastante di cui non abbiamo capito la portata, di un’invasione coloniale il cui lascito ci trova sempre impreparati. Interrogarsi sul nostro tempo postcoloniale – che in Italia sembra sempre a venire – è in fondo un tentativo di interrogarci sulla nostra modernità. Ma è anche un’interrogazione sulle proprie origini e un tentativo di redimersi, portando a termine quella dolorosa ricerca, per ritrovarsi alla fine del percorso di nuovo innocenti, illudendosi che dare un senso alla dispersione inevitabile delle proprie origini possa stemperarne l’alienazione e contenerne la loro dilagazione.

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Alassane e Isaac. Roma, autunno 2001. Collezione privata. Courtesy of the author

Noi dilagammo altrove. Negli anni che la famiglia Lombardi-Diop trascorse a Roma, successero tante cose, tutte per lo più microscopiche, quasi impercettibili. Micro-eventi, come tanti granelli di sabbia, che a poco a poco si sono sommati fino a formare dei montarozzi, una serie di piccole muraglie di sabbia. Sono io che noto (i bambini sono ancora troppo piccoli) che all’asilo, durante le recite scolastiche, ai miei figli vengono affidati ruoli sussidiari, minori. Lo scopro con sgomento, una sera, pigiata contro tutti i papà e le mamme asserragliati nel grande stanzone della scuola. Nella recita del piccolo principe che esplora con il suo aereo metallico le periferie del mondo, Alassane rappresenta l’Africa che accoglie lo straniero. Esce in scena con i capelli arruffati e un gonnellino di rafia.
Un anno dopo, il primo giorno delle elementari, ecco un altro granello che contribuisce al castello di sabbia. Scuola progressista di Roma, prima circoscrizione. Giorno di forti emozioni, di ansie anticipatorie. All’uscita la maestra mette i suoi alunni in fila per due, e gli chiede di tenersi per mano. Alassane cerca la mano di una compagna che gli sta accanto, ma la mano si scansa. Un’altra mano, anch’essa sfugge. E poi una terza. Un’intera fila? Ecco invece una mano che si tende, che stringe. E’ quella di Giovanni, bambino mite dagli occhi a mandorla, unico a tendere la mano. Giovanni, che rimarrà fedele compagno per molti anni, l’amico del cuore delle elementari. Le maestre? Tutte brave persone, per carità. Tranne la supplente d’italiano della terza, che sistematicamente, programmaticamente, decide di correggere i compiti in classe degli alunni neri dopo quelli degli alunni bianchi. Alassane me lo confessa quando la maestra è già andata via e me lo dice con vergogna, piangendo. Eppure tutti amano i miei figli, gli vogliono toccare i capelli, ne ammirano i piccoli corpi atletici, i denti perfetti. Piccole muraglie di sabbia, che non creano fortezze, ma che all’improvviso si sciolgono per diventare di nuovo altra sabbia, muraglie inondate e disfatte dall’onda che ci ha trascinato via.

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Dilagazioni

Alassane e Isaac portano il nome dei loro avi paterni. Della discendenza materna hanno provato tutte le gioie e tutti i dolori. Quella paterna rimane avvolta nel mito. Nonno Alassane racconta di origini che affondano nel nomadismo di popolazioni di mercanti di sale attraverso le distese saheliane e lungo il fiume Senegal, fino a Dagana, dove si fermarono, al confine nord con la Mauritania. Della sua lingua di famiglia, il fulah, mio suocero non dice. Un’altra dispersione, un’altra alienazione. La nonna invece racconta della sua adolescenza a Bamako, il bambara è lingua viva, una delle sue cinque, una giovinezza passata in molti luoghi seguendo suo padre, nonno Isaac, che ritorna dalla Francia dopo aver combattuto come medico di guerra, della sua militanza nel partito socialista maliano, il commercio di camion da trasporto, la vecchiaia a Dakar, accanto alla sua bellissima moglie, che a Bamako viene fotografata, giovanissima, nello studio del grande Seydou Keita. Nonno Isaac, colui che sorride, fedele al suo nome, rimane il mito di famiglia. Uomo eclettico, di carattere forte ma bonario, distribuiva caramelle ai bambini del quartiere, mille ricordi ai suoi nipoti, e ha distribuito anche il suo nome, da generazione in generazione, fino ai miei figli.

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Gita a Mbour. Senegal, estate del 1998. Collezione privata. Courtesy of the author

Le diaspore dell’africanità, dall’Atlantico al Mediterraneo, le dilagazioni della nerezza attraversano i continenti e l’esistenza dei miei figli. In aereo, di ritorno da un viaggio a Tunisi, Alassane ancora piccolo mi chiese cosa ci sia in lui, quale essenza magica gli permette di somigliare a un tunisino, a un brasiliano. “African American Italian, without hyphen” è come si definì dopo aver vissuto un anno negli Stati Uniti. Oggi, per Isaac, nato a Chicago e vissuto a Roma per i primi otto anni della sua vita, essere italiano vuol dire conoscere la lingua, avere degli zii e dei cugini che lo aspettano, una nonna esperta nel preparare il sugo ‘pulito’, – come lo chiama lui – sapere che c’è una casa per lui quando torna in Italia. Non lo sa ancora, ma quando ritorna il suo corpo diventa più sinuoso, il suo volto si allenta, tutto in lui si rilassa. Un giorno, all’inizio del nostro soggiorno americano, al ritorno da scuola, Isaac ride, esclamando: “everybody looks like me here.” Negli Stati Uniti Isaac parla, si muove, pensa con una logica regolata dalla linea del colore, quella incisa nel solco della nascita della nazione in cui è nato e che ora segna anche lui. L’ha già sperimentato sulla sua pelle, qualche mese fa, quando la polizia l’ha fermato per strada, mentre era con amici. Dopo l’assassinio di Trayvon Martin, gli avevamo dato una lezione. Giù il cappuccio, le mani rimangono in tasca se arrivano all’improvviso. “Put your hands out of your pockets”, gli hanno gridato, i fari della volante puntati addosso. Eppure viviamo in una cittadina demograficamente mista a nord di Chicago, dove i figli hanno studiato nelle scuole pubbliche. Tutti gli somigliano qui, non come in Italia, dove essere italiani neri vuol dire non essere italiani.
La linea del colore attraversa la nostra casa, il nostro quartiere, l’esistenza di questi due ragazzi che non sono considerati African American dai neri e non sono considerati Italian American dai bianchi. Oggi Alassane vorrebbe tornare in Italia, dove si sente a casa. Quale casa? C’è una canzone che ascolta spesso e che dice: “I don’t know where I am, but it feels like home …now I love myself again, and it feels like home.” La casa della sua canzone è una casa senza geografia, una casa senza luoghi familiari, una casa che è disorientamento, una casa che è coscienza di sè, amore di sè.

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La famiglia Lombardi-Diop. Chicago, estate del 2016. Collezione privata. Courtesy of the author

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* È pura coincidenza, in assenza di legami parentali, il fatto che le mie due nonne, quella materna e quella paterna, si chiamassero entrambe Emma e avessero sposato un uomo dallo stesso cognome, Lombardi.

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Cristina Lombardi-Diop insegna italianistica e studi di genere nei dipartimenti di Modern Languages and Literatures e Women’s Studies e Gender Studies alla Loyola University di Chicago. Il suo lavoro scienti co è centrato sullo studio della soggettività di genere nell’ambito degli studi storici sul colonialismo italiano e sul postcolonialismo italiano, i whiteness studies e la memoria coloniale e razziale nell’Italia contemporanea. Tra le sue più recenti pubblicazioni vi è il volume Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani (con Gaia Giuliani – Le Monnier 2013) e il volume collettaneo co-curato con Caterina Romeo, L’Italia postcoloniale (Le Monnier-Mon- dadori, 2014).