§Fascismi
Eredità materiale del fascismo e persistenza del paradigma estetico: patrimonio culturale e narrazioni di appartenenza al di là del difficult heritage
di Simona Storchi

La sera del 27 luglio 2022, il club calcistico della Roma ha tenuto la presentazione ufficiale del suo nuovo acquisto, Paulo Dybala, in un evento spettacolare di musica, proiezioni luminose e fuochi artifices, che si è svolto presso il Palazzo della Civiltà Italiana, nel quartiere EUR di Roma alla presenza di oltre 10.000 tifosi in estasi. L’evento è stato commentato dai media di tutto il mondo come uno spettacolo “incredibile” (Zucchelli, 2022) e “da brividi” (Sky Sport, 2022). Lo stesso Dybala lo ha descritto sui suoi social media come un momento unico, che neppure nei più grandi sogni avrebbe potuto immaginare (Sky Sport, 2022). 

Nella maggior parte dei resoconti italiani, il Palazzo della Civiltà Italiana è stato affettuosamente soprannominato “Colosseo Quadrato”, in riferimento alla sua forma quadrata e alle file di archi che volutamente richiamano quelli dell’Anfiteatro Flavio. Ciò che nessun commentatore ha menzionato è il fatto che l’evento si è svolto in un ex edificio fascista, anzi, in uno degli edifici fascisti più iconici d’Italia. Mentre il quotidiano digitale Affari italiani ha osservato come la società calcistica della Roma si fosse appropriata della città come sfondo per promuovere le vendite del suo merchandising in attesa della costruzione di un nuovo stadio (Affari italiani, 2022), Francesco Oddi, su Il Romanista – il quotidiano dei tifosi della Roma– ha commentato sulla scelta dell’edificio per la presentazione: «presentare Dybala al Colosseo sarebbe stato molto spettacolare ma forse un filino pacchiano […], farlo al Colosseo Quadrato è stato molto spettacolare, senza congiunzioni avversative. Dall’Esposizione Universale Romana […] all’Esposizione Universale Dybala, la Roma continua nella sua opera di rivalutazione del quartiere che porta al mare, meta di pellegrinaggio per architetti di tutto il mondo […] la nuova sede, a Via Tolstoj, è a 400 metri dal monumento più iconico della zona, quello dedicato al ‘popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, scienziati, navigatori e trasmigratori’» (Oddi, 2022).

L’articolo mette in evidenza non solo come il Colosseo Quadrato abbia lo stesso valore iconico del suo antenato di epoca romana e sia da prediligere come sfondo a un evento spettacolare, ma anche come sia possibile creare una linea di collegamento fra la Roma l’Esposizione Universale e la Roma moderna. Oddi rileva inoltre la sinergia tra calcio e moda, ricordando che nel 2013 il gruppo Fendi aveva firmato un contratto con l’Ente EUR per affittare il Colosseo Quadrato, restaurarlo e utilizzarlo come sede e che aveva stipulato un accordo per la fornitura delle divise ufficiali della squadra di calcio della Roma (Oddi, 2022).

Luca Capuano, Eur, fotografia colore, 2023

La presentazione di Dybala ha intrecciato sport, moda, spettacolo, immaginario collettivo, monumenti romani e patrimonio architettonico fascista in un groviglio inestricabile e alquanto problematico, che rivela l’ambigua posizione dei monumenti di epoca fascista nell’Italia contemporanea. Sarebbe sbagliato, infatti, ritenere che il Palazzo della Civiltà Italiana sia ormai completamente privo di qualsiasi connotazione ideologica. È proprio la sintesi tra antichità romana e modernità italiana attuata dal modernismo architettonico fascista a costituire ancora oggi l’essenza del valore estetico dell’edificio. Progettato da Giovanni Guerrini, Ernesto Bruno La Padula e Mario Romano e inaugurato nel 1940 come fiore all’occhiello del quartiere EUR, il Palazzo della Civiltà Italiana fu costruito per ospitare l’Esposizione Universale di Roma del 1942 (E42), che avrebbe dovuto celebrare il ventennale della Marcia su Roma e il regime fascista (Ciucci 2002, 179-85). L’Esposizione non ebbe luogo a causa della guerra e il quartiere fu ampliato e completato nei decenni successivi al conflitto.

Il portato simbolico dell’EUR all’epoca della sua costruzione è innegabile. Secondo Giorgio Ciucci l’E42 doveva essere “il segno della Roma di Mussolini, l’immagine della città rappresentativa del regime fascista, complemento e completamento della capitale” (2002, p. 181). Paolo Nicoloso a sua volta osserva che all’altezza dei primi anni Quaranta all’architettura si chiede di intervenire con incisività nel processo di fascistizzazione e di farsi strumento di identificazione e di educazione nazionale, simboleggiando i miti del fascismo, in particolare quello potente della romanità, capace di colpire in profondità l’immaginario popolare: «in quell’architettura ci si deve facilmente riconoscere, si devono ritrovare i caratteri essenziali, eterni, universali della civiltà italiana, si deve cogliere il legame indissolubile tra la modernità del presente regime e la tradizione romano antica […] L’architettura dell’E42, per rispondere alle istanze di una politica totalitaria deve essere anzitutto rivolta alle masse, comprensibile ai più e non selettiva. Deve servire per comunicare al popolo» (Nicoloso, 2008, p. 229).

Il Palazzo della Civiltà Italiana, così come tutto il quartiere EUR, è dunque un veicolo indiscusso dei valori sostenuti e trasmessi dal fascismo. Ciononostante l’edificio non sembra essere considerato parte del difficult heritage del fascismo, ovvero, secondo la definizione di proposta da Sharon Macdonald, un passato che è riconosciuto come significativo nel presente, ma che è anche contestato e scomodo per la riconciliazione pubblica con un’identità contemporanea positiva e autoaffermante (Macdonald, 2009). Se alcuni edifici del periodo fascista hanno infatti subito una irrevocabile damnatio memoriae (si pensi all’ex Casa del Fascio di Predappio) (Storchi, 2019), altri, come il Palazzo della Civiltà Italiana, sembrano essere stati esclusi da tale condanna. In tal senso Vittorio Vidotto, riferendosi a Piazza Venezia, osserva che mentre alcuni siti sono così strettamente associati al fascismo che non è più possibile usarli come spazi pubblici nella Roma repubblicana, l’eredità dell’EUR è diversa, in quanto il quartiere «appartiene al fascismo solo come ideazione, poiché la sua realizzazione si completa negli anni Cinquanta grazie alla trasformazione in grande centro direzionale. Proprio la sua nuova fruibilità posteriore ne ha stemperato il carattere originario privilegiandone la qualità architettonica e urbanistica» (Vidotto, 2008, p. 169). 

Fondamentale in questo processo di stemperamento è l’enfasi sulle qualità estetiche di alcuni lasciti artistici e architettonici del fascismo, che ha risemantizzato monumenti destinati a glorificare il regime fascista e a trasmetterne i messaggi ideologici, rimuovendone la componente politica e risignificandoli nell’immaginario nazionale. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale la percezione pubblica del quartiere EUR – e in particolare del Palazzo della Civiltà Italiana – così come di altri esempi di architettura fascista, è stata costruita su narrazioni multiple, le quali, spesso nell’intento di neutralizzarne la potenziale carica ideologica all’interno dell’Italia repubblicana, come si vedrà, hanno ripetutamente mobilitato marcatori identitari consolidati e connotazioni artistiche positive che ne hanno offuscato il significato originario, altamente politico. Questi edifici si sono così trasformati in monumenti deproblematizzati, associati nell’immaginario collettivo ai valori estetici del classicismo, al patrimonio architettonico dell’antica Roma e all’arte italiana del primo Novecento (in particolare la pittura metafisica di Giorgio de Chirico, come si vedrà, viene ripetutamente utilizzata come termine di paragone per l’architettura del periodo fascista). È stata applicata in questi casi quella che è stata definita “l’eccezione estetica” (La Cecla, 2017, p. 185), ovvero il riconoscimento in un’opera d’arte di una qualità trascendente, radicata in un’identità europea di ascendenza greco-romana, che le permette di attraversare i secoli e risignificarsi perennemente. Tali narrazioni sono strumentali alla creazione del concetto di patrimonio culturale e dei suoi valori e all’interpretazione del senso del luogo che trasmettono. A questo proposito studi recenti hanno rilevato come i fondamenti critici di concetti quali il “senso” e lo “spirito” del luogo e il “genius loci” siano il risultato di una complessa stratificazione di patrimonio naturale, culturale, costruito, intangibile e locale, sovrapposti e interagenti l’uno con l’altro, e che collegano l’ambiente fisico con quello socio-economico e culturale (Madgin e Lesh, 2021). Ovvero, come osserva Viviana Gravano sulla scia di Benedict Anderson e Eric Hobsbawm, concetti come nazione, tradizione e, vogliamo aggiungere, patrimonio culturale – che di tali concetti identitari vuole essere espressione simbolica – sono creati con processi «immaginifici, collettivi, culturali», in cui l’estetica gioca un ruolo fondamentale (Gravano, 2024, pp. 44-45). Esplorare queste narrazioni consente di riflettere sulla costruzione degli immaginari relativi ai monumenti di epoca fascista e, come rileva Anna Iuso, sulle collettività che si costruiscono sul senso di appartenenza a questi luoghi, sui valori e i temi che essi promuovono, e sulla costruzione sociale del passato che sollecitano (Iuso, 2021, p. 205). 

In riferimento al Palazzo della Civiltà Italiana la questione identitaria e l’idea del genius loci emergono ripetutamente nelle interpretazioni contemporanee dell’edificio. In un volume pubblicato per celebrare l’acquisizione del Palazzo della Civiltà Italiana da parte di Fendi, Franco La Cecla descrive il Palazzo come «il secondo simbolo più forte di Roma», un edificio che riassume «secoli di storia artistica e architettonica, spesso combinati e incrociati tra loro», ma soprattutto come «un simbolo che abbiamo introiettato» (2017, p. 14) [1]. Riguardo alla storia del monumento, si legge che lo scopo e l’obiettivo per cui era stato concepito nel 1942 dovettero essere subito abbandonati, «travolti dalla guerra, dalla caduta dell’intero regime e dalla necessità del Paese di voltare pagina. Eppure nell’immaginario che ha assorbito il ‘Colosseo Quadrato’ non c’è nulla di tutto questo. Ad esso è stato invece attribuito un significato del tutto nuovo, dopo che il suo significato originario era stato completamente svuotato. Per un lungo periodo di tempo l’edificio è stato vuoto, sia fisicamente che simbolicamente. Ma invece di farlo dimenticare, esso è diventato disponibile per i sogni collettivi. […] il fatto che [il Colosseo Quadrato] non abbia mai svolto la funzione per cui era stata concepito ha permesso che fosse abitato dalle immaginazioni che sono venute dopo, dal dopoguerra al presente. Il suo vuoto ha impregnato il sogno del futuro […] L’uso e il significato sono spostati, la traduzione e la disponibilità si muovono in direzione di un nuovo significato e di un nuovo potenziale» (La Cecla, 2017, pp.70-71). 

È una narrativa a cui è difficile resistere: un edificio inizialmente concepito – ma mai utilizzato – per ospitare una mostra che intendeva glorificare un regime dittatoriale, violento e coloniale, viene spogliato delle sue iniziali connotazioni politiche e ideologiche e si trasforma invece in un oggetto dell’immaginario, un contenitore di glorie passate, visioni presenti e sogni futuri, grazie alla sua iconicità, la quale riverbera all’infinito echi storici e artistici che attraversano il corso dei millenni e si radicano profondamente nell’immaginario collettivo. La chiave di questa trasformazione narrativa, che permette di sottrarre l’edificio alle associazioni politiche del momento in cui è stato progettato e costruito, è il suo presunto carattere “classico”, che  trascende ogni storicità: una qualità estetica depoliticizzata, perennemente valida e rassicurante, che richiama concetti di serena monumentalità, calma magnificenza, ordine geometrico e genealogia romana e che soprattutto mobilita un messaggio identitario, reiterato dall’appello alle virtù secolari del popolo italiano, evocate dal motto della facciata: “un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori”. Questa frase, citazione dal discorso mussoliniano di dichiarazione della guerra contro l’Etiopia, è stata depurata dal significato originario, violento e coloniale, ed è stata reinterpretata come simbolica del secolare spirito del luogo che il Palazzo della Civiltà Italiana intende incarnare, come dimostrato dall’installazione luminosa della ditta Viabizzuno commissionata da Fendi nel 2015 e creata da Mario Nanni per il  Palazzo, intitolata appunto Genius loci. Il compito dell’installazione era quello di estrapolare questo genius loci, intrinsecamente espresso dall’edificio, evidenziando i richiami alla prospettiva rinascimentale e alla pittura metafisica e connettendo l’origine dell’edificio e le sue caratteristiche estetiche con la virtù del “saper fare” italiano di cui Fendi rappresenterebbe i valori  (Acquarelli, 2021; 2024).

L’acquisizione da parte di Fendi rappresenta il culmine del processo di risignificazione – e defascistizzazione – del Palazzo della Civiltà Italiana. Già a partire dai decenni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, il quartiere dell’EUR appare in numerosi film (Zambenedetti, 2010; Acquarelli, 2021). Si ritrova già nello sfondo di Roma città aperta (1945) o come inquietante scenario del malessere borghese in L’eclisse di Michelangelo Antonioni (1962) e viene ripetutamente utilizzato da Federico Fellini, in particolare ne La dolce vita (1960) e ne Le tentazioni del dottor Antonio (episodio del film Boccaccio ’70 del 1962). Quest’ultimo colloca le bianche geometrie del Palazzo della Civiltà Italiana di notte come sfondo alla presenza sensuale di Anita Ekberg, creando l’illusione di un palcoscenico onirico. 

Fellini ha avuto un ruolo sostanziale nella risemantizzazione dell’EUR, e non solo con i suoi film: in un documentario prodotto dalla RAI nel 1972, intitolato Fellini e… l’EUR (parte di una serie di documentari intitolati Io e… in cui scrittori, registi e artisti si confrontano con opere d’arte e di architettura) il regista parla a lungo del suo fascino per il quartiere, di cui afferma di amare la qualità artistica, che ha qualcosa di “metafisico”. Fellini riconosce l’aspetto performativo dell’EUR, ma lo destoricizza, riducendolo ad una dimensione puramente estetica che ne neutralizza la realtà storica e materiale. Secondo il regista l’EUR emana un senso di transitorietà che lo accomuna al palcoscenico di un teatro o a uno studio cinematografico. Lo definisce un quartiere “senza storia” e ne riduce il potenziale simbolismo politico in epoca post-bellica al fascino di un quartiere “decadente”, di un “sogno folle interrotto”: è  “come abitare nella dimensione di un quadro […] Ha un’atmosfera liberatoria, in quanto in un quadro non esistono leggi se non quelle estetiche. Sono case vuote, edifici creati per fantasmi, per statue”. La sua modernità offre il rassicurante conforto del già conosciuto: «sembra futuribile, ma […] un futuro che non angoscia, perché è già scontato, un po’ dalla pittura metafisica, un po’ dai racconti di fantascienza, un po’ anche dai fumetti […] una proiezione in un futuro già addomesticato […] Anche questo dà quella sensazione di conforto […] di protezione» (Fellini e… l’EUR, 1972).

Due anni dopo, nel 1974, Pier Paolo Pasolini compie una simile operazione destoricizzante rispetto all’architettura del fascismo in un documentario realizzato per la stessa serie della RAI e intitolato La forma della città, in cui si sofferma sulla città di Sabaudia, fondata dal regime e inaugurata nel 1934. Secondo Pasolini l’architettura di Sabaudia non ha nulla di irreale o ridicolo. Il passare degli anni ha fatto sì che l’architettura di “carattere littorio” assumesse una qualità al tempo stesso “metafisica” e “realistica”: metafisica, come nella pittura di de Chirico, e realistica, perché queste città erano fatte “a misura d’uomo”. L’incantevolezza di una città fascista come Sabaudia, spiega Pasolini, è che pur essendo stata costruita dal regime, non aveva nulla di fascista, a parte alcuni caratteri esteriori. I fascisti erano stati criminali al potere che però non erano riusciti a scalfire la realtà dell’Italia. Sabaudia, pur essendo stata costruita dal regime secondo certi criteri razionalisti, affondava le sue radici in una realtà italiana che il regime non era stato in grado di intaccare: una realtà provinciale, rustica e paleo-industriale (Pasolini e… La forma della città, 1974).

L’interpretazione dell’architettura razionalista come sito di nostalgia pre-industriale, che che pur conserva i caratteri di una modernità non minacciosa, mediata dalle forme riconoscibili e confortanti dell’arte metafisica, deliberatamente neutralizza il portato ideologico di questi edifici, aprendo  la strada a forme di riappropriazione e reinterpretazione culturale. Come Fellini, anche Pasolini, appellandosi a un passare del tempo destoricizzante, decontestualizza l’architettura fascista, sottraendola al suo significato politico originario e risignificandola esteticamente tramite il richiamo al linguaggio artistico della pittura metafisica, la quale viene a sua volta svuotata del senso di inquietudine e di enigma epistemologico che la sottende e reinterpretata nel quadro confortante di un neoclassicismo apolitico. La neutralizzazione dell’elemento ideologico inerente all’architettura fascista attuata attraverso l’associazione con la pittura dechirichiana necessita il riposizionamento sia dell’estetica fascista che di quella metafisica, risintetizzandole in interpretazioni decontestualizzate di cui si conserva solo l’elemento formale. 

Una simile operazione viene compiuta nel 1984 Alberto Moravia, il quale, in una Nota sull’Agro Pontino, ritorna sull’architettura delle città nuove di Latinia, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia, riconoscendo al loro stile valori propriamente fascisti, quali “il dinamismo, la potenza, la autorità, l’ordine, la forza”, che definisce “del tutto irrazionali”. Ciò nonostante tale stile presenta una sua visible razionalità «superfici lisce e squadrate, disadorne, monumentalità severa e funzionale, spazi urbani geometricamente delimitati» (Moravia, 2017, p. 353). Riguardo a Sabaudia e alle bonifiche dell’Agro Pontino, Moravia precisa che non intende soffermarsi sul passato, «ormai scontato e defunto», ma «sul motivo profondo per cui queste città in stile razionale non parlano alla ragione, bensì all’immaginazione, con il loro fascino melanconico ed echeggiante» (2017, pp. 353-54). Gli echi creati dall’architettura razionale sono ancora una volta quelli dechirichiani: le prospettive di Sabaudia, ad esempio, «evocano inevitabilmente le misteriose piazze di De Chirico» e l’architettura razionalista «crea, nella realtà storica dell’Agro Pontino, atmosfere ‘metafisiche’» (2017, p. 354). Ma l’eco dechirichiana ritorna indietro nel tempo: le piazze metafisiche evocano «un altro sogno tanto più grandioso di quello del colonialismo fascista, il sogno del rinascimento italiano» (2017, pp. 354-55). L’architettura fascista assume un carattere metafisico «perchè riflette qualche cosa che non c’è più o che avrebbe voluto esserci e non ci fu, cioè un’assenza, una velleità, un’aspirazione, insomma un sogno: il sogno della rigenerazione attraverso la volontà di potenza politica» (pp. 354-55). 

Nell’estetica delle città dell’Agro Pontino il nesso originario tra architettura razionale ed estetica metafisica, stabilito già negli anni Venti dagli architetti del Gruppo 7 (Storchi, 2024), viene riconfigurato nell’interpretazione di Moravia nei termini del “sogno fallito” dell’architettura razionale fascista. Si elude così il senso profondo e duraturo dell’architettura del fascismo: dichiarando il fallimento del sogno totalitario e quindi del significato intrinseco dell’architettura di regime, si esonerano le città di fondazione dal loro simbolismo originario, di cui diventano testimonianza solo come traccia di una perdita. Moravia crea dunque un corto circuito semantico fra razionalismo, fascismo, pittura metafisica e rinascimento, che disattiva il portato simbolico dell’architettura fascista, trattenendone esclusivamente la cifra stilistica.

Non sorprende quindi che, dopo decenni di reinterpretazioni volte a minimizzare l’impatto ideologico dell’architettura del regime,  nel 2015, alla domanda di una giornalista del quotidiano inglese The Guardian sulla scelta problematica di ospitare la sede di Fendi in un ex edificio fascista quale il Palazzo della Civiltà Italiana, l’allora amministratore delegato della casa di moda, Pietro Beccari, abbia risposto: «Cosa dovrei dire? Per me non è un problema. Per i romani è un non problema. Per gli italiani è un non problema. Questo edificio va oltre la discussione politica. È estetica. È un capolavoro di architettura. […] Per gli italiani e per i romani, è completamente scaricato, vuoto di qualsiasi significato di quel periodo […] non c’era nessuna attività politica che si svolgeva qui. Non l’abbiamo mai visto attraverso la lente del fascismo» (Kirchgaessner, 2015) [2].

La continua e intenzionale risignificazione a cui Palazzo della Civiltà Italiana è sottoposto nell’immaginario pubblico, soprattutto dopo l’acquisizione da parte di Fendi, si ritrova nella commento alla mostra dello scultore Arnaldo Pomodoro Il grande teatro della civiltà, tenutasi presso il Palazzo nel 2023. Qui si commenta come “ridisegnando l’architettura stessa del Palazzo della Civiltà Italiana come archetipo alterabile, le quattro Forme del mito risignificano l’edificio, trasformando il cosiddetto ‘Colosseo Quadrato’ – simbolo del Modernismo e del Razionalismo italiano, per non parlare dell’architettura dell’EUR di epoca fascista – in un’opera aperta, che, come un’opera teatrale riproposta, può essere reinterpretata, spogliata di un’interpretazione definita e lineare”. 

Il Palazzo della Civiltà viene così trasformato in un’opera aperta, costantemente risignificata e reinterpretata, al di là del suo originario portato ideologico. Il dato estetico e l’iconicità dell’edificio, attivando strategie di identificazione e riconoscimento, hanno permesso reinterpretazioni multiple che ne trascendono la politicità. Sembra dunque che il genius loci che il Palazzo della Civiltà Italiana intende rappresentare non si esprima tanto – o non solo – nelle virtù secolari del popolo italiano, esaltate nel motto della facciata, ma nell’essenza stessa della sua dimensione estetica e nei valori che simbolizza, tra cui quelli di una classicità che, partendo dall’antichità romana, passando per il rinascimento fino ad arrivare al razionalismo, è sempre stata associata con l’identità profonda della civiltà italiana attraverso i secoli. 

Sembra dunque che alcuni edifici del regime fascista problematizzino il concetto di difficult heritage. Questi monumenti non vengono percepiti in maniera contestata o dissonante: lungi dall’essere scomodi, appaiono trasmettere invece significati utilizzabili per la creazione di un’identità contemporanea positiva e autoaffermante, per usare le parole di Sharon Macdonald (2009). Nel caso degli edifici del fascismo sembra che gli stessi stilemi della classicità, utilizzati dal regime in senso identitario per inculcare nei cittadini italiani i propri miti fondanti, siano usati in senso altrettanto identitario nel presente per esonerare l’architettura fascista esattamente dall’ideologia che la loro forma intendeva glorificare. 

Nicoloso osserva che l’architettura del fascismo non era pensata solo per lasciare ai posteri un ricordo positivo del regime, ma per continuare a produrre sistemi semantici identitari. Il fascismo attua un’imponente campagna edificatoria e pedagogica che non si arresta con la fine del conflitto, ma che va pensata all’interno di un processo di lungo termine nella prospettiva della nation building. In tale contesto le opere architettoniche del regime partecipano in modo determinante alla costruzione del paesaggio italiano, creando un patrimonio visivo comune che produce cultura e diventa una componente importante nella formazione dell’identità italiana (Nicoloso, 2012, pp. 10-11). 

Se dunque vogliamo accogliere l’invito di Luca Acquarelli a parlare di estetizzazione del politico per comprendere il fascismo e attuare una «politica del contemporaneo che continui a lavorare le faglie del passato attraverso le increspature dell’adesso» (2018), dobbiamo riflettere su quei valori identitari di cui il fascismo si è appropriato e che ha comunicato attraverso l’estetica per attuare il consenso nella costruzione della nazione totalitaria. Come ci ricorda Giuliana Pieri sulla scia di Susan Rubin Suleiman (Pieri, 2024), siamo plasmati dalle storie che raccontiamo sul nostro passato e queste narrazioni influenzano il nostro senso di chi siamo. Se l’identità nazionale è legata a una comunità immaginata, il modo in cui la comunità nazionale immagina e racconta il proprio passato è di fondamentale importanza per il modo in cui la nazione modella il proprio presente e futuro.

Note

[1] Traduzione dall’inglese a cura di Simona Storchi.
[2] Traduzione dall’inglese a cura di Simona Storchi.

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Simona Storchi è docente di letteratura e cultura italiana all’università di Leicester (Regno Unito). Si occupa di cultura del primo Novecento e dei rapporti fra fascismo e cultura, privilegiando metodologie d’approccio interdisciplinari. Fra le sue pubblicazioni recenti il volume Massimo Bontempelli e la cultura italiana fra le due guerre. L’intellettuale, il fascismo, la modernità (Mimesis, 2024); ‘The ex Casa del Fascio in Predappio and the question of the “difficult heritage” of Fascism in contemporary Italy’, Modern Italy, 24.2 (2019).