§Fascismi
Parole vietate, pensieri vietati.
Memoria, solidarietà e lezioni da disimparare a Berlino.
di Vittoria Caradonna

Repressione dura, repressione morbida

Un’altra manifestazione per la Palestina a Berlino, ho freddo e devo trovare un bagno. È già buio e il corteo attraversa una zona della città molto più benestante di quella da cui è partito. Qui nessuno applaude dai balconi, ho la sensazione invece di essere osservata da dietro tende chiuse. Per uscire dal corteo, trovare un bagno e poi tornare indietro, mi devo incuneare tra gli agenti di polizia.

In Germania, la polizia si mantiene vicina ai fianchi esterni della manifestazione. Mi sono spesso trovata a camminare con amici da un lato e con un poliziotto in tenuta antisommossa, o almeno con manganello e pistola, dall’altro. 

E così, ancora una volta, mi trovo a fare un piccolo salto per attraversare la linea della polizia, e un altro per rientrare. Non mi abituerò mai all’assurdità di poter quasi toccare il mio privilegio razziale e di classe ogni volta che entro e esco da un corteo senza essere fermata, interrogata o toccata. 

La polizia filma continuamente: punta le telecamere sui manifestanti ma anche su chi mostra sostegno dalle finestre. Catturano dettagli – colore dei capelli, tatuaggi, occhiali – per future identificazioni. Alcuni slogan, come “From the river to the sea, Palestine will be free,” sono vietati, e gli interpreti corrono accanto alla polizia per tradurre parole potenzialmente incriminanti. Recentemente, una nuova direttiva impone l’uso esclusivo del tedesco e dell’inglese nelle proteste.

Sono alla manifestazione eppure non ci sto mettendo dentro tutto il mio corpo. Me ne andrò prima che la situazione si surriscaldi. Perché so, ormai lo sappiamo tutti, che quando una voce calma e disincarnata  dagli altoparlanti annuncerà la fine del corteo, i poliziotti inizieranno a inseguire le persone, placcarle, trascinarle via. E non voglio assistere in disparte alla coreografia della repressione che lo Stato tedesco mette in scena – ancora e ancora. La prevedibilità di questa dimostrazione di forza sarebbe quasi comica, se non fosse per la stanchezza che lascia dietro di sé.

Lotta fra scritte sui muri di Berlino

Mobilitarsi per la Palestina in Germania significa abituarsi a un’intimità forzata con l’apparato repressivo dello Stato: la “repressione dura” durante le proteste di strada è ottenuta attraverso “l’uso o la minaccia della violenza”, e la “repressione soft” attraverso mezzi non violenti volti a mettere a tacere le voci di dissenso (Max Ferree, 2004 in Della Porta, 2024, p.285). Lontano dalle strade, la “repressione soft” si traduce nella chiusura di organizzazioni culturali e luoghi di aggregazione tramite il taglio dei finanziamenti; nella cancellazione di offerte di lavoro e di contratti, nell’annullamento di eventi e nella revoca di premi. Nelle scuole e nelle università, gli studenti che protestano contro il genocidio a Gaza sono sottoposti a misure disciplinari (Younes e Al-Taher, 2024) [1]

Il clima odierno di autocensura, sorveglianza e intimidazioni precede il 7 ottobre 2023, ma da allora si è intensificato. Questo tipo di repressione, più morbida ma non meno oppressiva, provoca la sensazione palpabile che i limiti di ciò che si può dire e fare politicamente stiano collassando su se stessi. Sull’occupazione della Palestina e la violenza contro i manifestanti in Israele, Stati Uniti e in Europa prevale una forma particolare di indicibilità che viene giustificata con l’idea che la responsabilità storica per l’Olocausto si traduca ora nell’obbligo dello stato tedesco di schierarsi a difesa di Israele.

Per fare luce sulle crepe all’interno di un regime del ricordo che è coerente solo in superficie, questo testo si sposta dal rumore della manifestazione a due luoghi molto diversi negli obiettivi e nella sostanza, ma simili nella quiete che li abita: il progetto Luoghi della Memoria nel quartiere bavarese (Orte des Erinnerns im Bayerischen Viertel) e il Memoriale della Resistenza Tedesca (Gedenkstätte Deutscher Widerstand – GDW). Attraverso brevi descrizioni delle mie visite a questi luoghi, indago il divario tra due momenti distinti nella costruzione della cultura della memoria tedesca. Il GDW rappresenta l’esito di un percorso compiuto e offre una narrazione ormai consolidata. Il memoriale nel quartiere Bavarese incarna invece un percorso avviato ma poi interrotto, un modo di ‘fare memoria’ che continua a conferire legittimità e prestigio al “modello tedesco” di commemorazione, anche molto tempo dopo aver smesso di sollevare interrogativi scomodi.


Lo Stato come carnefice

Nel 1993, il progetto Orte des Erinnerns creato dal duo di artisti Renata Stih e Frieder Schnock è stato inaugurato a Schöneberg, quartiere berlinese un tempo abitato da oltre 16.000 residenti ebrei, tra cui Albert Einstein, Hannah Arendt ed Erich Fromm. L’iniziativa, promossa dal Senato di Berlino, era nata da gruppi di cittadini che avevano cominciato a ricercare la storia della comunità ebraica locale.

Sottotitolato Esclusione e privazione della libertà, espulsione, deportazione e assassinio degli ebrei berlinesi negli anni dal 1933 al 1945, il memoriale si compone di ottanta pannelli bifacciali montati sui lampioni attorno a Bayerischer Platz. Un lato mostra un’icona stilizzata; l’altro, un frammento di testo in tedesco. In basso, una targa con il titolo del progetto. La mia prima visita non era programmata: mi trovavo in zona e ancora prima di raggiungere la piazza, le icone dai colori vivaci hanno subito catturato la mia attenzione. Ogni pannello indica un decreto nazista volto a intaccare l’umanità degli ebrei tedeschi e a produrre un’immagine di inferiorità. Prima delle deportazioni, prima dei campi di sterminio, una lenta morte sociale.

I pannelli documentano la progressiva introduzione delle leggi antisemite a partire dall’ascesa al potere di Hitler, il 30 gennaio 1933. Inizialmente furono imposti divieti professionali (Berufsverbote) e altre forme di esclusione o boicottaggio. Alcuni provvedimenti, parte di quella che Goebbels definì una “politica del caos organizzato”, proibivano agli ebrei di cantare nei cori, nuotare nei laghi, acquistare libri, decidere quando fare la spesa o dove sedersi in una piazza pubblica. Dopo cinque anni di esclusione e disumanizzazione, il pogrom della Notte dei Cristalli, avvenuto tra il 9 e il 10 novembre 1938, non suscitò proteste su larga scala. A questo seguì la spoliazione sistematica dei diritti sociali e delle proprietà. Nel quartiere bavarese sorsero le cosiddette Judenhäuser, edifici angusti dove più famiglie furono costrette a vivere insieme in stanze singole in attesa della deportazione.

Vista e dettagli del pannello Busta per lettere. Invece di un decreto, riporta un frammento di una lettera. Il testo recita: “è giunto il momento, domani dovrò partire e per me, naturalmente, è assai doloroso;…ti scriverò. Prima della deportazione, 16/11/1942”

Dopo la guerra, la Repubblica Federale Tedesca (RFT) cercò di esternalizzare i crimini nazisti, presentandoli come azioni di un gruppo distinto e separato dai “tedeschi ordinari,” raffigurati come una «comunità di vittime» (Siebeck, 2016, p. 264). Il processo di denazificazione guidato dagli Alleati fu progressivamente diluito in una narrazione incentrata sulle sofferenze del popolo tedesco. Le iniziative per risarcire le vittime del nazismo, fortemente contestate, furono guidate da «una logica reattiva che serviva gli obiettivi del riconoscimento internazionale e dell’integrazione con l’Occidente» (ibid.). I In questo contesto, l’anticomunismo fu anteposto alla commemorazione dell’Olocausto, e i primi memoriali dedicati alle vittime nacquero per iniziativa della società civile, come «progetti controculturali» (Siebeck, 2016, p. 263) [2]. Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, fu un lavoro sulla memoria nato dal basso a iniziare a mettere sistematicamente in discussione i lasciti della dittatura nazista e le rimozioni che avevano segnato la Germania occidentale nel dopoguerra.

Il cosiddetto movimento dei laboratori di storia (Geschichtswerkstättenbewegung) diede origine, a partire dagli anni ’80, a una serie di iniziative esplicitamente di sinistra, volte a costruire «archivi alternativi» e a «esaminare la storia locale dal basso» (Wüstenberg, 2021, p. 264). Fu solo dopo la riunificazione che l’idea di colpa collettiva cominciò a radicarsi nella cultura della memoria tedesca. Tuttavia, come osserva Cornelia Siebeck, la “teleologia antitotalitaria” emersa dopo il 1990 si fondava sull’idea che la Repubblica Federale avesse già interiorizzato la lezione “corretta” dall’era nazista: con la caduta della dittatura comunista, lo «Stato nazione tedesco» riunificato nasceva già «moralmente purificato» (Siebeck, 2016, p. 270).

Al momento della progettazione del memoriale nel quartiere Bavarese, questa teleologia post-riunificazione non era ancora pienamente consolidata. La maggior parte dei resoconti sull’origine del progetto si concentra sulle riflessioni di Renata Stih e Frieder Schnock durante la fase preparatoria. Due episodi, in particolare, sono spesso ricordati: durante l’installazione del primo cartello, qualcuno urlò da una finestra “Andate via, maiali ebrei”; più tardi, alcuni residenti scambiarono le leggi naziste riportate sui pannelli per messaggi attuali, spingendo la polizia a rimuoverne alcuni. Per quanto inaspettate, queste reazioni erano in linea con l’intento degli artisti di creare un’opera che «interferisse con la vita quotidiana» (Schnock in Perman, 2007) e rimanesse «scomoda» (Stih in Johnson, 2013).

I cartelli sono montati in direzioni alternate: sulla stessa strada, alcuni passanti vedranno l’immagine, mentre altri vedranno il testo di accompagnamento. Per vedere entrambi i lati, i visitatori devono fermarsi e camminare intorno a ciascun pannello. Come nota Caroline Wiedmeier, ciò significa scegliere tra «una doppia visione o un insieme di mezze verità» (1999, p.120). Il memoriale si basa sulla tensione tra sapere e non sapere, e sulla serie di scelte che sta dietro a entrambe le opzioni. In un certo senso, il progetto materializza, anticipandolo, il concetto di “soggetto implicato” di Michael Rothberg, in quanto pone domande su coloro che «contribuiscono, abitano, ereditano o beneficiano di regimi di predominio, ma non sono all’origine o non controllano questi regimi» (2019, p. 1). Complicare il triangolo “vittima-complice- carnefice” è importante per far luce sul posizionamento complesso delle “persone comuni” durante un regime e successivamente alla sua caduta.

In effetti, l’identificazione pedagogica con i colpevoli è considerata un successo della cultura della memoria tedesca. Eppure, mentre mi sposto da un pannello all’altro, traducendo mentalmente ogni frase, un’altra figura prende forma davanti ai miei occhi: il “mandante dietro i carnefici”, lo Stato stesso. Nelle società post-fasciste, commemorare la violenza di Stato non dovrebbe essere un tabù. Se da un lato è fondamentale concentrarsi sulle microstorie e sui livelli individuali di responsabilità, dall’altro è altrettanto necessario interrogarsi sulla continuità nei meccanismi con cui lo Stato esercita violenza e repressione contro i propri oppositori. Questo tipo di riflessione non implica né una banalizzazione del fascismo, né paragoni semplicistici o impropri. Il memoriale nel quartiere bavarese offre una cronologia di quanto tempo ci voglia affinché la disumanizzazione diventi normalizzata. Il lavoro sulla memoria che ha reso possibile questo e altri progetti mantiene aperto uno spazio critico in cui mettere in discussione un potere autoritario anche quando si cela dietro il linguaggio della legge e dell’ordine. Ed è proprio per questo che può ancora rappresentare una risorsa preziosa per il presente.


Riverberi coloniali e opportunità politiche

Donatella Della Porta (2024) evidenzia come la repressione dei movimenti sociali si fondi su un “panico morale”, attraverso il quale le lotte degli attivisti vengono dipinte come minacce ai valori fondamentali della società. In Germania, questa dinamica si inserisce in un contesto politico in cui tutti i principali partiti, settori della società civile e mass media convergono su «una memoria ufficiale selettiva e formalizzata» (Della Porta 2024, p. 281), che impiega il ricordo dell’Olocausto per ancorare la sicurezza di Israele come pilastro della ragion di Stato tedesca .

La funzione politica di rappresentare l’Olocausto come evento unico nella storia si è trasformata nel tempo. Come mostra Rothberg (2020), negli anni Ottanta questa idea venne usata contro critici conservatori che cercavano di relativizzare le colpe del nazismo contrapponendolo allo stalinismo [3]. In seguito, l’enfasi sul paradigma dell’unicità è diventata uno strumento per «sorvegliare i confini di quella che viene goffamente chiamata ‘critica di Israele’» (Rothberg, 2020), distogliendo l’attenzione dalla storia coloniale della Germania, compreso il genocidio degli Herero e dei Nama e le complicità attuali nella spoliazione della Palestina. Analisi che mettono in luce le continuità tra colonialismo e Olocausto, radicate nella comune eredità della modernità e dell’impero, vengono liquidate come “studi postcoloniali, critical whiteness e intersezionalità” [4].

L’unicità dell’Olocausto «non serve solo come confessione, ma anche come rifiuto di confessare i crimini del colonialismo» (Fricke, 2023, p. 135). Questo rifiuto, che preserva la finzione di una modernità europea priva di colpe, attiva una «logica spaziale» (Veracini, 2024, p. 547): mentre una critica del colonialismo può trovare spazio in ambienti circoscritti come l’accademia, resta «non pronunciabile nei luoghi pubblici», segnati da «tabù specifici su ciò che può o non può essere detto» (ibidem). Concentrandosi esclusivamente sull’inammissibilità del paragone tra Olocausto e colonialismo, il dibattito tace su molte questioni cruciali. Tra queste, il fatto che ancorare la ragion di Stato tedesca alla sicurezza di Israele «estende la sovranità» della Germania e produce «riverberi coloniali chiaramente osservabili» (Veracini, 2024, p. 550). Del resto, nota Veracini, anche le potenze imperiali difendevano la propria ragion di Stato con la tutela dei loro interessi coloniali (ibidem). 

Della Porta (2024) rintraccia le “opportunità politiche e culturali” contenute in questo uso performativo del passato. Nel 2008, il famoso discorso di Angela Merkel sulla Staatsräson ha consolidato la “relazione speciale” tra Germania e Israele, ancorandola a una narrazione di espiazione per i crimini storici che sovrascrive e concilia retroattivamente una realtà molto più frammentata. Il vantaggio politico offerto dalla celebre Vergangenheitsbewältigung tedesca, il presunto “fare i conti con il passato”, è stato significativo. La principale prerogativa è stata poter rivendicare la leadership morale, politica ed economica della Germania all’interno dell’Unione Europea, nonostante la sua ricostituzione relativamente recente come stato. Questa narrazione ha anche facilitato la graduale erosione di tabù di lunga data sulla rimilitarizzazione tedesca e sull’impiego delle forze armate all’estero. 

Vecchie e nuove fantasie imperiali sono incanalate attraverso una forma di “nazionalismo dislocato”: le «aspirazioni nazionali» della Germania sono messe in atto attraverso «lo stato di Israele come supremazia per procura» che viene «preservata attraverso la sua proiezione su uno stato surrogato» (Jewish Currents, 2023). Quello che in definitiva è un progetto nazionalista e imperialista è dissimulato attraverso le “opportunità culturali” create da una versione strumentalizzata della memoria che confonde l’ebraismo con Israele. 

Questa posizione è condivisa da tutto lo spettro politico, anche da quella che un tempo era l’estrema sinistra. Leandros Fischer (2024) racconta come il movimento Antideutsch, che in origine si opponeva alla riunificazione, si sia spostato verso una forma di nazionalismo per procura incentrato sul sostegno incondizionato a Israele. Legittimando gli Antideutsche come una «componente del pluralismo di sinistra», i partiti di sinistra hanno normalizzato l’idea che l’antisemitismo sia separato dal razzismo, che viene concepito quindi in «termini puramente biologici» (Fischer, 2024) e estraneo a dinamiche più ampie come capitalismo, imperialismo e colonialismo. Questa visione crea un capro espiatorio in migranti, musulmani e, soprattutto, palestinesi, dipingendoli come intrinsecamente antisemiti. Persino ebrei critici del genocidio e dell’occupazione, inclusi ebrei israeliani, sono accusati di antisemitismo. Nel frattempo, i partiti di destra rimpastano il loro «particolare mix di antisemitismo tradizionale» (Della Porta, 2024, p. 334) con il sostegno a Israele, presentandolo come una lotta di civiltà contro l’Islam.

L’enfasi sull’unicità dell’Olocausto e sull’eccezionalità dell’esperienza tedesca ostacola il poter articolare questioni politiche in termini politici. Invece, invocando la figura della vittima ebrea, la politica viene traslata nella sfera della moralità. Hannah Tzuberi e Patricia Piberger osservano che, nell’era post-riunificazione, «il cittadino democratico e la figura dell’ebreo sono concepiti come se condividessero lo stesso spazio morale e politico», trasformando così la «nuova Germania» (Tzuberi e Piberger, 2022, p. 40) in una nazione al tempo stesso riconoscibile e con cui gli individui sono tenuti a identificarsi. Tuttavia, nel tentativo di rifondarsi come «comunità liberale, democratica e soprattutto antisemita», lo Stato tedesco produce «conseguenze illiberali e violente»: viene costruita la figura di un «nuovo antisemita» come minaccia costante (Tzuberi e Samour, 2022) [5].

Un «corpo collettivo musulmano» funge da controfigura del cattivo cittadino «perennemente tenuto a dimostrare la sua disposizione liberal-democratica e anti-antisemita» (Tzuberi e Piberger, 2022, p. 43). Dall’inizio degli anni 2000, in seguito alla riforma della legge sulla cittadinanza, sono stati introdotti programmi di educazione all’Olocausto rivolti a cittadini musulmani e migranti. Esra Özyürek (2023) mostra come i partecipanti, contravvenendo ai desideri di guide ed educatori, esprimano spesso le “emozioni sbagliate”: piuttosto che identificarsi con i carnefici, tracciano paralleli tra il passato nazista e le proprie paure di fronte alla violenza razzista, o con le condizioni che hanno spinto le loro famiglie a fuggire da Siria, Turchia o Palestina. Questa aspettativa di assumersi la colpa rientra nel “doppio vincolo” descritto da Michael Rothberg e Yasemin Yildiz (2011): se le minoranze razzializzate non interiorizzano la memoria dei colpevoli, la loro appartenenza viene messa in dubbio. Inoltre, poiché la presenza palestinese in Germania sfida il «ruolo di Israele come testimone legittimo degli emendamenti tedeschi», le loro voci sono sistematicamente silenziate (Fricke, 2023, p. 136).

L’attuale criminalizzazione di un movimento sociale eterogeneo rappresenta l’acutizzazione di un processo più ampio, in cui la memoria dell’Olocausto viene strumentalizzata per tracciare il confine tra cittadini “buoni” e “cattivi”. Ma anche per trasformare una nuova democrazia in una democrazia che si arma, per difendere se stessa e le altre democrazie militarizzate che compongono oggi l’Europa. In questo contesto, posizioni anti-imperialiste e internazionaliste – che includono, ma non si esauriscono nella critica al colonialismo d’insediamento in Palestina – sono state rese scandalose e bollate come “antisemitismo di sinistra” o “odio per Israele”. Intanto, lo spazio del dibattito pubblico si restringe sempre più, mentre la repressione, sia dura che soft, contro i palestinesi e chi esprime solidarietà cresce, alimentata proprio da questa condizione di indicibilità accuratamente coltivata.


Studenti e soldati

vista dell’ingresso del GDW, dettaglio dell’allestimento mostra permanente

Durante la mia prima visita al Memoriale della Resistenza tedesca, entro nel cortile proprio mentre una classe di scuola sta uscendo. Gli studenti si raccolgono intorno al loro insegnante, mentre un gruppo di ufficiali dell’esercito attraversa lo spazio, dirigendosi verso un ingresso oltre la statua di bronzo e la fila di alberi che incorniciano il memoriale. Il Centro condivide la sede – il Bendlerblock – con gli uffici del Ministero della Difesa. Questo complesso ha sempre avuto una funzione militare: durante il nazismo ospitava l’Ufficio Generale dell’Esercito e il Comando dei riservisti, e divenne il quartier generale del fallito attentato del 20 luglio 1944 contro Hitler, guidato da Ludwig Beck e Claus von Stauffenberg. Dopo il fallimento del colpo di stato, von Stauffenberg e i suoi complici furono giustiziati nel cortile [6].

Quando il monumento fu inaugurato nel 1953, la resistenza al nazismo era ancora vista in Germania Ovest come un «atto ostile contro lo Stato» (Langwald, 2021, p. 160). Tuttavia, il memoriale contribuiva a contrastare l’idea che tutti i tedeschi avessero sostenuto il regime, una narrazione dominante durante l’occupazione alleata. Il centro educativo fu aggiunto nel 1968, ma solo nel 1989 la mostra si estese ad altre forme di opposizione. Fino ad allora, solo la resistenza concepita dall’interno delle gerarchie naziste poteva essere commemorata senza sfidare il copione anticomunista della RFT. L’inclusione tardiva della resistenza comunista suscitò le proteste di storici, giornalisti e politici conservatori, tra cui il figlio di von Stauffenberg, Franz (Case, 1998).

La mostra permanente Resistenza al nazionalsocialismo, inaugurata nel 2014, si trova al secondo piano. Entro in un corridoio poco illuminato che conduce a uno spazio introduttivo dalle pareti grigie, in cui è illustrato il passaggio dalla Repubblica di Weimar alla dittatura. Dalla finestra, incorniciata da foto ingrandite delle parate naziste, osservo tre persone in uniforme attraversare il cortile sottostante.

Il percorso espositivo si apre con pareti in sfumature di blu: la prima sala è dedicata alla resistenza del movimento operaio; la seconda e la terza documentano l’opposizione di cristiani, artisti e intellettuali. Poi lo sfondo si fa verde: prima viene presentato l’attentato solitario di Georg Elser nel 1939, un falegname che tentò di uccidere la leadership nazista per impedire la guerra; seguono le sezioni sulla resistenza militare e sul complotto che culminò nel fallito colpo di stato del 1944.            

So di stare attraversando una mostra costruita con un preciso intento didattico, come afferma la dichiarazione curatoriale sottolineando l’importanza di un «lavoro educativo storico-politico completo basato sui diritti umani e sulla tolleranza come fondamento della democrazia e dello Stato di diritto» (Steinbach, Tuchel e Stiepani, 2014). L’ultimo riallestimento punta alla massima inclusione, con sale e pannelli organizzati per gruppi: operai, cristiani, artisti e intellettuali, accanto alla resistenza di ebrei, sinti e rom, gruppi giovanili, durante la guerra e l’esilio. Comprendo la logica di questa impostazione tematica: come in molte mostre ispirate alla museologia critica, si privilegia la complessità attraverso storie individuali e il «margine di azione del singolo nelle condizioni della dittatura» (ibid.). Tuttavia, non posso fare a meno di pensare che includere attraverso la categorizzazione – per affiliazione religiosa, politica o etnica – non porti a una rottura sufficiente con il sistema di oppressione che la mostra intende condannare.

Visito la GDW una seconda volta perché devo ancora vedere la mostra Eroi silenziosi (Stille Helden), riaperta nel 2018, sui tentativi di soccorso di ebrei perseguitati in vari paesi europei.

Quando arrivo, provo a mettere la giacca in un armadietto, ma la moneta si blocca. L’assistente alla reception mi aiuta e alla fine esce un gettone metallico inciso con “movimento identitario” (Identitäre Bewegung), gruppo di estrema destra attivo in Germania, Austria e Francia, legato anche a CasaPound. Chiedo se sia già successo, ma il dipendente, in servizio da cinque mesi, non lo sa. Più tardi, un altro membro dello staff mi racconta che durante i lockdown, quando il centro era chiuso, sono stati trovati volantini di gruppi anti-vax con materiale antisemita. Non mi sorprende: nonostante l’ossessione per l’“antisemitismo importato”, i crimini di matrice razzista e antisemita nascono nei movimenti della estrema destra tedesca.

Nonostante l’episodio, riesco a seguire parte della mostra. L’ultima sala, divisa in cinque pannelli, racconta le difficoltà dei sopravvissuti e di chi li aiutò nel dopoguerra. L’allestimento più scarno mi fa riflettere. Un pannello, “Ritorno ed emigrazione”, racconta la storia di Alice Löwenthal, che sopravvisse nascosta a Berlino tenendo per anni le chiavi del suo appartamento, nella speranza di tornare. Un altro testo racconta la fuga dell’artista Samuel Bak e di sua madre: temendo un “futuro nella dittatura sovietica”, fuggirono dalla Lituania “per emigrare in Palestina… passando per la Polonia e arrivando a Berlino con lasciapassare falsificati… Nel 1948, la famiglia riuscì finalmente a emigrare in Israele”.

dettaglio dell’allestimento, al centro sono visibili le chiavi di Alice Löwenthal

Queste storie che fanno emergere come la fine della guerra non coincide con la fine delle difficoltà sono isolate dal loro contesto: nel giro di una frase, la Palestina diventa Israele senza ulteriori spiegazioni, il sionismo è menzionato come credo, ma le sue implicazioni politiche restano inesplorate. Le chiavi, oggi simbolo del diritto al ritorno negato ai palestinesi, sono dietro un vetro e incapaci di parlare del presente. Tutto è rivestito dal tono neutro dell’istituzione, che invita all’introspezione e all’identificazione con i sopravvissuti e gli “eroi silenziosi”. Ma questo approccio pedagogico ha anche un altro effetto: l’enfasi sull’individuo e su azioni individuali finisce per estendere attributi umani anche alle istituzioni e allo Stato stesso – fatto, dopotutto, di persone. Il mostruoso Stato nazista, personificato in Hitler, muore con lui, solo per rinascere in una forma redimibile: colpevole, ma capace di riscatto. Intanto, le strutture e le ideologie che hanno creato e sostenuto lo stato-mostro sono state progettate per durare. Costruire una nuova identità nazionale su ciò che non si può o non si vuole dire è una scelta consapevole. Questo rimosso lascia spazio a chi, oggi, ha raccolto l’eredità del fascismo e la sta riattivando per nuovi fini.

Conclusione

Sto andando a una manifestazione contro l’imminente deportazione di quattro attivisti pro-Palestina. Accusati di reati minori, i loro ordini di deportazione citano esplicitamente come giustificazione la “ragione di Stato”. Tutti e quattro, due irlandesi, un polacc_ e un statunitens_, devono andarsene entro il 21 aprile 2025 o rischiano l’espulsione forzata. Mentre le deportazioni hanno preso di mira soprattutto palestinesi, afghani e curdi, è la prima volta che la minaccia viene usata contro cittadini dell’UE – una notizia che ha fatto il giro dei media internazionali.

Ascolto i discorsi, mi unisco ai cori e scruto la folla alla ricerca di volti familiari. Quindici minuti prima della fine, la polizia effettua il primo arresto. I cori continuano, ma la nostra attenzione si sposta verso il trambusto. Gli steward ci fanno segno di restare vicini e gli organizzatori offrono una scorta verso le fermate più vicine. Esito: restare potrebbe aiutare chi è più a rischio, ma sono sola, e non voglio trovarmi in qualcosa che non posso gestire. Con meno di cento persone rimaste e la polizia che si avvicina da entrambe le parti, decido di andarmene. Sto slegando la bici quando sento delle urla: una persona viene arrestata davanti a me, un nugolo di agenti la circonda. Mentre slego la mia bicicletta, sento delle urla e vedo uno sciame di agenti che corre verso di me: mi sorpassa per circondare e arrestare qualcuno. Una persona del servizio d’ordine urla: “Ihr seid peinlich! Siete imbarazzanti!”, mentre altri iniziano a filmare.

Questo testo non sarebbe stato lo stesso se scritto a distanza di sicurezza dalla realtà politica, emotiva e sensoriale della protesta. La violenza dello Stato e la censura da parte delle istituzioni e dei media non sorprendono. Esistono già archivi informali che documentano questo movimento e la repressione contro di esso: liste di eventi cancellati e relatori banditi, foto scattate durante i cortei prima e gli attacchi della polizia. Ciò che rende l’aria di Berlino particolarmente irrespirabile è il senso di isolamento: gran parte della società civile, e così tante parti della “sinistra”, rifiutano di prendere posizione. In tutta la Germania, la solidarietà con la Palestina è trattata come una questione a parte, soggetta a vincoli morali che diventano limiti al pensiero stesso, e fisicamente isolata da altre proteste, come quelle contro i tagli al welfare o contro il partito di estrema destra AfD. Quando una questione politica viene riformulata come questione morale e identitaria, ci si può ritrovare alle manifestazioni incerti su cosa pensano le persone intorno a noi. È solo una causa umanitaria per loro? Corrono dietro a fantasie nazionaliste? Quando parliamo di liberazione, intendiamo la stessa cosa? Con l’aumento delle misure autoritarie, la risposta a queste domande diventa più chiara: la resistenza contro l’oppressione – ovunque, in ogni forma – non può essere delegata, né ritagliata lungo bordi identitari. 

Note

[1] Tutte le traduzioni sono dell’autrice.
[2] La DDR si presentava invece come erede della resistenza antifascista, ma la sua memoria ufficiale trascurava le vittime ebree e l’antisemitismo.
[3] Questa evoluzione non è limitata alla Germania. Aline Sierp (2023) mostra come l’“europeizzazione” della memoria rispecchi i rapporti di forza interni all’UE: all’inizio incentrata sull’Olocausto, oggi privilegia la condanna di tutti i totalitarismi, ma continua a escludere il colonialismo.
[4] Heidrun Friese osserva come questo tipo di discorso rielabori codici antisemiti, evocando il “cosmopolita senza radici” che minaccia l’identità nazionale con l’alterità e la diaspora (Friese, 2025, p. 8).
[5] Insieme alle persone musulmane, anche i tedeschi dell’Est sono visti come “naturalmente” antisemiti e bisognosi di rieducazione. L’estremismo di destra nell’ex DDR è attribuito a un presunto ritardo nel fare i conti con il passato, oscurando la continuità di strutture razziste e fasciste nella polizia, esercito, partiti e servizi di intelligence di entrambe le Germanie (Tzuberi & Piberger, 2022, pp. 43–44).
[6] Le altre due sedi del GDW sono la Gedenkstätte Plötzensee, che commemora le vittime giustiziate dal regime nazista nel carcere omonimo, e il Museum Blindenwerkstatt Otto Weidt, che racconta la storia del suo impegno per salvare gli impiegati ebrei della sua azienda.

Bibliografia

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Vittoria Caradonna ha conseguito un dottorato presso l’Università di Amsterdam. La sua ricerca analizza i diversi modi in cui memoria e patrimonio culturale vengono utilizzati per articolare narrazioni e contro-narrazioni sulla cittadinanza e i suoi confini.