EXHIBITION
Sguardi sul processo percettivo e rappresentativo nel contemporaneo
a cura di Rossana Macaluso
con il contributo di Raffaele Gavarro, Alessandro De Vita, Mario Turci, Viviana Gravano, Lucilla Meloni, Maria Rosa Sossai, Angela Andreina Rorro, Giacinto di Pietrantonio

Nel 1942 Marcel Duchamp, in collaborazione con André Breton, Sidney Janis e R. A. Parker, realizza l’allestimento “Sixteen Miles of String” per la mostra First Papers of Surrealism, tenutasi al 451 di Madison Avenue a New York. Duchamp, che aveva già cominciato un processo di dissacrazione dell’opera e conseguentemente del “genio artistico”, con First Papers of Surrealism intende attivare una riflessione sul processo di fruizione dell’opera d’arte: un fitto intrico di fili (sedici miglia) tesi tra pavimento e soffitto dell’intera sala, una ragnatela che rende difficile, se non impossibile, la fruizione delle opere esposte. L’arte contemporanea va compresa non come rappresentazione del mondo, ma come parte del mondo, e lo spazio espositivo contemporaneo deve necessariamente adeguarsi al superamento del concetto di contemplazione. Duchamp sottolinea implicitamente che a definire l’opera d’arte, a renderla completa, è esattamente l’interazione tra opera e pubblico. Il concetto di fruizione, la cui attivazione spetta ai mediatori culturali, non a caso, è alla base della definizione che il Testo Unico sui Beni Culturali e Ambientali, contenuto nella normativa italiana, dà alla voce mostra, ovvero un “sistema di fruizione che consiste in esposizioni di […]”. Nel proliferare delle numerose mostre prodotte dal sistema culturale contemporaneo, l’obiettivo è non circoscrivere l’attenzione al solo oggetto culturale e artistico, ma al processo percettivo e rappresentativo.

Il “mostrare” dunque come processo, e non come prodotto in sé concluso, nato da un’azione curatoriale che mira alla nascita di nuove possibilità di senso:

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§ Raffaele Gavarro
Critico e curatore indipendente. Docente di “Storia e Teoria dei Nuovi Media” all’Accademia di Belle Arti di Roma

Se l’opera d’arte oggi è soprattutto un’esperienza del mondo nel quale l’artista vede solo “une promesse de bonheur” (T. W. Adorno, Teoria Estetica, 1970), una mostra non può che tentare di essere altrettanto. Una promessa di felicità? Ma in che senso può esserlo una mostra? È questo il problema che si dovrebbe porre il curatore.

Il sistema dell’arte contemporanea italiana vive uno dei momenti più delicati della sua storia, non tanto breve se consideriamo il nostro passato artistico come parte e fondamento del presente, ivi comprendendo storia del mercato, del collezionismo e del mecenatismo, nonché quella espositiva e curatoriale, naturalmente da intendersi nel loro differente costituirsi nei tempi che mutano.

La produzione espositiva museale è oggi ridotta ai minimi termini, depotenziata dalla mancanza di risorse e dalla conseguente riduzione delle possibilità progettuali, a fronte di una occasionalità e microparcellizzazione dalle quantità, ancora, piuttosto elevate.

La fenomenologia della curatela nazionale è di fatto qualificata in questi anni da provvisorietà e fragilità tanto ideativa che realizzativa, aggravata non secondariamente dalla cesura ormai definitiva con la riflessione critica. La mostra si è così trasformata nell’evento e il curatore nel suo organizzatore. Un fenomeno che prevede l’adeguamento ai modelli espositivi di maggiore successo della scena internazionale, naturalmente ripetuti quasi sempre per approssimazione. Un’involuzione che piuttosto che una “promessa di felicità” porta con sé una “promessa di facilità”, che è solo apparente e che infatti il pubblico non gradisce, come dimostrano i numeri decisamente esigui dei visitatori degli “eventi” e la conseguente secondarietà dell’arte contemporanea nella cultura italiana.

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§ Alessandro De Vita
Director/Playwright/Videoartist

<< Entrando nella mostra Travis vede le atrocità del Vietnam e del Congo, mimetizzate nella morte “parallela” di Elizabeth Taylor; cura l’attrice morente erotizzando i suoi bronchi trafitti nelle verande iperventilate dell’ Hilton di Londra; sogna Max Ernst, superiore degli uccelli; Europa dopo il diluvio; la razza umana, Calibano che dorme su uno specchio imbrattato di vomito. >>
(J.G. B.)

Se penso al concetto di mostra o di mostrare, oggi, ho i brividi. Il mondo, come preconizzava il caro Ballard, è diventato una enorme mostra. Una gigantesca distesa di dimenticanze messe in mostra solo per la personale brama di esserci. Guardo sempre più spesso senza vedere, per un vago istinto di protezione e non sono l’unico a farlo. Pensate agli estremisti dell’ISIS, sul set dei loro video, attenti all’ ESIBIZIONE, alla fotografia, al paesaggio, al montaggio, al sonoro; con quel vezzo estetico da veri videomaker mostrano le loro azioni facendo attenzione a renderle interessanti, ben girate, un prodotto da mediadesigner. Un curatore immaginario con la passione per la morte, potrebbe benissimo mettere in piedi una retrospettiva che, contrariamente a quanto molti di noi immaginano, avrebbe un seguito incredibile. Come non fare caso ai miliardi di visualizzazioni ottenuti in poche ore da video del genere. È la gente “normale” quella che incontrate per strada, ad essere così affamata di atrocità. La mostra delle atrocità è uno dei business principali su cui si muove il nuovo millennio. Penso alle opere tanto discusse e rimosse dal MAXXI, dei fratelli Chapmann, colpite duramente dalla censura ottusa e medio-borghese dietro cui si annida la stessa fame o il caso di artisti come Hermann Nitsch diventato famosissimo per i suoi bagni di sangue e budella in cui il sacro e il profano si intrecciano in un crescendo di violenza e catarsi, alla mostra di Guillermo Habacuc Vargas in cui un cane veniva legato e lasciato esposto al pubblico sguardo (alcuni dicono lasciato a morire di fame, altri dicono che venisse nutrito nelle pause di chiusura) e questi sono solo alcuni esempi. Non a caso le mostre molto discusse sono le più affollate. C’è un vero e proprio sistema dietro a operazioni di questo genere e nemmeno questo è un mistero. Perché gli spettatori hanno così bisogno di dolore? Non è già abbastanza quello che ognuno ha per se? Evidentemente no.

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§ Mario Turci
Direttore Museo Guatelli

Al MEN di Neuchatel. Una “tavola” dell’intensità politica dell’esporre:

Exposer, c’est troubler l’harmonie.
Exposer, c’est déranger le visiteur dans son confort intellectuel.
Exposer, c’est susciter des émotions, des colères, des envies d’en savoir plus.
Exposer, c’est construire un discours spécifique au musée, fait d’objets, de textes et d’iconographie.
Exposer, c’est mettre les objets au service d’un propos théorique, d’un discours ou d’une histoire et non l’inverse.
Exposer, c’est suggérer l’essentiel à travers la distance critique, marquée d’humour, d’ironie et de dérision.
Exposer, c’est lutter contre les idées reçues, les stéréotypes et la bêtise.
Exposer, c’est vivre intensément une expérience collective.

A Ozzano Taro di Collecchio il Museo Ettore Guatelli. Nel “pieno di oggetti” del Museo Guatelli, l’unità narrativa nasce dalla centralità della parola. Nel museo di Ozzano Taro la narrazione si fa scrittura quando la parola rintraccia, nel piano dell’espressione, la spazialità fisica che ne permette la traduzione in testi espositivo-compositivi in cui gli oggetti trascendono se stessi per offrirsi al racconto.

“Le migliori esposizioni vengono determinate dal pubblico. Penso si debba comunque mantenere un impatto emotivo. L’abbondanza di oggetti permette di farlo. Ma senza diventare schiavi di niente: né di estetica, né di funzionalità. Regolarsi con le reazioni del pubblico, verificarne i consensi e le freddezze. Sollecitarne i giudizi, conciliando il poetico con lo scientifico e sviluppandoli entrambi.” (E.G.)

A Bruxelles il Musée du Jouet. In questo caos calmo (si raccomanda la visita di domenica quando il museo è invaso dai bambini) l’esporre è dettato dalla “raggiungibilità” delle cose. Il caos e l’uso degli oggetti aprono e chiudono di continuo processi di mediazione fra i giocattoli, i raccoglitori e i visitati/fruitori.

Concludendo. Fra politica e poetica (e tecnica) non si tratta di “definire”, quanto di “rintracciare”, di aprire porte piuttosto che finestre, dalle porte si passa, dalle finestre si vede solo.

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§ Viviana Gravano
Critico e curatore d’arte. Docente presso l’Accademia di belle arti di Napoli

(…) Perché io sono per i nuovi quadri
Perché io sono per le mitologie individuali
Perché io sono per i diritti dell’uomo
Perché io sono per lo strutturalismo
Perché io sono per l’orientale e l’occidentale
xxxxxxxxxxxxx il nordico e il mediterraneo
xxxxxxxxxxxxx l’effimero e l’etereo
Perché io sono per la poesia e il pathos
Perché io sono per la pausa
Perché io sono per la scelta
Perché io sono contro la scelta
Perché io sono per la complessità
Perché io sono per la mia anima semplice
xxxxxxxxxxxxx alla quale tutto sembra possibile
Perché io sono per l’utopia della freschezza
Perché io sono per la speranza
Perché io sono per la rimessa in questione
xxxxxxxxxxxxx dell’idea di possesso
Perché io sono per la distruzione della rimessa in questione
xxxxxxxxxxxxx per il fermare le idee
Perché io sono per l’ambiguità
xxxxxxxxxxxxx ergo il locale
xxxxxxxxxxxxx ergo il regionale
xxxxxxxxxxxxx ergo il nazionale
xxxxxxxxxxxxx ergo l’internazionale
Perché io sono per l’anarchia che l’artista ripudia
Perché io sono per l’artista che coltiva l’anarchia
Perché io sono per la negazione delle decisioni
Perché io sono per l’approvazione del loro rifiuto
Perché io sono per le situazioni aperte
Perché io sono contro la forza di gravità , della pesantezza
xxxxxxxxxxxxx del possesso, del veto, dei tabù
Dove é la fermata?
Dove é l’appoggio
Io sono per l’imboscata che rappresenta l’arte
Io sono privilegiato
Perché dipendente e allo stesso tempo indipendente (…)

(Harald Szeeman, Impulsione-Armonia, 1972).

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§ Lucilla Meloni
Critico e curatore indipendente. Docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Carrara

Il progetto di allestimento della mostra è parte integrante del progetto curatoriale.  Partendo dall’idea che il momento espositivo è il luogo in cui si avvia da parte dell’osservatore un processo conoscitivo, ogni opera, a seconda che sia concepita per essere contemplata, attivata, partecipata, condivisa,   genera una fruizione diversa e necessita di un particolare e specifico habitat in cui mostrarsi.

L’allestimento è pertanto un elemento fondamentale nelle pratiche dell’arte contemporanea e testimonia di volta in volta il punto di vista del curatore, sia egli critico d’arte o artista. Le più importanti mostre dell’avanguardia storica (ad es. Erste Internationale Dada-Messe, Berlino 1920; 0.10, Pietrogrado 1915; Exposition Internationale du Surréalisme, Parigi 1938) sono state curate e “allestite” dagli artisti stessi e  la modalità di presentarle coincideva, assolutamente, con il loro contenuto. Quando Alfred Barr ospita al MOMA nel 1940 la mostra Italian Masters e decide di presentare le opere il più possibile separate l’una dall’altra, isolandone alcune in un’unica sala, compie una scelta radicale rispetto alla loro fruizione, poiché ne potenzia l’aura mediante la loro “lontananza”.

Al contrario quando nel 1942, in occasione della mostra First Papers of Surrealism, curata da André Breton e Marcel Duchamp, questi riempie lo spazio della mostra con 16 miglia di spago, concepisce l’allestimento come una sua opera e sposta di fatto la soglia d’attenzione dai lavori esposti (in certi casi resi illeggibili), all’allestimento, provocando inoltre l’irritazione di alcuni espositori. When Attitudes Become Form (Berna 1969) è stata tra le mostre più dirompenti del secolo scorso ed è impossibile immaginarla diversamente da come l’ha concepita Harald Szeemann, quando ha trasformato la Kunsthalle di Berna in un “gigantesco studio”.

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§Maria Rosa Sossai
Critico d’arte e curatore. Direttore artistico di AlbumArte

When Attitudes Become Forms, (1969) a cura di Harald Szeeman e allestita alla Kunsthalle di Berna, rompe le regole che sino ad allora avevano governato la concezione e l’allestimento di una mostra. Per la prima volta i quadri e le sculture non sono più le forme dominanti ma coabitano con nuovi strumenti espressivi come performance, azioni artistiche, work in progress considerati degni di interesse. Non a caso il sottotitolo della mostra era: Works, Concepts, Processes, Situations, Information. Durante l’allestimento, l’indignazione e lo scandalo aumentano di giorno in giorno, annota il curatore nel suo diario: Michael Heizer sta distruggendo il marciapiede di fronte l’ingresso del museo con il lancio di una palla di cemento. Richard Serra versa del piombo fuso su una parete, ma in compenso la Kunsthalle è diventata il punto di incontro della città. Anche la reazione della stampa è negativa e un comitato cittadino vorrebbe distruggere la Kunsthalle e tutte quelle dannate opere ospitate. Le critiche sono così violente forse perché la mostra appare inconsistente e al tempo stesso complessa. Sessantanove artisti provenienti da tutto il mondo sono venuti per trasformare la Kunsthalle in un laboratorio. Dopo quell’esperimento radicale Harald Szeemann verrà considerato uno dei più influenti curatori e un’intera generazione di curatori si ispirerà alla sua pratica che comprendeva stare insieme agli artisti e condividere con loro non solo il lavoro  artistico ma anche la vita quotidiana. Quali sono gli elementi che lo hanno reso uno dei più grandi curatori degli ultimi cinquanta anni? Sicuramente il suo pensiero critico indipendente, concepito come una sfida nei confronti di un certo mercato dell’arte focalizzato sulle mode e sui movimenti artistici.

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§ Angela Andreina Rorro
Curatore per l’arte contemporanea Galleria nazionale d’arte moderna

Una mostra condivisa. “Relazioni pericolose” – Gino Marotta alla Galleria nazionale d’arte moderna.
CURATELA COMUNE. L’idea di riportare Gino Marotta nelle sale del museo amato e frequentato dall’artista sin da ragazzo e nel quale aveva esposto già nel 1957 per scelta di Palma Bucarelli, è nata dall’amicizia professionale tra Laura Cherubini (che avevo curato una mostra dell’artista a Venezia) e chi scrive. Sarebbe stato possibile immaginare e produrre una mostra di taglio antologico, tuttavia ci parve più giusta l’idea di un percorso nelle collezioni. ALLESTIMENTO DIFFUSO. Il dialogo tra l’opera di un artista e una sala o un settore del museo era una modalità sperimentata. Nel caso di Marotta però è stato chiaro da subito il bisogno di ripercorrere una storia fatta di conoscenza e relazione con molti degli artisti presenti nelle collezioni. Scegliemmo quindi, alcune opere esposte nelle sale e alcuni spazi dove far rivivere due delle installazioni ambientali storiche dell’artista. Ne scaturì un percorso doppiamente diacronico: dal punto di vista delle opere esposte e da quello dei lavori di Marotta. Contestualmente è nata una vera e feconda relazione umana e intellettuale che ha prodotto una “mostra non mostra”, un itinerario che si è prodotto naturalmente seguendo quello già fatto da Marotta. E’ nato una rapporto tra persone con ruoli diversi ma con un obiettivo comune: verificare la vitalità dello spazio museo e delle sue collezioni rileggendolo attraverso gli occhi e il lavoro di uno dei protagonisti della scena artistica del secondo novecento e della contemporaneità. Per circa un anno dunque, si sono susseguiti appunti, incontri, confronti tra Gino Marotta, Isa Francavilla Marotta, Laura Cherubini, Angela Rorro e la soprintendente Maria Vittoria Marini Clarelli che ha condiviso l’idea del percorso e ne ha permesso la realizzazione. TESTO COLLETTIVO. Nel pensare al catalogo Laura ed io abbiamo scelto di rinunciare ai testi critici o a un testo curatoriale per restituire in modo fedele il senso di un ‘operazione culturale costruita insieme a Gino e Isa Marotta. Abbiamo perciò trascritto le conversazioni, frutto di registrazioni e appunti presi in situazioni diverse vissute in quattro. Anche il linguaggio del testo pubblicato non è stato cambiato ed è rimasto quindi volutamente discorsivo. LABORATORIO DIDATTICO. Durante la fase di allestimento è stato realizzato un laboratorio didattico (curato da Martina De Luca) con gli studenti del IV anno di liceo classico di Frosinone che hanno potuto conoscere l’artista, ascoltarlo, fargli domande e poi riproporre una loro versione di una delle installazioni storiche di Marotta. La mostra è stata poi inaugurata durante la Giornata del Contemporaneo del 6 ottobre 2012 e alla conferenza stampa di presentazione ha partecipato anche un portavoce degli studenti.

Relazioni pericolose è stata una intensa riflessione a più voci che abbiamo pensato potesse rendere al meglio il criterio di confronto e scambio che è stato sempre presente nell’arte sperimentale di Gino Marotta e che è alla base di una avventura espositiva condivisa.

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§ Giacinto di Pietrantonio
Direttore GAMEC Bergamo

Curare, prendersi cura
Prendere confidenza con lo spazio
Essere appassionati
Emozionarsi
Dare forma alla vita dell’arte
Avere sempre un idea diversa

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Immagine di copertina: I Fenicotteri di Gino Marotta davanti a Spoglia d’oro su spine d’acacia di Giuseppe Penone, riflessi nell’opera di Luciano Fabro Buco. Photo ©Bernardo Ricci