Discomfort
Heimlich e unheimlich: il riconoscimento del mondo-in-casa
di Francesca Genduso

                                                                                                                                      Ne deriva una nuova configurazione dello spazio domestico, inteso come spazio delle tecniche normalizzatrici, di guida e creazione degli individui messe in atto da potere e ordine pubblico moderni: il personale-è-il politico, perché è il mondo-in-casa
(Bhabha 2001, 24)1

La casa è il primo luogo in cui l’individuo si forma e viene a contatto con il proprio habitus culturale: la percezione di sé e degli altri è plasmata inizialmente dall’ambiente in cui si nasce e cresce. In questo modo si creano dei legami affettivi e identitari con la propria abitazione e il luogo di residenza. Ogni individuo sviluppa un proprio senso dell’abitare in base alla propria cultura e alla classe sociale di appartenenza, alla propria esperienza di vita e alle relazioni sociali. Pertanto uno stesso luogo, può essere interpretato dai diversi attori coinvolti in modi diametralmente opposti tra loro. In un mondo in cui non è più possibile tracciare binarismi del tipo locale/globale, privato/pubblico, nativo/straniero, anche l’idea di casa e di domestico subisce un processo di riscrittura. Anche quello che è sempre stato riconosciuto come rassicurante, il perfetto punto d’incontro tra luogo e sé può rivelarsi unhomely.

Il termine è un calco dal tedesco heimlich usato da Sigmund Freud in relazione alla sua teoria sull’inconscio, in opposizione a unheimlich. Lo psicanalista austriaco, infatti, impiega il primo sostantivo per descrivere una situazione o qualcosa avvertito come familiare (del resto in tedesco Heim significa casa), confortevole, intimo, ma al tempo stesso anche segreto. Se si scava nella parte nascosta, occulta, quello che è sentito come accogliente e amichevole può diventare improvvisamente unheimlich, ovvero inquietante, perturbante. Le due parole, dunque, più che concetti contrapposti, rappresentano due facce della stessa medaglia: l’unheimlich si può celare dietro a ciò che è conosciuto e avvertito come familiare (Morley 2000). Spingendosi ancora più in là, Freud sostiene addirittura che il desiderio di calore e affetto che l’uomo tende a cercare e ricreare nel proprio ambiente domestico nasconda, in realtà, a livello inconscio, una pulsione per tutto ciò che è avvertito come inquietante, minaccioso e che di solito si fa rientrare nella categoria generica dell’alterità (Sibley 2005). Se ci si sposta, quindi, dal territorio dell’inconscio a quello dell’esperienza pratica dell’abitare, risulta evidente come il sentimento di unheimlich, o unhomely, può essere avvertito da chiunque anche a casa propria. Ecco che in questo modo il concetto di domestico viene praticamente sabotato dal suo interno.

Del resto, l’ambiente domestico rappresenta il primo luogo in cui si produce e riproduce l’habitus culturale di appartenenza (etimologicamente il verbo abitare significa: “frequentare con assiduità, avere l’abitudine a trovarsi in un determinato posto”) e in cui si riflettono le pratiche di disciplinamento della società. Questo senso di straniamento, la percezione di sentirsi fuori luogo e di non avere più punti di riferimento stabili, può giungere all’improvviso:

“The unhomely moment creeps up on you stealthily as your own shadow and suddenly you find yourself with Henry James’s Isabel Archer «taking the measure of your dwelling» in a state of «incredulous terror»” (Bhabha 1992, 141).

Nella retorica tradizionale l’idea di casa è stata costruita in opposizione allo spazio esterno. Il privato e il pubblico sono stati a lungo considerati come due mondi a sé stanti, non aventi alcuna relazione tra di loro. In questo modo è stato possibile definire la dimora come un luogo intimo, privato, stabile, sede delle emozioni e della tradizione. La porta di casa fungeva pertanto da spartiacque con il mondo esterno, costruito per opposizione come pubblico, incerto, continuamente soggetto ai movimenti globali. Nell’opinione comune, lo spazio pubblico viene ancora percepito come minaccioso e pieno di insidie, mentre quello privato è il luogo sicuro per eccellenza. Per fare un esempio concreto, la creazione di gated communities in varie parti del mondo nasce proprio dal desiderio di estendere la sfera del domestico anche al di là dei confini della propria abitazione. Si tratta infatti di aree residenziali, circondate da muri, ad ingresso limitato e dotate di un sistema di sorveglianza. Il punto di forza di queste enclaves isolate dal resto della città è la sicurezza per chi vive lì dentro:

“All of these built forms suggest a lack of «permeability» in the built environment directed at achieving increasingly privatised lifestyles, predominantly through the pursuit of security” (Atkinson e Blandy 2005, 178).

Anche i meccanismi di controllo e sicurezza che vengono installati in molti condomini e appartamenti sono la spia di un fuori sempre più avvertito come unhomely, inospitale. Il tentativo di rendere il posto in cui si risiede più simile a un bunker che non a una casa, risponde al bisogno di volere, in un certo senso, “anestetizzare” i luoghi in cui si vive per evitare il contatto con persone o situazioni spiacevoli. Lo spazio pubblico viene allontanato e ridotto il più possibile: la routine quotidiana diventa quasi un percorso a tappe in cui si passa da un posto chiuso, sicuro, ad un altro, limitando il più possibile i tragitti esterni. La sicurezza diventa l’obiettivo chiave nella dialettica pubblico/privato:

“La sicurezza è unità di misura dell’incolumità personale, ma più ancora dell’isolamento dell’individuo da gruppi e persone indesiderabili nella sfera dell’habitat, del lavoro e dei viaggi” (Davis 1999, 198).

Questa maggiore demarcazione del proprio spazio privato a scapito di quello pubblico produce però un doppio movimento. Da un lato, infatti, si assiste a una progressiva diminuzione dello spazio pubblico vissuto, ma dall’altro lato si verifica il tentativo di rendere l’esterno più simile alla propria casa. O meglio: si tenta di controllare e disciplinare l’ambiente esterno in modo da prevenire il più possibile e sventare le minacce esterne. Il fuori viene rappresentato come un’estensione dell’ambiente domestico, con regole e divieti da rispettare. Ovviamente, come avviene in quasi tutti i nuclei familiari, però, il privilegio di stabilire cosa è giusto o no fare e chi ha il diritto di occupare lo spazio pubblico, spetta solo al “padrone di casa”. Infatti,

“Rules that might be applied in the well-ordered private space of the home are extended to public space, so that all space becomes heimlich for the powerful. The idea of public space as a space of difference, of encounters with strangers as well as with familiars, is erased. But anxieties about threatening others can never be erased – they are only displaced” (Sibley 2005, 158) 2.

Lo stesso meccanismo viene applicato anche alla scala dello stato-nazione: da un lato la retorica della patria, avvertita come spazio ospitale e confortevole per tutti i membri della comunità, comporta di fatto una diminuzione delle libertà personali dei cittadini che sono sottoposti a un rigido controllo da parte dell’autorità statale; dall’altro lato però i confini separano rigidamente un homely nazionale da un unhomely straniero. Pertanto, come il fenomeno delle gated communities ha la pretesa di estendere il senso del domestico oltre i ristretti confini dell’abitazione, allo stesso modo le politiche di sicurezza dello stato rispecchiano un tentativo ingenuo, se così si può definire, di dividere il locale dal globale. Di fatto, l’ideologia nazionalista sfoggia ancora una retorica della patria intesa come casa e nido, serbatoio inesauribile di valori e morale, da difendere ad ogni costo contro intrusioni esterne. Questa netta demarcazione tra familiare ed estraneo porta a un rigido sistema di esclusione ed inclusione: tutti gli elementi considerati minacciosi per la serenità del focolare domestico vengono lasciati “fuori dalla porta” di casa. L’assunzione di categorie domestiche per descrivere un ordinamento statuale di un dato territorio fa in modo che entrino in gioco categorie emozionali e a-razionali. In questo modo i confini diventano come i muri di una casa: da proteggere in ogni modo da presenze esterne e perciò estranee, perturbanti. Di conseguenza uno straniero diventa un estraneo che può varcare la soglia di un altro paese solo se è ben accetto, o se vi risiede per un periodo di tempo limitato, come se si trattasse di un ospite che viene per invito esplicito del padrone di casa. In questo caso la lingua inglese si rivela molto più utile dell’italiano per mettere in evidenza alcune costruzioni ideologiche che si celano dietro la “naturalezza” di una lingua, dal momento che il termine homeland racchiude in sé l’idea di un territorio, land, inteso come casa, home.

Per Homi Bhabha (1992) il senso di unhomely è una condizione ineludibile della modernità, o meglio, della post-modernità. L’esperienza della colonizzazione prima, e della decolonizzazione poi, ha creato delle zone per così dire interstiziali, ibride, in cui non è più possibile applicare una logica binaria, né sul piano spaziale, né tantomeno su quello temporale. Il senso di estraneità al domestico, infatti, si verifica quando la storia entra violentemente nella vita degli individui e la sconvolge: “the unhomely is the shock of recognition of the world-in-the home, the home-in-the-world” (ibidem, 141). Il riconoscimento della stretta relazione tra mondo e casa, e della loro reciproca influenza nella vita di ognuno, provoca un forte senso di dislocamento. Si tratta però di un riconoscimento, non di una scoperta. Come nella teoria freudiana dunque, in cui l’heimlich presuppone al suo interno anche l’unheimlich, così anche la tranquilla vita domestica racchiude nei suoi recessi l’influenza e la presenza massiccia del mondo. Questo lato nascosto, perturbante, viene immediatamente portato alla luce da un avvenimento traumatico che provoca un senso di straniamento legato al forte shock. Si tratta pertanto di una verità latente, nascosta dalla patina della routine quotidiana, la cui presenza si rende manifesta attraverso un evento improvviso. Per lo studioso indiano, l’evento traumatico è fornito dall’esperienza dello schiavismo e della segregazione razziale. Questi avvenimenti storici, infatti, rivoluzionano del tutto l’esperienza privata dell’abitare: ogni minimo comportamento ed ogni scelta che riguarda anche la sfera più intima è subordinata alle leggi e ai divieti imposti dalla dominazione bianca. La mancanza di libertà comporta una riscrittura del proprio stile di vita e anche dell’ambiente domestico. È attraverso l’oppressione e la violenza di una società fondata sulla superiorità di una “razza” sull’altra, che si fa esperienza della Storia sulla propria pelle. In questo modo anche la propria casa e, allargando il campo, il paese in cui si vive, vengono avvertiti come estranei, come altri, e “in questo dislocarsi, i confini tra casa e mondo si confondono e, misteriosamente, il privato e il pubblico diventano ognuno parte dell’altro” (Bhabha 2001, 22).

La vita interiore, pertanto, risulta scissa tra un’intimità non vissuta fino in fondo e un’attività pubblica in cui si ha poca libertà di movimento. La schiavitù e l’apartheid appartengono a due periodi storici differenti, ma sono accomunati da un sostrato ideologico simile che presuppone il mondo diviso in due blocchi contrapposti: i bianchi e i neri, i civilizzati e i barbari, i virtuosi e i lascivi. Paradossalmente però, il colonialismo e l’imperialismo, che rappresentano il risvolto pratico di un’ideologia del genere, hanno portato alla costituzione di una società transculturale, caratterizzata da zone interstiziali in cui non ha più senso parlare in termini binari. Cambiamenti storici di questo tipo, creano un punto di non ritorno per cui anche le temporalità si sovrappongono. Da un certo punto di vista, il momento della schiavitù non si è mai concluso del tutto: i suoi effetti sono ancora visibili, non solo nei paesi responsabili di questo traffico umano, ma anche in quelli che l’hanno subito. Naturalmente non si tratta di effetti aventi lo stesso peso: nei paesi sfruttatori le antiche tracce di questo passato sono visibili nell’ibridità (Bhabha 2001) identitaria della propria popolazione e nella commistione di culture differenti. I paesi invece che hanno subito questo massiccio “prelevamento” di popolazione e una politica di sfruttamento nei secoli, ne pagano ancora le conseguenze in termini economici e sociali. Del resto, anche la politica dell’apartheid può essere vista come l’onda lunga del processo schiavistico. Per la popolazione nera3, dunque, il riconoscimento dell’unhomely deriva da anni di sfruttamento e messa al margine perpetrati da una politica di stampo razziale. L’estraneità del domestico può però simboleggiare anche il punto di partenza dal quale ripartire per ricostituire una nuova identità, frutto della negoziazione tra realtà esterna, mondo privato e mondo interiore. Come scrive bell hooks, infatti,

“Il significato profondo di casa cambia con l’esperienza della decolonizzazione, della radicalizzazione. A volte, casa è in nessun luogo. A volte si conoscono soltanto alienazione e straniamento. Allora casa non è più un solo luogo. È tante posizioni. Casa è quello spazio che rende possibili e favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento, uno spazio in cui si scoprono nuovi modi di vedere la realtà, le frontiere della differenza” (hooks 1998, 66).

Con la decolonizzazione e la globalizzazione chiunque, ormai, si trova alle prese con l’ingombrante intrusione del mondo in casa. I gruppi che più di tutti sperimentano questa situazione sono quelli che sono sprovvisti di un territorio stabile: migranti e popoli diasporici. Il sedentarismo di fatto è visto come l’unica soluzione possibile per la definizione di un popolo in quanto sintesi perfetta dell’identità tra sé e luogo. Come detto prima però, l’assetto mondiale contemporaneo mette tutti faccia a faccia con la necessità di dover continuamente definire e delineare il proprio posto nel mondo, anche a partire dal proprio ambito domestico. Anche se si costruiscono enclaves di lusso in cui rifugiarsi, o si erigono delle barriere tra un Noi definito e un Altro generico, questo non serve a fermare o diminuire l’impatto della Storia nei vissuti individuali. È in questo modo che l’unheimlich, con modalità e scale differenti secondo i vari attori coinvolti, diventa un aspetto quotidiano dell’abitare.

1 In corsivo nel testo originale.
2 In corsivo nel testo originale.
3 Il termine fa riferimento al discorso in chiave “anti-anti essenzialista” portato avanti da bell hooks cui si accenna subito dopo e, più in generale, intende riallacciarsi al pensiero della decolonizzazione espresso da, uno su tutti, Franz Fanon e dai poeti della negritudine, il cui intento è quello di restituire una soggettività a una generica “identità nera”, ridotta al silenzio e spoliata da ogni prerogativa politica e sociale dal dominio dei “bianchi”. Questa posizione che, di fatto, rientra ancora in una logica manichea è però una tappa necessaria per il processo di affrancamento e di rivendicazione identitaria dei colonizzati. In questo caso, dal momento che si fa riferimento alla schiavitù e all’apartheid, si è ritenuto necessario usare un lessico che riecheggi il pensiero della decolonizzazione, per mettere maggiormente in evidenza la spaccatura prodotta dal colonialismo tra i “bianchi colonizzatori” e i “neri colonizzati”.

 

.

Immagine in homepage Rachel Whiteread’s House, 1993

Bibliografia

Atkinson R. e Blandy S. (2005), “Introduction: international perspectives on the new enclavism and the rise of gated communities” in Housing Studies 20 (2), pp. 177-86
Bhabha H. K. (1992), “The world and the home”, in Third World and Post-Colonial Issues – Social Text 31/32, pp. 141-153
Bhabha H. K. (1994), I luoghi della cultura, trad. it. Roma, Meltemi, 2001
Davis M. (1990), Città di Quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, trad. it. Roma, Manifestolibri, 1999
hooks b. (1998), Elogio del margine. Razza sesso e mercato culturale, Milano, Feltrinelli
Morley D. (2000), Home Territories: Media, Mobility and Identity, London, Routledge
Sibley D. (2005), “Private/Public” in Atkinson D., Jackson P., Sibley D. e Washbourne N. (a cura di), Cultural Geography. A critical dictionary of key concepts, London, Tauris

Francesca Genduso a marzo 2017 ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Studi Culturali Europei presso l’Università degli Studi di Palermo, il suo campo di studio è la geografia culturale. Da gennaio a luglio 2015 è stata dottoranda in visita all’università Paris Diderot – Paris 7, presso il laboratorio Géo-cités, da gennaio a luglio 2016 è stata dottoranda in visita all’università di Utrecht, presso il dipartimento di Media and Cultural Studies.