Il pogo (o moshing nel contesto punk hardcore) è una danza nata in seno alla sottocultura punk a partire dagli anni ‘70, riconoscibile per le sue spinte e spallate violente. A differenza delle danze canoniche che presentano una struttura coreografica, il pogo è un’espressione libera del corpo spinto da impulsi catartici derivati dalle sonorità della musica punk stessa. Per quanto da un occhio esterno all’ambiente underground di cui questa danza fa parte possa sembrare brutale e indice di violenza insensata, dentro di sé, il pogo porta motivazioni e pulsioni ben più radicate.
Si potrebbe infatti dire che il pogo è un atto collettivo e politico. In particolare, in riferimento a una scena punk italiana che ho potuto analizzare in prima persona. Il primo elemento che salta all’occhio durante gli eventi, concerti o festival organizzati all’interno di questa scena è la scelta (o non scelta) delle venue. Infatti, a volte il palco è completamente assente dallo spazio dell’evento e quindi la zona di chi canta e suona può essere pervasa da membri del pubblico, che potrebbero prendere microfoni o posizionarsi di fronte alle aste dei microfoni per poter cantare per dimostrare un’identità appartenente alla scena e supporto al gruppo. Nella stessa condizione di “non-palco”, la zona potrebbe essere circondata da persone da tutte le parti, diventando una sorta di centro di un grande cerchio. Avendo persone che stanno guardando il concerto da tutti i lati, si ha una visione completa, creando così un dialogo percettivo intenso fra chi ascolta e chi suona. Dialogo in cui i movimenti, anche quelli del pogo, e l’intimità sono più amplificati, perché avviene una trasmissione di percezioni emotive in maggiore quantità rispetto a quando si trova l’imposizione verticale del palco.
Bisogna però sempre ricordare che anche nell’apparente caos incontrollato del pogo, è necessaria una continua lettura del corpo delle altre persone che ci circondano. Nell’imprevedibile movimento che il singolo corpo deciderà di attuare scontrandosi con l’aleatorio movimento di un altro individuo, c’è in mezzo il rispetto delle regole implicite del moshing [1]. Se manca il rispetto delle regole e di chi si ha attorno, cade anche la natura di protesta che è intrinseca alla sottocultura punk. Per questo motivo, è importante che si sia costantemente in allerta di quello che sta accadendo attorno. Questa è la principale causa che delinea la linea che divide chi compie questo gesto per un’espressione di catarsi e manifestazione e chi lo fa in maniera violenta, gratuita e impositiva, alimentando così dinamiche di potere legate a un discorso identitario di genere (e non solo).

Discriminazione di genere nel moshpit [2]
Se accettiamo che l’identità di genere sia l’effetto di pratiche performative ripetute [3] e non una qualità dell’esistenza, ammettiamo che gli studi performativi sulla danza hanno contribuito a quelli di genere (Butler, 1990) (Reed, 1998, p. 516). Ed è proprio tramite il mezzo della danza che vengono riprodotte certe ideologie culturali e differenze di genere. Attraverso il vocabolario del movimento, i costumi, l’immagine corporea, l’allenamento e la tecnica, i discorsi di danza sono spesso radicati in idee di differenza di genere di natura (Reed, p. 516).
La costruzione dell’identità sociale determina un nostro posto nel mondo: «la nozione di ‘persona’ è stata elaborata analiticamente a partire dall’assunto che ogni contesto sociale all’‘interno’ del quale la persona si trovi rimanga in qualche modo legato estrinsecamente alla struttura che definisce l’essere persona [personhood], si tratti della coscienza, della capacità di linguaggio o di giudizio morale» (Butler, 1990, p. 26). È una questione incarnata che viene da una serie di condizioni diverse come genere, razza e classe: tre punti originari da cui partono altrettante categorie che definiscono le nostre identità. L’invisibilità della propria identità sociale è indice di privilegio e la co-presenza dei corpi nello spazio implica una condizione: essere esposti all’Altro [4], è la condizione del politico. Nell’essere soggetti esposti, visibili, vale a dire essere soggetti descritti prima della definizione dell’io (Butler, 2004) che il soggetto stesso si attribuisce, si è soggetti vulnerabili. Il moshing rimane una danza dominata da uomini, evidenziando alcune limitazioni di inclusività nei confronti dei soggetti femminilizzati e non solo. Questo privilegio dell’invisibilità vale anche nel contesto del pogo, per cui se non sei una persona bianca, uomo cisgender, eterosessuale e abile, vieni subito percepita come Altro, quindi esclusa o trattata in maniera differente. In particolare, nel confronto dei soggetti femminilizzati, c’è una cura e un senso di protezione eccessivo da parte degli uomini partecipanti al pogo, che non viene richiesto o espresso dalle donne stesse. Il solo rispetto delle regole da parte dei soggetti partecipanti e la focalizzazione su questo, permetterebbe già ai soggetti femminilizzati di attraversare il ballo in maniera sicura, rispetto a una protezione mascolina non richiesta e inopportuna, e magari un maggior numero di donne che ora non pogano, sarebbero più invogliate a partecipare.
Il moshing è un atto performativo trasgressivo, ovvero che il suo intento è quello di trasgredire e trasformare norme sociali formando una resistenza subculturale attraverso una performance fisicamente faticosa. Attraverso gli incontri corporei le norme di genere egemoniche sono continuamente contestate e riprodotte, mentre le aspettative convenzionali delle interazioni corporee e della condotta sociale vengono trasgredite e trasformate dalla successione dei corpi in conflitto (Riches, Lashua, Spracklen, 2014, p. 97).
La scena punk e metal vanta una storia subculturale di trasgressione delle norme sociali, ma allo stesso tempo rinforza e dà spazio a una mascolinità egemonica [5] portando avanti un ideale di audience e performer bianchi, cisgender, eterosessuali e abili. Particolari sottoculture musicali come quella punk creano confini di genere sia in modo aperto che nascosto al fine di riaffermare i valori della loro comunità (Gruzelier, 2007, p. 68). I soggetti femminilizzati che decidono di prendere parte al moshpit, trovano questo spazio come un luogo dove può avvenire un processo di acquisizione di potere. Attraverso l’uso del movimento e dell’interazione corporea, trasgredire gli stereotipi associati alla femminilità nella scena e nella società patriarcale (che comprendono una visione di passività e un bisogno di protezione in quanto soggetti considerati fragili). Pogare, quindi, diventa un importante meccanismo in cui le donne della scena invisibili si rendono membri subculturali visibili e forti (Riches, Lashua, Spracklen, 2014, pp. 89-90) e che si svincolano dallo stereotipo di donne come oggetti sessuali (Gruzelier, 2007, p. 67). I segni dei lividi dati dallo scontro dei corpi in conflitto sulla pelle del soggetto femminilizzato si trasformano da scontro doloroso a ricordo incarnato della trasgressione di genere attraverso una pratica di vulnerabilità (Riches, Lashua, Spracklen, 2014, p. 92). Attraverso il pogo, i soggetti femminilizzati, come anche i corpi non conformi, stanno volontariamente o inconsapevolmente rivendicando il diritto di essere vulnerabili disturbando lo spazio che stanno attraversando. I corpi femminilizzati diventano così simbolo di trasgressione, resistenza e di performatività dell’identità subculturale, attraversata anche da donne, che richiede l’impegno di tutto il pubblico (Ivi, 96). Anche in questo caso, il rispetto delle regole implicite del pogo / moshing serve per far sì che anche le identità non maschili e non conformi possano attraversare il moshpit senza sentirsi vittime delle norme di genere.
Ci sono anche altri casi di violenza spropositata e ostentata da parte di alcuni uomini verso altri uomini che dimostrano che, pur sempre rimanendo dentro dinamiche maschili, certi meccanismi di oppressione sistematici vengono perpetrati ugualmente anche fra uomo e uomo. Chi mette in atto questi meccanismi è la stessa persona che per prima non rispetta le regole del moshing, manifestando la danza come un atto violento posto verso l’aggressività e l’ostilità e non come gesti violenti (spinte, calci e pugni rotanti per aria) scaturiti dall’esigenza di sfogare un’emozione di catarsi collettiva senza fare del male a nessuna persona davvero.

Omosocialità nel moshpit
Solitamente, per certe forme di danza, gli uomini preferiscono non ballare, dal momento in cui la danza viene ancora ad oggi percepita come una pratica poco maschile e poco eterosessuale. Per altre forme di ballo, come il pogo stesso, gli uomini non hanno problemi a esprimersi attraverso i movimenti del proprio corpo. Questo perché il pogo è un altro modo di muoversi a ritmo di musica che è riconosciuto come pratica maschile, fornendo una copertura violenta per le interazioni intime della danza (Craig, 2014, p.16). Gli individui che partecipano al pogo utilizzano i loro corpi in una forma metaforica di espressione ipermaschile che rafforza la percezione “maschio-come-dominante” [6] della cultura del moshpit. In effetti, queste dinamiche di movimento suggeriscono che chiunque non sia “abbastanza uomo” [7] non sia degno di un posto nel moshpit (Gruzelier, 2007, p. 64). Per questo motivo, i corpi non conformi, i soggetti femminilizzati e queer diventano simbolo di trasgressione nel meccanismo maschile dominante.
Cosa succede però quando la mascolinità egemonica del moshpit viene minacciata dai corpi non maschili e non conformi?
L’area del moshpit, che rappresenta l’acme della manifestazione dell’ipermaschile, diventa così luogo di perpetuazione di rituali di legame maschile che rinforzano i codici patriarcali e che potrebbero permeare l’atmosfera di un concerto. Allo stesso tempo, nel moshpit si verificano episodi di interazioni omosociali [8] che accrescono ancora di più il senso di unità maschile subculturale della scena che rischia di essere minacciata e distrutta ogni qualvolta soggetti non maschili e queer la contaminano. L’interazione omosociale si basa sul dare e ricevere contatto fisico fra uomini, nel momento in cui soggetti femminili e corpi non conformi entrano a far parte della demografia del moshpit, come analizzato precedentemente, i soggetti maschili si sentiranno in dovere di diminuire l’intensità del pogo in quanto percepiranno l’Altro come soggetto fragile (Gruzelier, 2007, p. 69), anche se, dall’altra parte, questa cautela nella violenza viene interpretata come discriminatoria.
L’economia binaria descritta da Adriana Cavarero che «si fonda appunto su una logica bipolare che, a partire dalla positività del polo maschile, decide la negatività di quello femminile. Posto l’uomo come soggetto, la donna risulta perciò oggetto; posto il primo come il Sé, la seconda risulta l’Altro» (Cavarero, Restaino, 2002, p. 84), si concentra su un’immagine della società in senso ampio, ma che può essere studiata anche nell’esempio più ristretto di ciò che accade nel moshpit. L’economia binaria di Cavarero si basa sulla logica del medesimo: «La logica del medesimo mostra dunque che l’economia binaria è un’economia omosessuale. Non necessariamente nel senso di una pratica erotica, ma piuttosto nel senso che il vero soggetto e l’unico protagonista di quest’ordine ha un solo sesso: quello dell’uomo (latino: homo) che si rispecchia nel medesimo (greco: homoios)» (Ivi, 85).
L’economia binaria è definita come omosessuale, non nel senso di un’attrazione erotica tra uomini, ma perché l’intero sistema è centrato su un unico soggetto protagonista: l’uomo. Questo soggetto si rispecchia continuamente in sé stesso (nel “medesimo”) e utilizza il femminile come uno specchio distorto, senza lasciare spazio a una rappresentazione autentica dell’altro sesso e, anzi, confinandolo a mero oggetto. Allo stesso modo, le interazioni omosociali che si verificano dentro al moshpit, da una parte vogliono essere la dimostrazione di un’egemonia maschile sopra i soggetti considerati non “abbastanza uomo”, ma dall’altra celano un omoerotismo inconscio. L’aspetto che mi diverte sempre di più durante le mie osservazioni del moshpit è vedere come la dinamica ipermaschile sia in contrasto con una dinamica omoerotica praticata involontariamente. L’omoerotismo lo noto nel momento in cui uomini a petto nudo scambiano il proprio sudore sul corpo sudato di altri uomini a loro volta a petto nudo. Oppure nel voler cercare l’eterno contatto fra uomini, in particolar modo durante il crowdsurfing, dove, nel massimo stato di vulnerabilità del pogo, gli uomini lasciano che le proprie parti sensibili vengano toccate da altri uomini.


Ma l’immagine che per me rimane la più emblematica è la contemplazione e la ricerca del microfono. La continua corsa da parte di uomini per avvicinarsi il più possibile al microfono per poter cantare, che di per sé ricorda una figura fallica, rimane per me la massima espressione di omoerotismo che si manifesta durante i concerti punk. Uomini che adorano un fallo e si ritrovano ad avere la propria faccia contro quella delle persone vicine spesso sconosciute, a toccarsi, ad abbracciarsi, a stringersi forte. Questi tratti omoerotici vanno involontariamente contro le norme di genere dell’egemonia maschile, sono il punto di rottura degli stereotipi stessi del “maschio-come-dominante” e, quindi, una volta realizzata la loro carica omoerotica, diventare il punto di partenza a cui attingere per rendere il pogo accessibile anche ad altri corpi. Tuttavia, ancora oggi agli uomini viene inculcata l’idea di dover aver paura di essere omosessuali ed essere obbligati a farsi piacere le donne sin da piccoli (Despentes, 2006, pp. 125-126), interiorizzando così un certo grado di omofobia. Già lo storico attivista per i diritti degli omosessuali in Italia Mario Mieli nel 1977 nel suo saggio Elementi di critica omosessuale scriveva di omoerorismo latente espresso sotto forma di sentimenti di amicizia e di cameratismo (Mieli, 1977). In particolare, fa riferimento all’omoerotismo latente nello sport e del virilismo perpetrato attraverso lo sport (che si rispecchia allo stesso modo nella dinamica omosociale del pogo): «L’idea omosessuale dello sport è ben diversa da quella tradizionale: il ragazzino gay che detesta l’educazione fisica sogna un mondo in cui l’esercizio ginnico, la soddisfazione sessuale e l’affetto non vengano più considerati sfere separate e opposte le une alle altre. Nei fatti, egli sa bene che i suoi compagni che si menano si desiderano. Non si tratta più di picchiare o di battere qualcuno, si tratta, giocando, di battere nel gaio senso di draguer, di offrirsi fisicamente gli uni agli altri, nell’atmosfera ludica in cui il sado-masochismo riconosce apertamente il proprio carattere erotico e si sposa all’affettività. La lotta, il corpo a corpo possono ben culminare nel bacio e nel coito più tenero o più violento, e lo scontro delle squadre può ben trasformarsi nell’incontro collettivo dell’ammucchiata (sex & rugby, sudore, sperma, fango e sfrenatezza franca, sportiva)» (Ivi, 105).


Mieli accusa come conseguenza di questa tendenza omosociale derivata dall’omoerotismo represso l’esclusione della donna e la violenza nei confronti dei soggetti omosessuali: «Il cameratismo maschile è la messinscena grottesca di un’omosessualità paralizzata e inasprita che si coglie, al negativo, dietro la negazione della donna di cui si parla fallocraticamente, senza considerazione autentica, riducendola a buco e cioè a quel che non è. La repressione dell’omoerotismo è qui come sempre legata all’oppressione della donna da parte del maschio. Il desiderio omosessuale negato affiora attraverso la negazione della donna: in bocca ai maschi la donna diventa totalmente altra da sé, diviene donna-per-l’uomo, feticcio-tramite tra uomini, il go between alienato tra maschi la cui unica e costante preoccupazione è l’affermazione reiterata di una virilità feticistica, sopraffattrice, individualistico-cameratesca, negativa. Il virilismo non è altro che l’ingombrante introiezione nevrotica, da parte dell’uomo, di un desiderio omosessuale per gli altri uomini fortissimo e censurato: il virilismo impaccia e indurisce l’essere umano di sesso maschile, trasformandolo in rozza caricatura di maschio» (Ivi, 107-108).
«Abbiamo detto come, in questa società, il sadismo si presenti quasi sempre sotto forma alienata. Ciò avviene, per esempio, quando la manifestazione delle tendenze sadiche si accompagna alla repressione di un’altra componente del desiderio e alla sopravvalutazione complementare di un’unica espressione dell’Eros. Così, riconosceremo una forma di sadismo alienato combinata con un impulso omosessuale stravolto e con un’ostentazione dell’eterosessualità nelle aggressioni operate dagli etero nei confronti di noi gay. La caccia alle streghe condotta contro i finocchi […] altro non rappresenta se non un’espressione di sadismo alienato poiché connesso all’estroversione negativa del desiderio omosessuale represso e alla necessità di garantire con la forza, anche di fronte agli omosessuali, l’eterosessualità» (Ivi, 115).
Mieli si appropria del concetto freudiano di rimozione per spiegare come il desiderio omoerotico sia presente in tutti, ma venga represso o sublimato in forme socialmente accettabili. L’odio della società eterosessuale nei confronti degli omosessuali deriva proprio da questa rimozione, che genera paura e ostilità nei confronti di ciò che è stato inconsciamente soppresso. In questo senso, la violenza contro gli omosessuali sarebbe una manifestazione di omoerotismo rimosso, che riemerge sotto forma di aggressione e ostentazione dell’eterosessualità. Le parole di Mieli risultano ad oggi ancora presenti e contemporanee, mostrando come in Italia non ci sia stato né un miglioramento né un peggioramento nelle dinamiche omofobe inflitte nei confronti degli omosessuali e nell’esclusione dei soggetti femminilizzati. Ci sono stati avanzamenti e la libertà di espressione identitaria è ora più forte, ma c’è ancora tanta strada da fare: l’Italia rimane ancora una dei paesi in cui c’è meno sicurezza e tutela delle persone della comunità LGBTQIA+.


Dato questo, probabilmente, prima di vedere dentro al moshpit la distruzione delle dinamiche patriarcali, c’è bisogno di un cambiamento radicale culturale all’interno della società stessa (che può avvenire grazie agli studi di genere, la letteratura transfemminista e l’educazione sessuale-affettiva).
La più grande forma di ribellione che donne, queer e corpi non conformi possano fare nei confronti della scena underground è quella di partecipare al pogo, trasgredendo le norme di genere evocate nel moshpit per dare la possibilità di partecipare e di divertirsi a quelle persone che si sono sempre sentite fuori luogo e non all’altezza dei canoni maschili. La forza delle attività rituali come il pogo permettono l’accesso a un altro tipo di potere comunicativo, il quale ha a che fare con il rafforzamento di come internalizziamo i nostri ruoli sociali e le gerarchie, di come esterniamo le nostre emozioni e di come concepiamo la società (Simon, 1997, p. 159).
Note
[1] La prima delle regole implicite del pogo prevede di rispettare e aiutare chi si ha attorno e soprattutto i confini del moshpit; se una persona sta fuori dal moshpit, però attorno ai suoi confini, può provare ad avere una semi-esperienza del moshing spingendo le persone che le corrono addosso riportandole dentro il moshpit, l’importante è che non vengano mai spinti da dietro dentro membri del pubblico che non vogliono partecipare, ogni persona deve avere il diritto di godersi il concerto allo stesso modo. È inoltre importante che quando una persona cade per terra, in qualsiasi situazione avvenga, la si aiuti immediatamente ad alzarla, creandole, se necessario, una barriera umana di protezione attorno. Ugualmente, se una persona perde oggetti per terra o, più comunemente, una scarpa, è necessario coprirla e aiutarla. La regola che meno viene rispettata è quella di tenere i propri drink lontani dal moshpit, dal momento in cui potrebbero cadere addosso alle persone o direttamente per terra, rendendo il pavimento scivoloso prima e appiccicoso poi, così rischiando di far cadere per terra chi sta attraversando l’area. Successivamente, dentro il pit i gomiti e le ginocchia devono rimanere abbassati, per non rischiare di colpire parti sensibili del corpo, in particolare della testa. Lo stesso vale per ogni oggetto o accessorio portato dentro al pit che possa essere contundente o tagliente. Fuori dal pit, invece, i gomiti si possono tenere alti per proteggersi dalle persone che potrebbero venirti addosso ad una forte velocità da dentro il pit. Prima di entrare nel pogo, bisogna controllare l’atmosfera della serata, meglio stare ai lati e vedere il grado d’intensità. Se si prende il rischio di entrare dentro al moshing, potrebbe capitare di essere colpiti involontariamente per colpa della poca attenzione da parte di chi si ha attorno, soprattutto considerando il fatto che si tratta di una forma di ballo che viola il nostro spazio personale sociale in continuazione (Lull, 1987, pp. 242-243). In tal caso, non bisogna prendere quel contatto fisico sul personale, né tantomeno rispondere d’istinto con gesti di violenza gratuita, bensì cercare di mantenere un ambiente amichevole e giocoso e, dall’altra parte, porgere delle scuse. Infine, anche se durante la serata potrebbe fare molto caldo, sarebbe meglio non spogliarsi e rimanere a petto nudo, sempre per un discorso di rispetto delle persone che si hanno accanto e che si andrebbero a colpire col sudore del proprio corpo nudo. Tutte le persone presenti devono godersi il concerto, il pit deve essere attraversabile da più persone possibili e il pubblico un safe place, uno spazio sicuro, che sappia e rispetti le regole per chiunque. Ogni genere di molestia e discriminazione verrà denunciato all’interno dello spazio e della scena.
[2] Il pit o moshpit è l’area in cui ha vita il pogo / moshing.
[3] Quando si parla di performatività di genere, si fa riferimento alla teoria della performatività esposta da Judith Butler nel suo testo Questione di genere nella Prefazione all’edizione 1999: «In primo luogo, dunque, la performatività del genere ruota attorno a questa metalessi, il modo in cui l’anticipazione di un’essenza di genere produce ciò che pone come esterno a sé. In secondo luogo, la performatività non è un atto singolare, ma una ripetizione e un rituale, che raggiunge i suoi effetti attraverso la naturalizzazione in un corpo inteso, in parte, come durata culturalmente istituita» (XIV).
[4] L’utilizzo della maiuscola vuole indicare una differenza categorica: l’Altro inteso come l’estraneo, lo straniero. Copio questa decisione ortografica da Adriana Cavarero in Le filosofie femministe, (2002).
[5] Il termine “mascolinità egemonica” che prendo in prestito dal testo Sorry I don’t dance, Why men refuse to move di Maxine Leeds Craig, fa riferimento a un ideale privilegiato di mascolinità intrinseco a un’identità sociale basata sulla classe, la razza e il genere. Craig scrive: «Under a gender regime, hegemonic masculinity exists as a privileged ideal in relation to alternative, stigmatized masculinities» (7), in italiano, “sotto un regime di genere, la mascolinità egemonica esiste come un ideale privilegiato in relazione a mascolinità alternative e stigmatizzate”.
[6] Male-as-dominant (64).
[7] Man enough (64).
[8] Il termine omosociale deriva dal testo di Eve Kosofsky Sedgwick, Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire (1985), dove scrive «’Homosocial’ is a word occasionally used in history and the social sciences, where it describes social bonds between persons of the same sex; it is a neologism, obviously formed by analogy with “homosexual”, and just as obviously meant to be distinguished from “homosexual”. In fact, it is applied to such activities as “male bonding”, which may, as in our society, be characterized by intense homophobia, fear and hatred of homosexuality» (1).
Bibliografia
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Cavarero A., Restaino R., Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, Milano 2002.
Craig M. L., Sorry I don’t dance: why men refuse to move, Oxford University Press, New York, 2014.
Despentes V., King Kong Théorie, Grasset, Paris, 2006. Tr. It. King Kong Theory, a cura di Balmelli M., Fandango Libri, Roma, 2019.
Gruzelier J., Moshpit Menace and Masculine Mayhem, in Jarman-Ivens, F. (Ed.), Oh Boy! Masculinities and Popular Music, pp. 58-75, Routledge, London, 2007.
Kosofsky Sedgwick E., Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire, Columbia University Press, New York, 1985.
Mieli M., Elementi di critica omosessuale (1977), Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2017.
Reed S. A., The Politics and Poetics of Dance, Annual Review of Anthropology, Vol. 27, pp. 503-532, 1998.
Riches G., Lashua B., Spracklen K., Female, Mosher, Transgressor: A ‘Moshography’ of Transgressive Practices within the Leeds Extreme Metal Scene, IASPM Journal, vol. 4, no.1, pp. 87-100, Liverpool, 2014.
Simon B. S., Entering the pit: slam-dancing and modernity, Journal of Popular Culture, 31 (1), pp. 149-176, Wiley-Blackwell, Hoboken, 1997.
Matilde Ceccarelli, romagnola di origine, da 7 anni adottata a Venezia dove ha studiato prima Lingue, civiltà e scienze del linguaggio, poi Arti visive all’Università IUAV di Venezia, laureandosi col massimo dei voti con una tesi dal titolo If I can’t dance, it’s not my revolution: il pogo come atto collettivo e politico. Negli ultimi anni si è approcciata al mondo del suono prima nell’ambiente radiofonico e dei dj set, poi in campo audiovisivo come fonica di presa diretta e microfonista. La sua pratica e il suo interesse artistico si concentrano sui corpi (sia corpi in generale, sia corpi non conformi nello specifico) e la loro esperienza nel mondo.
