Sensory Hiatus
Le forme del fritto
di Emiliano Battistini, Marco Mondino e Davide Puca

0. Introduzione

In questo lavoro proponiamo l’analisi del fritto, un particolare genere alimentare definito dalla sua modalità di cottura. Ad essere prese in esame non è tanto l’oggetto gastronomico in sé quanto la sua esperienza situata di consumo. La città di Palermo, per la particolare diffusione che questa modalità di cibo ha, si presta alla comparazione di più esperienze del fritto in luoghi diversi tra di loro ma interrelati da interessanti legami di continuità semantica. Nel testo che segue passeremo in rassegna i principali studi semiotici e antropologici legati al tema del fritto, in modo da introdurre le principali teorie e sguardi che hanno affrontato tale oggetto. In seconda istanza tenteremo di analizzare l’esperienza di consumo di alimenti fritti, soffermandoci sulla dimensione polisensoriale che si attiva in tre diversi spazi di fruizione: il mercato storico, la trattoria e le nuove friggitorie, intese come locali ibridi che tendono a nobilitare il cibo di strada inserendolo nel contesto dei fast-food di design à la mode.

1. Prospettive e studi sul fritto

La frittura è una modalità di cottura degli alimenti che consta dell’immersione parziale o totale del cibo in lipidi di diverso tipo a seconda della aree geografiche. Sarebbe impossibile risalire a un’origine nella frittura, almeno nel vecchio mondo, tante sono le testimonianze che attestano questa pratica culinaria nel corso dei millenni. Al contrario, l’accezione dieteticamente deteriore data al cibo fritto, che per tanti versi lo rende ancora più godibile, sembra essere più recente di quanto non si pensi e sicuramente post-industriale (cfr. Minerdo e Venturini, a cura di, 2016).

Il testo a cui viene spesso attribuita la paternità del discorso gastronomico moderno, la Fisiologia del gusto di Brillat-Savarin, dedica al fritto un intero capitolo, dal titolo “Teoria della frittura” (Brillat-Savarin, 1825, cap. VII). La testimonianza di Brillat-Savarin è di interesse per capire come la valorizzazione negativa dei cibi fritti sia cosa recente. Le ghiottonerie fritte si prestano a contesti sia privati che sociali come i banchetti e il loro consumo con le mani è gradito anche dalle signore. Analogamente, il ricettario di Artusi (1970, prima ed. 1981) dedica una parte ai fritti “per stomaci deboli”: un’attribuzione paradossale che oggi farebbe storcere il naso a qualsiasi salutista e ben diversa dalla pesantezza e dalla difficile digeribilità che associamo oggigiorno ai cibi fritti.

Sul coté accademico, è lampante l’assenza della frittura nel celeberrimo triangolo culinario di Lévi-Strauss (1968). Nel “Breve trattato di etnologia culinaria”, l’antropologo compie una sistematizzazione, per opposizione, delle modalità di cottura prendendo in considerazione più popolazioni, occidentali e non. Le tecniche in gioco sono la bollitura, l’arrosto e l’affumicatura e, relativamente alle culture prese in esame, queste possono associarsi, a seconda dei casi, ai termini più profondi del crudo, del cotto e dell’umido.

Il semiologo Marrone, in un’analisi del testo di Brillat-Savarin (2016a, cap. VI), si sofferma proprio sulla “Teoria della frittura” mettendo in luce due aspetti fondamentali. In primis, la frittura si caratterizza per una particolare disposizione aspettuale che coinvolge tanto gli alimenti quanto i loro destinatari: tanto la trasformazione della materia immersa nell’olio ardente è un processo repentino, quanto la sorpresa di chi attende dinnanzi a questo processo partecipa a una sorta di catarsi alimentare coestensiva al consumo dell’alimento. Questo primo aspetto più teatrale potrebbe spiegare come mai, lo vedremo nell’analisi, i luoghi del tradizionali fritto sono caratterizzati per una condivisione live delle fasi di cottura e consumo, inscindibili nell’esperienza del consumo di strada e che i format di concezione più recente tendono a riproporre. In secondo luogo, Marrone utilizza le categorie di trasformazione della materia proposte da Bastide (1987) per opporre l’operazione di frittura alla bollitura di lévi-straussiana memoria: laddove la bollitura nell’acqua dei cibi provoca la loro apertura, destrutturazione, mescolanza ed espansione – in altre parole, diciamo noi, ne attiva la permeabilità – il fritto si caratterizza per la chiusura dei cibi, la loro non-destrutturazione e non-mescolanza, e la loro concentrazione.

Questo processo di chiusura e cauterizzazione del cibo attaccato dall’olio ustionante ispirò un’amara metafora di Barthes (1984, p. 365), il quale paragonò l’accerchiamento subito dal pezzo di patata gettato nell’olio alla propria immagine gettata in pasto all’opinione pubblica e ridotta a oggetto di consumo in un banchetto verace, proprio come accade a una patata fritta.

Come nota Marrone (2016b), la frittura sembra ispirare Barthes in più punti della sua opera. In un celebre articolo sulla bistecca contenuto nei Miti d’oggi (1957), Barthes elevò le frites – ossia le patate fritte – a metafora della francesità. Riflettendo sulla cultura alimentare americana in un pionieristico saggio sugli studi alimentari (1961), sempre Barthes contrappose la sensazione crispy, caratterizzante tanto i cibi fritti quanto le bevande statunitensi, allo zuccheroso riscontrabile altrettanto frequentemente nei cibi oltreoceano. Quest’ultima lettura è per noi molto interessante perché ripertinentizza l’alimento fritto attraverso una forma dell’esperienza che è anche acustica e tattile, aprendo la strada a un’analisi polisensoriale del fritto. Di riflesso, il fritto è di nuovo sotto i riflettori nelle considerazioni sulla cucina giapponese contenute ne L’impero dei segni (1970), come negativo della tempura orientale. Se al fritto occidentale si associa la pesantezza e l’untuosità, nella tempura tutto nega il fritto: dalla secchezza dell’olio alla freschezza della materia che ne esce.

Il paradosso del fritto è presto servito: la frittura di qualità sembra essere quella che nega le sensazioni – specie tattili – che identificano il fritto stesso.

2. Il fritto in Italia e in Sicilia

In Italia si riscontra una larga varietà nei modi di friggere, dipendentemente dalle ragioni storico-culturali retrostanti alle aree geografiche in cui si frigge. Queste differenze si notano in primis nel tipo di lipidi utilizzati, che sono condizionati dalla doppia genitorialità delle cucine italiane, quella continentale dell’allevamento e quella meridionale di radice cristiano-ellenistica (Montanari, 2004). Se nel nord Italia è comune l’utilizzo di grassi animali – o di derivazione animale – come conduttore calorico, aventi la peculiarità di essere solidi a temperatura ambiente, nelle zone peninsulari e costiere del paese ad avere la meglio – come in tutto il Mediterraneo – sono gli oli vegetali, originariamente d’oliva.

Il termine italiano frittura viene genericamente utilizzato per indicare la frittura profonda (in inglese frying o deep frying), operazione culinaria che si oppone alla frittura bassa, in alcuni casi definita soffritto (in inglese, indistintamente, frying). Questa differenza linguistica rispecchia l’indulgenza con cui, nel Belpaese, tendiamo a non marcare come fritti i cibi che sono stati cotti con un’immersione nel grasso solo parziale, rituale d’obbligo per i condimenti di paste e risotti. Questa ragione di convenzionalità linguistica che, ovviamente, rispecchia una convenzionalità che è altresì pratica e culturale, giustifica la scelta di annoverare, nelle forme del fritto di cui qui parleremo, solamente esperienze di frittura deep.

La Sicilia, sede del nostro corpus d’analisi, è un caso rappresentativo: l’ampia disponibilità di olio si è espressa e fissata in occasioni di frittura pressoché ubique, quotidiane e celebrative, domestiche e non. Tuttavia, mentre nel registro domestico il fritto è molto spesso una tradizionale fase di semi-lavorazione degli ingredienti – oggi rimossa in virtù delle dietetiche ipocaloriche – che li rende idonei al loro assemblaggio in preparazioni più elaborate, come le note parmigiane e i timballi, fuori casa la frittura sembra prestarsi come cibo di strada, una forma di produzione e fruizione antesignana del fast food, rivalutata oggi sotto l’etichetta di street food. Sul piano più strettamente culinario, è dunque notevole la circoscrizione del fritto a generi di cucine e luoghi socialmente marcate come basse. Il già citato fast food, certo, ne è un esempio. Non è da meno per la tipologia tutta palermitana dei luoghi che abbiamo preso in considerazione nel nostro lavoro. Lo stigma, come vedremo, è reso evidente dalla narrativa del coinvolgimento sensoriale caratterizzante le diverse occasioni di consumo, e in particolare dal problema di dover gestire tale coinvolgimento, in qualche modo limitando il rischio di compromissione che provoca. Tanta popolarità, in tutte le accezioni del termine, sembra non aver giovato alla considerazione del fritto in ambiti gourmet e colti, fatta eccezione per le trattazioni più recenti che giocano appunto proprio sulla riabilitazione ex-post di questa modalità di appropriazione alimentare.

Palermo è un caso studio eccellente dato che la frittura è presente in entrambe le principali categorie del discorso alimentare cittadino: il cibo di strada e il cibo domestico. Nel cibo di strada, il fritto è la modalità di cottura preponderante. Il cibo di strada è una configurazione alimentare fast (sempre per contrapposizione al domestico) ben antecedente ai fast food, pure comunemente identificati per l’uso abbondante della frittura (che porta con sé accezioni sensoriali talvolta simili, come l’odore penetrante). Il cibo di strada è consumato in piedi, tradizionalmente preparato da uomini per altri uomini (Giallombardo, 2007) e si caratterizza per gli effluvi forti che coinvolgono indifferentemente chi cucina e chi mangia. Al contempo, l’esperienza di consumo del cibo di strada nei ristoranti, oggi comune, ricontestualizza completamente il fritto come portata. Infine, oggi nascono molti locali ibridi che mischiano l’esperienza del cibo di strada con i canoni dei luoghi di produzione/consumo pubblico del cibo più convenzionali.

La nostra osservazione di queste diverse tipologie di luoghi in cui si consuma il fritto (fritto come “cibo di strada” dei mercati tradizionali; fritto come street food nobilitato nei locali ibridi alla moda; fritto come portata di “antipasto” nei ristoranti) si concentra sulla dimensione esperienziale e polisensoriale della degustazione, situandola all’interno del proprio contesto di consumo e sondandola nella sua realtà sinestesica.

3. Ipotesi di ricerca e analisi di tre forme del fritto

 Le diverse prospettive che la letteratura e i testi mediatici adottano nel descrivere il ‘fritto’ e ‘la frittura’ ci inducono a pensare che sia proficuo inserire l’alimento fritto, tanto il processo di preparazione che subisce, all’interno di un sistema di relazioni inter-soggettive e inter-oggettive più ampio, dato da luoghi, attori, percezioni e modalità di socializzazione caratteristiche. In altre parole, come avviene per molti casi di studio gastronomici, la forma di trasformazione del cibo – in questo caso il fritto – è intessuta in specifiche forme di vita ed esperienze sensoriali che non a caso tendono a ripugnare chi non vi sia educato. Da qui, la nostra scelta di cogliere le esperienze di fruizione del fritto attraverso una modalità di osservazione partecipante, andando direttamente sui “luoghi del fritto”.

Inoltre, tale “osservazione” è stata già di partenza polisensoriale (sarebbe dunque corretto parlare al contempo di “ascolto”, “olfazione”, “tatto” e “degustazione” partecipante) in quanto ci si è riproposti di leggere l’interconnessione tra i diversi canali sensoriali al momento della fruizione del fritto, alimento e procedura gastronomica particolarmente coinvolgente dal punto di vista percettivo. Per l’analisi polisensoriale, siamo partiti dai modelli della sensorialità sviluppati in ambito semiotico (in part. Fontanille, 2004 e Landowski, 2004), tentando di sviluppare un approccio olistico che, se in prima istanza separa i canali sensoriali in maniera analitica, successivamente ne ricostruisce l’interazione sinestesica in maniera sintetica.

Dato un soggetto dell’estesia, ovvero un corpo sensibile, in posizione di attante bersaglio sotto l’eventuale stimolo di un attente sorgente (Fontanille, 2004), postuliamo un campo polisensoriale che si compone di sensi sullo sfondo e di sensi in figura. Tale campo è “elastico” nel senso per cui la sua conformazione – data dalla percentuale in cui ogni senso è chiamato in causa rispetto agli altri – cambia nel tempo: di volta in volta, possono divenire figura ad esempio vista e udito, in quanto maggiormente stimolati, mentre l’odorato restare sullo sfondo, come anche il tatto e il gusto possono divenire figura e i restanti sensi restare sullo sfondo, e così via. Le percezioni del campo polisensoriale seguono almeno due principi – di temporalità (continuità/discontinuità temporale) e di intensità secondo una scala graduata (ad esempio: nullo, poco intenso, medio intenso, forte, molto intenso) – e pongono la sinestesia come primaria rispetto alla separazione dei canali sensoriali. Postulare come primario un incrocio sinestetico (Battistini e Mondino, 2017) permette infatti di mettere in luce  competenze sensoriali spesso lasciate in secondo piano come la visione aptica, l’udito aptico, ecc. In relazione alle “forme del fritto” vedremo come sia molto importante ad esempio  l’odorato aptico, generando effetti di permeabilità, attraversamento e unzione. In continuo funzionamento all’interno del flusso percettivo di “scambio” con il mondo (Merleau-Ponty 1945), il campo polisensoriale è infine funzionale all’identificazione di una “sintagmatica dei sensi” alla base di ogni esperienza. È proprio in base alla loro diversa sintagmatica sensoriale che ci è stato possibile analizzare e distinguere tre diverse “forme del fritto”, ciascuna propria a tre luoghi gastronomici specifici della città di Palermo.

3.1. Mercati tradizionali e fritto di strada

I mercati storici di Palermo sono il punto di partenza delle nostre osservazioni. Localizzati nel centro storico della città e legati alle radice culturale araba si caratterizzano come luoghi emblematici di produzione e consumo di cibo. Qui si preparano quelli che sono gli alimenti della cucina di strada di Palermo e il fritto ne occupa un ruolo importante. Come scrive Giallombardo “il mangiare di strada disegna nella rete delle vie e dei mercati itinerari olfattivi e gustativi che, ultimi, rimandano ancora a una cultura dell’alimentazione fortemente intrisa di sensorialità” (2007, p.133). Le modalità di consumo di tali cibi all’interno dei mercati e l’esperienza che si determina a partire dalla sollecitazione sensoriale ne fanno una categoria alimentare specifica carica di significati gastronomici e culturali.

Passeggiando per i mercati tradizionali del centro storico di Palermo, come Ballarò e Il Capo, la prima instanza sensoriale del fritto a emergere è sul piano dell’olfatto: l’odore di fritto, sineddoche del cibo, prorompe come figura all’interno del campo polisensoriale, per poi rimanere sullo sfondo, così accompagnando tutta l’esperienza estesica. Già a questo stadio l’odore del fritto, per la sua intensità, entra in relazione al tatto e possiamo definirlo sinestesicamente come “pungente”. Seguendo l’odore, come una pista olfattiva, si arriva al banchetto di strada che offre pane e panelle, crocché (crocchette di patate), cardi fritti e altre specialità. Qui entra in gioco la vista e la relazione vista-odorato: una volta in piedi davanti al banchetto è possibile vedere, attraverso la bassa parete di vetro del banco, gli alimenti che si possono ordinare per essere fritti. Dal punto di vista modale, tale parete come infrastruttura gestisce la competenza pragmatica, cognitiva ed estesica del soggetto fruitore: esso infatti può vedere, ma non può toccare gli alimenti (il banco di vetro arriva fino all’altezza delle spalle di una persona di media statura, in modo che sia molto difficile per il passante e eventuale acquirente di allungare le mani per prendere direttamente i cibi). L’esposizione e dunque la visione degli alimenti impanati sul banco – ma non ancora fritti – è funzionale sul piano cognitivo alla scelta dell’alimento: guardando cosa c’è a disposizione, si mette il fruitore in condizione di decidere cosa voler assaggiare.

Nello stesso tempo, è possibile vedere al di là o a fianco del banco di vetro la caratteristica larga padella piena di olio, posta sopra a una bombola del gas fornita di un solido fornello. L’odore di fritto emana sia dalla padella che dalle pietanze già fritte esposte sul banco o vendute ai vicini. In attesa della frittura, l’olio non sfrigola: a livello sonoro è il fuoco del fornello ad essere presente con intensità proporzionale a quella dell’uscita del gas dalla bombola. Sempre in questo momento di attesa, è il paesaggio sonoro (Schafer, 1977) del mercato (i passi sul selciato, le “abbanniate” dei venditori (urla, declamazioni), il passaggio di qualche motorino, il tubare dei piccioni, lo sbattere delle loro ali, ecc.) a essere in evidenza nel campo polisensoriale, assieme al paesaggio visivo e olfattivo (all’odore del fritto si può mescolare di tanto in tanto quello del tubo di scappamento di qualche motorino che sfreccia tra i vicoli; per una rassegna dei principali studi di “paesaggi sensoriali” legati ai mercati cfr. Battistini e Mondino, 2017). È solo dopo aver scelto l’alimento da friggere, nel momento in cui l’uomo al bancone immerge i cibi nell’olio che il suono del fritto entra nel campo sensoriale come figura, in maniera puntuale (dura qualche secondo) ma intensa. L’isotopia (ridondanza semantica, cfr. Greimas e Courtés, 1979) del fritto sul piano sonoro si manifesta secondo la figura dello “sfrigolio”, tipico dell’olio bollente nel momento preciso in cui aggredisce e cauterizza un corpo estraneo. Al momento dell’immersione dell’alimento, in contemporanea con il climax sonoro, si emana anche l’odore tipico di questa procedura. Una volta immerso nell’olio l’alimento, il suono della frittura subito si attenua per poi scomparire.

Dopo una breve attesa, inferiore a due minuti, si viene serviti sul banco con il fritto scelto: al momento della fruizione, i sensi in figura sono il tatto e il gusto in relazione sempre all’odore e in parte minore alla vista e all’udito. Il tatto si caratterizza come uno dei sensi principali insieme all’olfatto: nei mercati l’alimento fritto viene servito su semplici fogli di carta (p.e. i broccoli fritti), su un piattino di plastica bianca (p.e. le crocché) o all’interno di un panino (p.e. pane e panelle). A parte questi semplici supporti, non si usano altre mediazioni: le posate qui non esistono, il fritto si mangia con le mani. Lo stesso uomo al banco prende le pietanze fritte direttamente con le mani senza problemi. Manca dunque il tentativo di amministrare il senso igienico, che non pone problema perché non viene proprio preso in considerazione: all’interno del sistema valoriale del mercato il discorso igienico non sembra essere pertinente. Per il contatto diretto con il fritto, la sensazione untuosa a livello tattile è pervasiva e persistente e può essere letta come coestensiva alla sensazione olfattiva. L’unto del fritto permea i fogli di carta e la pelle delle dita, provocando un conflitto modale per il fruitore, che vuole mangiare e non può non toccare ma che non vuole sporcarsi cioè non vuole ungersi). Ma data l’assenza di oggetti mediatori, non ci si può non ungere. Se da una parte il contatto diretto con l’alimento fritto espone alla sua isotopia tattile cioè all’unto, dall’altra permette di valutare con le dita la consistenza della frittura e dell’alimento fritto e la sua temperatura. La relazione tra tatto, olfatto e gusto è qui molto stretta: accompagnata dall’olfatto, la sensazione gustativa arriva dopo un percorso sensoriale già ricco e complesso. Attraverso il gusto si può apprezzare la qualità della doratura appena fatta (competenza aptica del gusto) e cioè la sua consistenza, giudicabile come resistenza ai denti e al palato, al di sotto della quale si cela il sapore dell’alimento, che viene amplificato proprio dall’essere racchiuso dalla frittura (competenza propria del gusto nel discernere i sapori). L’alimento fritto, nei mercati tradizionali, diviene così “gustoso” proprio per il percorso polisensoriale che si caratterizza per l’intensità delle stimolazioni percettive data dall’esposizione e il contatto diretto del corpo con il fritto, nelle sue varie manifestazioni sensibili (odore di fritto, doratura, sfrigolio, unto, leggera ruvidezza al palato) che ne costituiscono l’isotopia figurativa e sinestesica. Infine, tale intensità percettiva del fritto dei mercati, produce una coda polisensoriale: allontanandoci dal banchetto, ormai sazi, continuiamo ad avere il sapore del fritto in bocca, il suo odore nel naso e le dita delle mani ancora un poco unte.

3.2. I ristoranti e il fritto come antipasto

Lo street food è ormai parte integrante dei menù di trattorie e ristoranti palermitani: trasformato da cibo estemporaneo a portata, viene spesso collocato tra gli antipasti. In questo caso abbiamo scelto di prendere in considerazione I Cascinari, nota trattoria tradizionale che si rifà a un registro culinario tipico, piuttosto che creativo. Il fritto e in generale i cibi che rimandano alla tradizione della cucina di strada occupano un ruolo importante all’interno delle scelte culinarie della trattoria ma inevitabilmente, il tipo di esperienza che si determina è sensibilmente diverso rispetto alla dimensione di strada.

Ciò è dovuto in primis all’uso dei piatti e delle posate che si frappongono come alternativa alle mani, escludendo il contatto diretto con il cibo e assecondando le istanze igieniche del pasto tradizionale. E, in secondo luogo, al consumo seduti a tavola, anziché in piedi o appoggiati sugli sgabelli come vedremo nel caso più innovativo.

Rispetto ai mercati, dove l’odore anticipava addirittura il luogo di consumo, la dimensione olfattiva negli spazi del ristorante è narcotizzata dalla separazione degli spazi di preparazione e di fruizione del fritto e l’olfatto viene sollecitato soltanto al momento del consumo. Analogamente, la preparazione del fritto è interdetta allo sguardo del visitatore, che si trova dunque a non-poter vedere. Questa separazione rompe una continuità narrativa tra frittura osservata e mangiata che avevamo visto essere determinante nella ‘catarsi’ del fritto.

Tutto ciò si discosta in maniera netta dagli altri due spazi presi in rassegna, dove la presenza del vetro permette invece una congiunzione visiva e una “promessa” legata al poter-vedere la preparazione del fritto.

Inoltre, a rimetterci è la dimensione sonora inerente la preparazione delle pietanze, sia fritte che non: a caratterizzare l’ambiente è piuttosto il brusio generato dalle conversazione dei clienti. Rispetto al gusto, la degustazione dell’alimento fritto avviene in maniera immediata una volta che il piatto è servito: l’attesa che consentiva di contemplare sinestesicamente la sequenza della preparazione è qui assente. Non abbiamo odorato, visto né udito finora il fritto, ma ci troviamo di colpo a mangiarlo con le posate, cioè senza toccarlo. Rispetto al fritto, il campo polisensoriale vede qui attivi solo la vista e l’olfatto, al momento del servizio, e in più del gusto, al momento dell’assaggio. La dimensione tattile è qui narcotizzata e il gusto del fritto deve lasciare posto più o meno velocemente a quello dei piatti principali, che siano primi o secondi. A prevalere, insomma, è l’istanza igienica che limita volutamente tutta la sfera aptica – e più caratteristica – dell’esperienza del fritto.

Fritto come antipasto. I Cascinari, Palermo

3.3. I fast food dello street food: fritto à la mode

Da pochi anni, il cibo di strada è soggetto a un’opera di rivalutazione e traduzione dal contesto “popolare popolare” dei mercati tradizionali al contesto “popolare mainstream” dei nuovi locali enogastronomici per un pubblico giovane, social e alla moda1. A Palermo, l’appeal del cibo di strada ha portato alla creazione di nuove forme di mangiare in pubblico: locali ibridi, tra i fast food e le friggitorie, dall’interior design curato e dalla comunicazione accattivante che reinventano la tradizione della frittura di strada. Possiamo annoverare in questo nuovo genere la catena ChePalle! specializzata in arancine siciliane e Passami ù coppu, di recentissima apertura, che propone fritture tradizionali e creative di ogni sorta. Abbiamo deciso di prestare attenzione a Passami ù coppu, per la continuità con le fritture siciliane servite sia nei mercati, da una parte, che nei ristoranti, dall’altra.

Passami ù coppu è situato all’incrocio tra due delle principali arterie di Palermo, via Roma e corso Vittorio Emanuele, e prende il nome dall’oggetto del “coppo”, cioè del caratteristico cono di carta usato nei mercati per confezionare solitamente i prodotti freschi (principalmente ortofrutta). Se il nome del locale strizza l’occhio alla cultura di strada e ai mercati, il menù già se ne discosta un poco, proponendo oltre alle fritture classiche (pane e panelle, crocché, ecc.) una serie di abbinamenti originali (p.e. fiori di zucca con ricotta, panzerotto con scarola e caciocavallo, cannolo salato tonno e menta, gamberoni in pasta kataifi, sarde a beccafico, ecc.). Questo è quello che subito ci comunica visivamente il grande treppiede mobile all’esterno dell’ingresso che, riportando il menù, elenca una serie di fotografie di coppi riempiti con le differenti fritture ognuna corredata dal nome della pietanza e tutte contenute tre le scritte “Street food”, “Friggitoria” e “Friggiamo a vista”.

Il senso della vista condensa larga parte dell’esperienza del fritto in questa nuova e interessante friggitoria. Prima di tutto, gli occhi sono colpiti dai colori accesi degli apparati comunicativi e dei decori che, seppur su sfondo bianco, utilizzano il rosso vivo, il giallo, il blu e il verde acqua. I decori riprendono sul pavimento di mattonelle e nella parte bassa e alta dei banchi della cucina motivi grafici e figure tipiche della tradizione siciliana come ad esempio il simbolo antico della Trinacria. I muri sono riempiti con oggetti popolari come le ruote di carretti siciliani e i lampadari principali sono fatti a forma di cesti tradizionali di stoffa colorata. Completano l’ambiente due serie di lampadine di grosso formato che ben illuminano il locale. Quest’ultimo, poco profondo, si sviluppa in orizzontale presentando, in ordine e a partire dalla parete di destra: la cassa; la cucina “a vista” chiusa dietro un’intera parete di vetro che presenta comunque dei vani di comunicazione aperti sul banco, dove sono riposti dei distributori di salsa ketchup, maionese e senape; un angolo caffetteria, compresa di gelateria; un espositore di prodotti tipici di alto livello gastronomico a forma di libreria di legno; il bancone per i clienti e uno o due tavolini alti, completi di alti sgabelli.

Da questi primi elementi visivi capiamo che Passami ù coppu rappresenta per certi versi un capolavoro di sincretismo e bricolage di sotto-discorsi gastronomici diversi: la tradizione siciliana (fritture classiche, decori e oggetti della cultura tradizionale); il fast-food (salse da hamburger, fruizione in piedi, bancone); la moda local e biologica (espositore prodotti “kilometro 0”); i servizi da bar per locali e turisti (caffetteria, gelateria).

Passami U’Coppu

La parete in vetro, che separa la cucina dalla sala ma che permette di vedere i cuochi all’opera durante la frittura (tutti rigorosamente in una divisa colorata con gli stessi motivi dei decori e con guantini in lattice azzurri), merita una riflessione a parte. L’uso della vetrata consente infatti al consumatore di vedere in tempo reale la preparazione del cibo che consumerà. Come ricorda il semiologo dello spazio Hammad, “Se, da un punto di vista antropomorfo, la parete in vetro enuncia di fronte a colui che vi si avvicina l’interdizione alla congiunzione somatica e l’autorizzazione alla congiunzione visiva, essa è, per colui che l’ha installata, in una situazione differente: gli deve un servizio, quello di compiere il suo ruolo” (2003, p. 214). La parete in vetro non insegue semplicemente la moda della cucina a vista, ma l’effetto di senso che tende a costruire è quello di far rivivere l’esperienza visiva che caratterizza il modo di preparare i cibi negli spazi dei mercati. Solo che qui, il classico vetro del banchetto del mercato è divenuto una parete intera, con tutta una serie di conseguenze percettive che, come ricorda Hammad, riguardano l’interdizione somatica. In primis, quella della narcotizzazione (Eco, 1979) del senso dell’odorato: ciò che stupisce entrando nel locale è la quasi completa assenza del tipico odore di fritto (non poter sentire), con cui si entra in contatto solo al momento del ritiro del coppo dal vano della cucina e della fruizione del cibo. All’iniziale mancanza dell’olfatto fa da contraltare l’effetto di saturazione visiva, come già descritta, e sonora: nel locale vengono infatti diffuse a un volume medio-alto delle frequenze radio con musica pop e rock mainstream (canzone italiana moderna e successi internazionali soprattutto anglosassoni). Fino a qui, il campo polisensoriale è dominato dalla vista e dall’udito in posizione di figura e marcato dall’assenza dell’odorato.

Rispetto all’isotopia del fritto, l’unica congiunzione sensoriale permessa è quella attraverso la vista: buttando un occhio al di là del vetro si riesce a scorgere il procedimento di frittura e tutte le precauzioni per rassicurare sull’igiene alimentare (ingredienti chiusi in confezioni ermetiche, guantini, ecc.). L’isotopia dell’igiene viene confermata anche dal lato del fruitore: in un angolo del locale svetta infatti una torretta a nome della marca Amuchina che dispensa gocce del famoso disinfettante. Esso può essere utilizzato sia prima del pasto, al posto del lavarsi le mani, sia al termine di esso per sgrassarsi dall’unto della frittura. In realtà, una volta con il coppo in mano, viene data la possibilità di pescare i pezzi di alimenti fritti utilizzando delle forchettine di legno: protesi delle dita, sono chiamate a risolvere il conflitto modale tra il voler toccare e il non voler ungersi. Ad ogni modo, mangiare con le mani non è vietato e se lo si fa, si può notare come a livello del tatto il fritto di Passami ù coppu si presenta come molto meno unto rispetto a quello dei mercati tradizionali. Il tatto conferma ciò che promette la vista: la doratura compatta e omogenea è confermata da entrambi i canali sensoriali. Al contempo, la frittura emana una fragranza sia a livello olfattivo che, successivamente, a livello sonoro, al momento del morso, in cui il con-tatto con i denti segnala una crosta leggermente croccante. La dimensione tattile della sfera gustativa conferma una frittura di qualità, sempre asciutta e croccante (marcata semanticamente dalla leggerezza, come la tempura di Barthes; crf. supra, par. 1).

5. Conclusioni

Per riassumere le tre esperienze polisensoriali, proponiamo uno schema sintetico delle opposizioni e modulazioni riscontrate nei luoghi visitati, una struttura delle tre ‘forme del fritto’:

Come vediamo, il campo polisensoriale del soggetto dell’estesia secondo un’isotopia creata dalla relazione tra i suoi modi sensibili di manifestazione: la doratura (vista), lo sfrigolio (udito), l’odore pungente (olfatto), l’unto (tatto) e la tendenza dolce (gusto). Tra questi, la componente tattile si rivela di particolare importanza, sino ad esprimersi anche attraverso altre sfere sensoriali: si pensi all’odore intenso e “penetrante” (olfatto aptico), allo “sfrigolio” che veicola la matericità dell’alimento a con-tatto con l’olio bollente (udito aptico), fino al ribollire del pentolone nel momento subito successivo al contatto caustico (vista aptica).

Lo stesso flavour del fritto, ossia la sensazione di bocca al momento del consumo, lungi dall’essere una esperienza riducibile al senso del gusto, è fortemente marcato da elementi tattili come il contrasto tra untuosità, morbidezza e croccantezza. In questa relazione a tre, l’unto si dà all’interno di un gradiente qualitativo che oppone  morbido (fritto molto unto, la doratura è ammorbidita dagli olii) a fritto croccante (fritto poco unto, la doratura rimane croccante perché asciutta e poco oleosa).

In secondo luogo, proprio la gestione dell’unto e del suo caratteristico conflitto modale (voler toccare VS non voler ungersi) è centrale nel differenziare le tre forme dell’esperienza del fritto analizzate: l’analisi dei supporti e dei suppellettili mette in luce un discorso dell’igiene che richiede di evitare il contatto diretto tra corpo e alimento fritto. Questo è all’opera nei locali gastronomici pubblici, come le nuove friggitorie à la mode (coppo, forchettine di legno) e i ristoranti (posate, piatti di ceramica), senza toccare i mercati (fogli di carta, mani).

Com’era emerso sin dalla disamina letteraria, è importante rimarcare che anche nell’esperienza di consumo in vivo del fritto ritroviamo la polemica immanente tra consumatore e untosità, nella misura in cui questa figura tende a invadere e inglobare tutta la sfera sensoriale del consumo. Il fritto di qualità è quello che nega uno dei tratti costitutivi del fritto e si dà come non-unto, dove l’unto, come abbiamo appena evidenziato, va ben oltre i polpastrelli (ciò avviene in particolare nei due ultimi casi, il ristorante e la friggitoria innovativa).2

I tre luoghi del fritto si differenziano anche per una diversa utilizzazione del canale visivo, sempre in relazione agli altri sensi, attraverso uno specifico elemento architettonico fondamentale che è quello del vetro:

  • nei mercati troviamo giusto una piccola barriera che sebbene escluda una congiunzione tattile (prendere il cibo), consente una congiunzione visiva (scegliere il cibo), uditiva (ascoltarlo friggere) e olfattiva (sentirne l’effluvio);
  • presso il ristorante I Cascinari, il muro che separa visivamente la sala dalla cucina previene ogni congiunzione diretta con la procedura di preparazione del fritto, che arriva al tavolo come pietanza bell’e pronta da mangiare.
  • Passami ù coppu tenta una mediazione tra i due casi precedenti, interponendo una parete trasparente che inquadra la cucina e la spettacolarizza, consentendo solo una congiunzione visiva e escludendo tutte le altre. Si tratta sicuramente della soluzione più à la page, che ben si coniuga a una fruizione alimentare più voyeuristica e social (cfr. Marrone 2016a sul food porn, cap. 10);

In ognuno dei tre luoghi analizzati il poter-vedere viene dunque modulato diversamente ed entra in diversa relazione con il resto della competenza polisensoriale (poter odorare, poter ascoltare, ecc.).

Ciò provoca delle conseguenze sul gusto come effetto di senso globale, che si arricchisce o si affligge in base al percorso polisensoriale che lo precede e che caratterizza la particolare esperienza del fritto (ad esempio l’effetto di senso di “gustoso”): nella misura in cui la fruizione igienica del fritto segrega il contatto alimentare da ogni coinvolgimento sensoriale precedente (risparmiandoci almeno la vista, nel locale più à la mode), siamo allora nella sfera della degustazione, dove una ricostruzione artificiale delle condizioni ambientali – che determinano quelle percettive – permette un contatto tra soggetto e alimento di matrice decisamente più verticale e, sensorialmente, analitica.

Da un punto di vista che potremmo definire più deontologico, tale modulazione igienica del contatto sembra invece essere la precondizione semiotica per la tematizzazione gourmet di un alimento che mantiene la propria carica peccaminosa: una sorta di piccola trasgressione consentita.

1 A Palermo, dove questa rivalutazione (e risemantizzazione)  è particolarmente sentita anche per ragioni turistiche, spicca la recente pubblicazione di ben due testi sullo street food locale, che comprendono le fritture di cui parliamo in questa sede: Lombardo, Petrona Baviera e Puglisi (a cura di), 2015; Basile (2015).
Da un punto di vista semiotico, siamo di fronte a un’assenza marcata o, in altri termini, a una presentificazione dell’assenza (Paolucci, 2013, cap. 5.4).

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Emiliano Battistini è dottorando in Studi Culturali Europei presso l’Università di Palermo dove si interessa di semiotica, sound(scape) studies e polisensorialità.

Marco Mondino, dottore in Studi Culturali Europei presso l’Università di Palermo, si interessa di visual studies e semiotica visiva e dello spazio

Davide Puca è dottorando in Scienze del Patrimonio presso l’Università di Palermo e si interessa principalmente di semiotica, food and wine studies.