ARTE E POLITICA
Mi-lieus. Il gioco della profanazione
di Giulia Grechi

§ Get Out of Here!

“Va’ via, via, ma non per terra.
Salpa, salpa, ma non per mare.
Vola via, vola via, mio bravo,
ma non toccare l’aria.”

(Wislava Szimborska, Discorso all’ufficio oggetti smarriti, Adelphi, Milano, 2004)
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In un’ampia stanza della Swell Gallery San Francisco Art Institute, più o meno all’altezza dello sguardo, un piccolo supporto in plexiglas appeso al soffitto resta sospeso a mezz’aria nell’atmosfera vuota e illuminata della stanza. Sopra, tre flaconcini con il tappo nero. Dentro i flaconcini tre mosche morte. Sotto ognuno, un francobollo timbrato rispettivamente Rabat, Roma, San Francisco. Lo sguardo quasi ci inciampa, preso nello scarto vertiginoso tra l’ampiezza della stanza e le dimensioni ridotte dell’installazione. Mi-lieus di Fiamma Montezemolo e Donald Daedalus costruisce meticolosamente questo senso di sospensione. Sembra appuntarsi su una modalità “astigmatica” del guardare, che si perde tra il vicino e il lontano, percependoli entrambi come prospettive fuori fuoco. Per “vedere bene” quest’opera occorre ricollocarsi continuamente, spostare di volta in volta la propria posizione nello spazio, allargare o diminuire la propria distanza dall’installazione stessa, piegare la schiena per guardare in basso, da sotto, alzarsi sulla punta dei piedi per sbirciare dall’alto, girare tutto intorno, alzare lo sguardo verso il soffitto per vedere da dove vengono i fili sottili che sostengono questo piccolo dispositivo di mostrazione (o dove vanno a finire). Muovere il proprio corpo, insieme allo sguardo. 
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F. Montezemolo e D. Daedalus, Mi-lieus, 2010, 2010 (Courtesy of Donald Daedalus)

Quando Fiamma Montezemolo mi ha scritto di questo lavoro, e di come è nata la collaborazione con Donald Daedalus, mi ha raccontato di aver visto, mentre si trovava in Marocco la scorsa estate, il video di Obama che durante un’intervista viene disturbato e interrotto da una mosca piuttosto insistente. Nonostante i ripetuti avvertimenti (“Get out of here!”) e tentativi di scacciarla, rinforzati dal commento infastidito del giornalista (“That’s the most persisting fly I’ve ever seen!”), non c’è stato verso di allontanarla e quando la mosca si è posata sulla mano del Presidente degli Stati Uniti d’America, si è verificato l’impensabile: Barack Obama, Premio Nobel per la pace e leader di una delle maggiori potenze del mondo, uccide inesorabilmente e in diretta televisiva la mosca con un gesto spietato, netto, preciso e decisamente compiaciuto (“That was pretty impressive, wasn’t it? I got the sucker! (…) It’s right there. Do you want to film that? There it is”).

Tralasciando le ire fuori misura degli ambientalisti che l’atto moschicida di Obama ha sollevato, quello che colpisce è la “scompostezza” improvvisa alla quale Obama si lascia andare in relazione alla mosca. Sembra quasi che questo piccolo insetto, tanto quotidianamente presente nelle nostre vite da diventare una sorta di presenza trasparente, fastidiosa ma così quotidiana da diventare ininteressante, provochi una improvvisa perdita di controllo, e una serie di movimenti corporei tesi a ristabilire un ordine che la mosca ha turbato con la sua irruzione nella scena. La messa in scena del potere e del suo corpo (il corpo maiuscolo di Obama-Presidente) viene turbata, profanata e scioccata dal “basso materialismo”1 di un corpo inopportuno (il minuscolo corpo-mosca), simbolo qui di quei soggetti “residuali” che nella nostra contemporaneità di migrazioni più o meno forzate, di scenari postcoloniali o neocoloniali, si teme minaccino i luoghi degli attuali poteri con il ritorno pressante della loro corporeità e delle loro ragioni.

Dopo aver visto il video, Fiamma si imbatte in una mosca morta per terra, la raccoglie e, da Rabat, la spedisce in una busta a Donald Daedalus, artista che non conosce ancora personalmente, ma con il quale è in contatto per creare una collaborazione per l’esposizione alla Swell Gallery San Francisco Art Institute: “poi sono andata in Italia e gli ho spedito un’altra mosca da Roma. Lui me ne ha spedita una da San Francisco, dove si trovava. E così abbiamo raccolto e ‘collezionato’ tre mosche”2.

Il movimento dello sguardo e del corpo dell’osservatore intorno all’installazione, nel mettere in questione il punto di vista mono – oculare, singolare, oggettivante e universale del soggetto moderno, trova infine il suo punto di ancoraggio: provvisorio, perturbante, eppure decisivo. L’oscillazione dello sguardo, il girovagare del corpo, la sospensione della messa in scena vengono d’un tratto bloccati da un corpo morto, fissati su un piccolo, ostinato cadavere.


§ Have you ever heard of insect politics?

“You have to leave now and never come back here. Have you ever heard of insect politics?
Neither have I. Insects don’t have politics. They’re very… brutal. No compassion, no compromise.
We can’t trust the insect. I’d like to become the first insect politician. You see, I’d like to, but… I’m afraid.
(…) I’m saying I’m an insect who dreamt he was a man, and loved it. But now the dream is over.
And the insect is awake. (…) I’m saying… I’ll hurt you if you stay.

(David Cronenberg, The Fly, 1986)

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Bataille aveva una grande passione per gli insetti, in particolare le mosche. Soprattutto per il sentimento perturbante che le associa ad alcune ossessioni alla radice della cultura moderna, prima fra tutte la minaccia della sporcizia, dell’impurità, con tutto il carico metaforico di irriducibile alterità contenuto in essa. In Documents spesso torna e si fa sentire il ronzio petulante di questo insetto, che Bataille sollecita attraverso la messa in scena di “apparizioni scioccanti”, tanto sconcertanti come “quella di una mosca sul naso di un oratore”3, immagini che scuotano il lettore nei suoi sensi più profondi, provocandogli un’emozione violenta, quasi uno shock. Come l’immagine di J.A. Boiffard, Papier colant et mouches, 1930, che Bataille pubblica a commento del suo saggio sullo Spirito moderno e il gioco delle trasposizioni, in cui lo shock per il lettore era dato non solo dalla vista delle mosche fotografate, ma soprattutto dalle loro dimensioni, della grandezza di un alluce – segnatamente del proprio alluce, che girava più o meno distrattamente le pagine della rivista. La sollecitazione immaginativa di un contatto così prossimo e carnale tra umano e bestiale, di un accostamento così insolito come quello tra la mosca e l’alluce era teso a liberare quel senso perturbante che per Freud risiede nel riconoscimento di qualcosa di “proprio”, di familiare, laddove non ci si sarebbe aspettati altro che una definitiva e irriducibile estraneità.

Jacques-André Boiffard, Papier Collant et Mouches, Documents No 8, 1930


Nella quotidianità, di queste immagini legate al terrore desiderante per la più orrida bassezza corporea, il soggetto moderno conosce solo la forma negativa: “i saponi, gli spazzolini da denti, e tutti i prodotti farmaceutici la cui accumulazione ci permette di sfuggire penosamente ogni giorno alla sporcizia e alla morte. Ogni giorno, ci facciamo i servitori docili di queste minute fabbricazioni che sono i soli dei di un uomo moderno. Questa servitù continua in tutti i luoghi dove un essere normale può ancora recarsi. Si entra dal mercante di quadri come da un farmacista, in cerca di rimedi ben presentati per malattie inconfessabili”4.

Così nel plexiglas e nei flaconcini di Mi-lieus torna la rappresentazione di questa ossessionante asetticità, della negazione della carnalità da parte dello sguardo appropriativo della Nazione o della Scienza, e contemporaneamente la minaccia della sua ri-presentazione: nell’ambiguità della relazione prossimità-separazione tra i corpi senza vita delle mosche e i francobolli. Qui ad essere oggetto di una collezione non sono i francobolli, come sarebbe lecito aspettarsi per una certa consuetudine culturale, ma le mosche, o meglio tre mosche morte. Dei francobolli così siamo portati a notare non tanto l’aspetto estetico o il valore filatelico, quanto piuttosto quel residuo di umori che conservano sul loro lato aderente, quel tanto di sporcizia e di appiccicosa contaminazione corporea che ne fanno degli oggetti quasi-vivi, o quasi dei corpi: residui essi stessi, brandelli di pelle della Nazione.

Allo stesso modo le mosche nei flaconcini sono dei corpi di carne (per quanto non-più-vivi) e non semplicemente una rappresentazione (per quanto realistica), come le mosche di Boiffard. Non possono essere scacciate via con un movimento della mano nel tentativo di ristabilire l’ordine che la loro vista e la loro presenza ha turbato – come ha fatto Obama, o come ha fatto Cimabue di fronte alla mosca dipinta da Giotto sul naso di una figura. In entrambi i casi, la mosca è un corpo che si sottrae alla normatività del gesto e del potere: può solo essere uccisa, o altrettanto brutalmente cancellata dalla tela5.

Oppure, come avviene qui, può essere collezionata.


§ Altrove è dall’altra parte: il gioco della profanazione

“Altrove è dall’altra parte
basta dirigersi da sé
per andarci”

(Bernard Noël, Estratti del corpo, Mondadori, Milano, 2001)

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Il gioco di rovesciamenti tra estraneo e familiare,caro a Bataille e ai surrealisti (in particolare ai surrealisti-etnografi) è un territorio conflittuale e produttivo nel quale Fiamma Montezemolo si sente estremamente a suo agio, avendo lei stessa attraversato la frontiera porosa tra etnografia e arte. Nel suo doppio andirivieni, prima da etnografa interessata ai linguaggi visuali e all’arte contemporanea, poi da etnografa-artista che cerca di “incorporare la critica istituzionale, l’estetica relazionale e l’arte concettuale” (con una significativa inversione del paradigma di Foster dell’artista come etnografo)6, identifico quello spazio di “intersezioni trafficate”7 nel quale è possibile collocare questo “collaborative multi-media project”.Qui il “milieu”, l’ambiente, il contesto nel quale gli esseri vivono, sopravvivono o muoiono, concetto cruciale nel XIX secolo in zoologia, botanica e nelle scienze naturali, viene replicato, frammentato e, in un certo senso, giocosamente profanato. Il passo dal classificare e collezionare insetti al mappare, costruire tipologie e archiviare l’alterità culturale è breve e il termine “milieu” viene traslato con estrema naturalezza (come innumerevoli altri concetti e metodi di costruzione della conoscenza a partire dal XIX secolo) alle teorie sociali del periodo. Preso in quel processo di elaborazione del sapere attraverso la costruzione di archivi e classificazioni basati su criteri di omogeneità e serialità (tanto nei Musei di Scienze Naturali quanto nei Musei Nazionali, come in quelli Coloniali), un certo modello di scientificità si impone e si sovrappone trasversalmente allo sguardo nazionalista e a quello colonialista, fondando “un principio tassidermico come tecnologia politica”8: la sistematica e violenta sottrazione di un oggetto (una “specie” animale o umana, l’Altro, la Cultura, la Nazione) dal suo contesto di appartenenza e la sua “salvazione” dal presunto caos della decomposizione, della contaminazione, delle diaspore, costruendone un’identità stabile, monolitica, naturalizzata, cioè scientificamente vera o oggettivamente riconoscibile, grazie all’evidenza del visibile. Un’identità mummificata, da mettere in mostra come un animale imbalsamato. Ma “il ritorno delle ragioni del corpo (Nietzsche) scompagina il quadro precedente e svela le pratiche della biopolitica dei poteri inscritti dallo stato sul corpo che lo gestisce e lo disciplina. Lo stato moderno che inquadra il corpo, è anche e sempre allo stesso tempo, uno stato coloniale”9.

A questo proposito l’insistenza, in Mi-lieus, sul corpo delle mosche è eloquente. Si tratta della stessa specie di mosche, sia a Rabat che a Roma che a San Francisco: Calliphora vomitoria, secondo la denominazione di Linnaeus del 1758, le mosche (tra le più comuni) che si nutrono di carne in decomposizione. Questa sorta di transnazionalità della specie evidenzia l’assurdità dell’isomorfismo nel legame tra cultura, nazione, territorio e esseri viventi, che è qui sottoposto a critica nelle sue derive nazionali, in quelle coloniali, e infine in quelle che riguardano la costruzione della conoscenza scientifica. L’associazione che il corpo della mosca veicola, a partire dalla sua definizione scientifica, tra il corpo-cadavere di cui si nutre e i propri fluidi corporei (la “goccia di vomito” della mosca di Cronenberg, l’enzima che la mosca produce ed espelle sulla carne prima di nutrirsene) sottolinea la logica di prossimità tra lo sguardo scientifico, coloniale e nazionale, legata alle solidità delle opposizioni vita/morte, organico/inorganico, estraneo/familiare, conscio/inconscio. Questa “specie” di mosca, questi corpi (non-vivi) che si sono nutriti della carne decomposta delle “grandi narrazioni”10 della modernità, mostrati come reperti, poggiati su e sostenuti dalla tecnologia nazionale (i francobolli), insistono sui processi di costruzione del sapere, sul modo in cui lo sguardo scientifico, coloniale, nazionale, prima di fagocitare il suo oggetto nel proprio sistema di riferimento, lo ri-definisce con una oggettività corrosiva che ne mistifica i contorni. E lascia intravedere quanto questa sia una operazione essenzialmente corporea, dove i fluidi corporei scambiati anche con violenza sono quelli attraverso i quali passa, si riproduce e si mette in crisi non solo la dominazione, ma anche l’economia e la memoria (scientifiche, nazionali, coloniali).

Nota Agamben come il senso della profanazione stia tutto dentro la disattivazione dei dispositivi del potere che hanno precedentemente separato l’oggetto dal suo proprio contesto, collocandolo in un ordine normativo e auratico (la religione, il Museo, l’archivio). La profanazione può avvenire, come nel caso di Mi-lieus, attraverso una forma particolare di replica ironica e incantata di questo meccanismo di separazione, di riuso giocoso e liberatorio. Il gioco affettivo delle lettere spedite da Rabat e Roma a San Francisco e ritorno, così come il contrasto espositivo tra monumentalità e ordinarietà, il gioco di scala che si percepisce immediatamente guardando l’installazione, l’operazione surrealista/etnografica di rovesciare l’archivio nella collezione, di collezionare oggetti apparentemente in-collezionabili, inutili, non sono strategie di opposizione, né di rimozione, quanto piuttosto di dislocazione, di disturbo, tese a deviare (a “declassare”, direbbe Bataille) le tassonomie, gli ordini e i poteri, a disattivare comportamenti e abitudini culturali normativizzati, sciogliendo tutta una serie di nodi dicotomici intorno ai quali si annoda stretta la cultura moderna “occidentale”.

Nel contestare la necessità di posizioni fondate dualisticamente, Fiamma Montezemolo e Donald Daedalus giocano al gioco della profanazione, aprendo “la possibilità di una forma speciale di negligenza”11, restituendo al termine “milieu” l’altra faccia del suo senso etimologico, quella di spazio in-between, spazio altro e alterato, segnato dall’attraversamento, spazio intermedio, “where strangeness and contradiction cannot be negated, but have to be continually negotiated and’ worked through’”12, dove riaffiorano le ragioni del corpo, a pretendere di essere viste e nominate.



1 G. Bataille, Documents. Dedalo Libri, Bari, 1974.
2 Fiamma Montezemolo, conversazione privata.
3 G. Bataille, op. cit., p. 63.
4 G. Bataille, op. cit., p. 200.
5 Segnalo l’interessante analisi delle rappresentazioni della mosca in Bataille, Giotto, Boiffard e Bailly-Maître-Grand contenuta nel breve saggio di Georges Didi-Huberman, Contact Images, pubblicato nella rivista elettronica “Tympanum. Journal of Comparative Literary Studies”, Volume 3, University of Southern California.
6 F. Montezemolo L’Io sintomatico, in A. Forero Angel, L. Simeone (a cura di), Oltre la scrittura etnografica, Armando Editore, Roma, 2010, p. 94.
7 R. Rosaldo, Cultura e verità, Meltemi, Roma, 2001.
8 F. Montezemolo e D. Daedalus, descrizione di Mi-lieus.
9 I. Chambers, Prefazione a La rappresentazione incorporata. Una etnografia del corpo tra stereotipi coloniali e arte contemporanea, in corso di stampa per Bonanno Editore, Roma e Catania (uscita prevista a settembre 2010).
10 J-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1991 (Ed. or. 1979, La Condition Postmoderne: Rapport sur le Savoir, Minuit, Paris).
11 G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005, p. 85.
12 H. Bhabha, Day by Day… With Frantz Fanon, in A. Read, The Fact of Blackness. Frantz Fanon and Visual Representation, Institute of Contemporary Arts, London, 1996, p. 192.