L’annosa discussione su come affrontare in Italia l’eredità materiale del fascismo, di opere d’arte del ventennio ancora inserite nello spazio pubblico e in sedi di rappresentanza istituzionali, ha avuto una storia molto complessa e articolata, che però quasi sempre non ha portato a nessuna azione concreta.
La prima questione da affrontare è come la storia dell’arte e la storia dell’architettura hanno analizzato, letto e raccontato nell’immediato dopoguerra, e poi nei decenni seguenti, il patrimonio prodotto durante il fascismo. Anche se apparentemente la storia può apparire variegata, in realtà è attraversata da una costante: una evidente paura storica di affrontare in maniera radicale quel patrimonio. La storia dell’arte dal dopoguerra in poi in Italia ha intrapreso una nuova via “purovisibilista” rispetto al patrimonio fascista, che gli ha permesso non tanto di schierarsi a favore del fascismo, visto che è stata una strada intrapresa molto spesso dagli intellettuali di sinistra e di chiara fama antifascista, ma per poter mantenere una neutralità, che permetteva a tutti e a tutte di non porsi veramente il problema. Un enorme patrimonio, più che evidente, pervasivo in tutto il nostro paesaggio nazionale, è stato congelato, messo in una bolla nella quale non se ne nega mai apertamente il portato simbolico, ma che si fa diventare un fattore non rilevante, dando invece grande importanza ai presunti valori estetici delle opere analizzate. La colpa, dunque, della maggior parte degli/delle intellettuali italiani di sinistra, antifascisti/e è di aver accettato di non utilizzare gli strumenti di analisi consolidati nella nostra tradizione nazionale, per poter dare una lettura “scientifica” di un patrimonio che risultava politicamente troppo complesso per essere davvero oggetto di indagine.
In conseguenza di questo l’Italia ha continuato a vincolare monumenti e edifici fascisti, così come opere murarie o scultoree, ha continuato a stanziare ingenti finanziamenti per restaurarli, ha speso fiumi di inchiostro per difenderli e per narrarli come opere di eccezionale valore artistico a livello internazionale, senza mai usare neanche un minimo di queste forze per provare a discutere come rimettere in gioco il loro significato e il loro valore in un contesto costituzionale antifascista.
Vorrei quindi porre l’attenzione su opere collocate in spazi pubblici che hanno oggi un forte ruolo di rappresentanza, come ad esempio l’aula magna dell’università La Sapienza, la sala del CONI al Foro Italico, ambedue a Roma, o edifici riutilizzati come luoghi istituzionali in Italia che sono collocati nelle mura di quelli che sono state spesso sedi del Partito Nazionale Fascista. In questi tutte le simbologie che questi edifici esprimono, dovrebbero essere coerenti con i valori che lo Stato propone oggi, ovviamente valori sempre in discussione e in movimento, ma che partono da una base comune che nel caso dell’Italia è quella della costituzione antifascista.
Vorrei analizzare un caso studio: la pittura murale di Luigi Montanarini, intitolata Apoteosi del fascismo, conservata in quello che oggi è il salone d’onore del CONI al Foro Italico a Roma, e che in epoca mussoliniana era l’Accademia Fascista di Educazione fisica. Partendo da una sua breve storia della committenza, utile a contestualizzare il dipinto nel tempo in cui venne realizzato, vorrei poi proporne un’analisi iconografica e iconologica. Enuncio questa mia metodologia di lettura dell’opera proprio per affermare la necessità di guardare a tutto il patrimonio fascista da un punto di vista veramente storico artistico, che utilizzi gli strumenti che sempre si sono utilizzati in riferimento a qualsiasi epoca in Italia, per identificarne i valori formali e simbolici, eccetto appunto che nel caso del ventennio.

Inizierei con una nota di colore, facendo notare che l’opera si intitola “apoteosi”, una parola che ha una singolare assonanza, ma anche una comune origine etimologica, rispetto al termine “apologia”, che è esattamente il termine che usa la legge che vieta in Italia di ricostituire il partito fascista, o di fare propaganda o pubblicità per una formazione politica che utilizzi gli stessi principi razzisti e violenti. La cosiddetta legge Scelba, che nella vulgata comune si chiama appunto “apologia di fascismo”, a cui in seguito è stato aggiunto nel 2017 l’articolo 293 bis del nuovo Codice Penale. L’apoteosi è notoriamente una forma rituale di esaltazione di qualcosa e/o di qualcuno, che confina tangenzialmente con un’idea di sacralizzazione; l’apologia è una forma discorsiva di esaltazione incondizionata di una persona singola o di un movimento politico. Dunque, l’uno e l’altro termine parlano di pratiche politicamente e eticamente almeno “pericolose” [1].
Montanarini riceve la commissione per l’opera nel 1936, da Starace, presidente del CONI fino al 1939 e poi, fino al maggio 1941, capo dello stato maggiore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, e vedremo tra poco che sono dati tutt’altro che collaterali.
L’artista metterà veramente mano al dipinto solo dal 1941, quindi dopo l’ingresso dell’Italia in guerra. Da diverse lettere scambiate con il suo amico scultore Ado Furlan, che dal luglio 1940 condivise con lui lo studio di via Margutta 51/a a Roma, si evince che Montanarini non era molto impegnato in questo incarico, tant’è che farà passare anni prima di ultimarlo, e poi lo finirà in fretta e furia in un solo mese, perché a quel punto Starace è molto adirato con lui. Questo per dire che una prima analisi solo stilistica dell’opera rivela una scarsa qualità, molto più bassa dei lavori che Luigi Montanarini, seppur giovane, aveva realizzato fino ad allora, e rispetto anche a quelli che farà in ambito figurativo nel dopoguerra, prima di passare all’astrazione. Si è spesso parlato di Montanarini come qualcuno vicino prima al movimento del Novecento, e poi al gruppo della rivista Corrente, ipotizzando anche una sua relazione con la cosiddetta Scuola Romana, o con gli artisti del gruppo di via Cavour a Roma. Osservando questa grande pittura si nota da un lato una tendenza espressionista italiana, che appunto potrebbe essere assimilata vagamente alla scuola di Scipione e Mafai, ma più come citazione formale che come vera consapevolezza stilistica, e senza dubbio con una qualità molto più bassa; dall’altro lato l’immaginario rigido e retorico fa pensare all’arte di propaganda più spiccatamente fascista, che presenta figure monumentali più vicine a quel “ritorno all’ordine” che caratterizza dagli anni 30 l’arte fascista.
Appare quanto mai interessante leggere la scheda dell’opera presente nel Catalogo generale dei beni culturali redatta dalla Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle arti e Paesaggio di Roma, che recita testualmente: «l’iconografia stessa dell’opera – complessa e ancora da indagare». Con una inaspettata innocente schiettezza si dice quindi che un’opera che occupa il salone d’onore delle istituzioni più importanti per lo sport in Italia, il Comitato Olimpico Nazionale Italiano, non ha ancora una lettura iconografica approfondita. Questa mia affermazione che può apparire come una nota polemica, è invece una nota storico artistica estremamente importante: l’organo che non solo tutela, ma decide il restauro, e conserva un’opera patrimonio dello Stato, dichiara apertamente che questa non è stata analizzata in maniera esaustiva dal punto di vista iconografico, cioè non ci si interessa di sapere cosa rappresenti, nonostante nel 1997 sia stata oggetto di un importante finanziamento per un suo restauro. È prassi ministeriale, prima di intraprendere un intervento di restauro, redigere una dettagliata scheda OA (Opere d’Arte), cioè una scheda approntata dall’ICCD (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione), proprio perché l’analisi dei tratti stilistici e delle caratteristiche iconografiche aiutano laddove ci siano lacune da trattare. Il sito della soprintendenza riporta infatti anche la scheda OA completa scaricabile. In questa nel campo della catalogazione di DESI, che riguarda le iconografie standardizzate secondo il Tesauro dalla ICONCLASS, cioè lo standard internazionale che stabilisce gli elementi iconografici essenziali di un’opera perché possa essere identificata, se si guarda i codici citati sono praticamente tutti riferimenti al mondo militare, della guerra, dell’esercito.
Passando poi al codice DESS, che stabilisce gli elementi essenziali iconografici dal punto di vista del soggetto dell’opera, leggendo tutti in maniera consecutiva, ci si accorge che è una lunga lista di nomi di fascisti vicini Mussolini, insieme a una serie di termini che riguardano armi, combattimenti, vessilli e simboli fascisti, formazioni militari e paramilitari. Nessun elemento fa mai riferimento allo sport, non una sola categoria fonografica si riferisce all’educazione fisica, a qualsiasi forma di allenamento corporeo. Già solo una prima analisi molto scarna, che peraltro la scheda rivela essere anche molto superficiale per essere una scheda dell’ICCD, fa emergere subito chiaramente che il soggetto della pittura è un soggetto bellico e fascista, che nulla ha a che vedere con la sua collocazione in uno spazio sportivo. Ma capiremo tra poco che invece per l’epoca il legame è molto stretto, diversamente da come dovrebbe essere oggi.
Vorrei quindi iniziare un’analisi iconografica attenta dell’opera, per poi arrivare ad alcune considerazioni di tipo iconologico. Il dipinto raffigura in alto su una collina Benito Mussolini, attorniato dai suoi gerarchi, tra cui si distinguono i famosi quadrumviri – Michele Bianchi, Italo Balbo, Emilio De Bono e Cesare De Vecchi – tutti artefici della marcia su Roma, alla quale in realtà proprio il duce non partecipò. Tutti indossano la divisa della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), anche dette camicie nere, solo tra loro Michele Bianchi non indossa la giacca, e tiene in mano un plico. Il quadrunviro Bianchi, che aveva partecipato alla marcia su Roma, al momento della realizzazione di quest’opera doveva essere già morto, forse per questo Montanarini lo ritrae in modo più informale, mostrando la sua camicia nera, come per dare un’idea di giovanile impeto. In generale questa parte dell’immagine fa pensare che l’artista non volesse rappresentare Mussolini all’epoca dell’inizio della II Guerra Mondiale, cioè al tempo della commissione del dipinto, ma il Mussolini della marcia su Roma, quindi con intorno la forza giovanile dei nuovi fascisti, anche se l’immagine del duce non appare come quella del 1922.
Il gruppo di figure in alto poggia su una sorta di grande podio, che appare come poggiato su una sorta di scultura, che ha ai lati due capitelli Corinzi, e a destra una figura alata e a sinistra una figura di vecchio incatenato, barbuto e certamente in uno stato di sofferenza. La raffigurazione potrebbe rappresentare il fascismo che libera dalla schiavitù l’Italia stessa, raffigurando il fascismo con una figura allegorica femminile, che potrebbe essere la nuova Italia, e il vecchio come Il passato che viene liberato dalle sue catene dalla nuova onda fascista. Ma questa interpretazione avrebbe bisogno di una maggiore documentazione, che al momento non è rintracciabile, ma sarebbe coerente l’idea giovanilistica e “ardita” che il dipinto vuole dare. Il fatto che il gruppo poggi su un’opera di scultura che fa riferimento all’antica Roma, è semplicemente una citazione che l’artista fa in linea con il neo-romanismo fascista.
Al centro del palco sotto i piedi di Mussolini, si stende un drappo rosso con un’aquila dorata, ancora una volta in riferimento al mondo augusteo romano, nonostante la citazione sia solo di fantasia visto che i romani non avevano stendardi rossi con figure dorate, e le aquile erano piccole sculture poste in cima agli stendardi e non sulle bandiere. L’iconografia è palesemente quella fascista che adotta la lupa, l’aquila e i noti fasci littori. Guardando in basso a destra Montanarini fa invece una citazione testuale dalle processioni d’epoca imperiale romana, e mette una folla di fascisti in camicia nera che portano le tipiche insegne antiche imperiali, con in cima appunto delle aquile dorate. I giovani che innalzano questi stendardi sono i cadetti dell’“Accademia fascista di educazione fisica Foro Mussolini”, li si riconosce per la divisa nera, il berretto con la visiera e la bardatura bianca. Accedendo ai materiali dell’Istituto Luce si possono trovare numerosissimi video in cui si vede la schiera dei giovani dell’Accademia che sfilano ordinati dentro al Foro Mussolini, proprio portando le insegne stile romano di cui sopra. L’artista assegna ai giovani militi che si allenano fisicamente al Foro Mussolini il compito di innalzare i simboli della vittoria, come in epoca romana durante le sfilate dopo i trionfi militari. Si noti che i medaglioni sulle aste invece di riportare figure antiche o simili, riportano una grande M, simbolo di Mussolini.
Accanto al podio sulla destra un’altra sezione che comprende i membri dell’Associazione Nazionale degli Arditi d’Italia, nata in origine nel 1917 in occasione della Prima guerra mondiale, e che poi aveva preso due diverse direzioni da un lato una anarchico-antifascista, e dall’altro quella degli arditi vicini a Filippo Tommaso Marinetti e presenti all’impresa di fiume accanto a D’Annunzio. Qui sono raffigurati con il loro tipico fez sulla testa, con la bandiera col teschio con il pugnale tra i denti, che indica o vittoria o morte, e con in mano in maniera evidente dei manganelli. Sono le squadre dei picchiatori, quelli destinati agli assalti ai sindacati, alle sedi dei giornali, alle sezioni socialiste, quelli che insomma fanno il lavoro sporco per Mussolini. In particolar modo quelli in prima fila guardano al duce quasi con un senso di adorazione, e in generale Montanarini dipinge quella piccola folla tutta protesa verso il palco.
Sul lato sinistro ancora un piccolo drappello di arditi, dietro ai quali vediamo una folla indistinta: il popolo. Sotto di loro delle ragazze vestite in divisa che rappresentano le ragazze del OND (Opera Nazionale Dopolavoro), che sono le giovani fasciste che si allenano nel Foro Mussolini e che, ovviamente diversamente dai ragazzi, non indossano una divisa militare, ma comunque indossano una divisa che prevede una camicia bianca con una piccola cravatta azzurra su una gonna blu. Il ruolo degli esercizi ginnici per i ragazzi, e di quelli per le ragazze, non è lo stesso e non ha la stessa finalità, ma sia gli uni che le altre, devono comunque essere inquadrati in un’ottica militare.
Ancora più in basso a sinistra ci sono delle donne con dei bambini, e una in particolare che alza un bimbo sopra la testa come per darlo in offerta. Un’ampia letteratura ha mostrato come il fascismo abbia costruito una vera e propria mistica fascista, che prevedeva una sorta di religione laica che adora il duce, come una figura divina, e che più in generale costruisce una propria spiritualità senza mai però ripudiare il cattolicesimo [2]. Andare oggi nella cappella funeraria di Benito Mussolini a Predappio rende molto bene questa idea, visto che la tomba del dittatore è contornata di ex voto per presunti miracoli che questi ha realizzato, per i quali le persone hanno fatto scolpire degli oggetti molto simili a quelli che normalmente si trovano accanto alle tombe dei santi della religione cattolica. Sfogliando il registro che si trova proprio di fronte alla sepoltura di Mussolini, moltissime persone lasciano messaggi che alludono a lui come un santo martire, che guarda ancora l’Italia dal cielo, e che prima o poi risorgerà e tornerà. In numerosi cinegiornali, conservati all’Istituto Luce, che documentavano le visite di Mussolini nelle diverse città d’Italia, sempre in bagni di folla, al duce spesso vengono offerti i bambini e le bambine, che lui in genere accarezzava o baciava, esattamente come avrebbe potuto fare una figura ad esempio come quella del Papa. Quindi non appare strano che Montanarini citi proprio quegli episodi di mistica popolare, che vedono il dittatore come il salvatore aldilà dell’aspetto razionale, ma proprio come manifestazione sacrale.
Riassumendo l’analisi della folla presente nel quadro, possiamo vedere che: Montanarini si è preoccupato di mettere in scena tutti i possibili attori e tutte le possibili attrici del consenso di Mussolini, che se da un lato questo fa parte dell’idea evidentemente di apoteosi, e anche il segnale che l’opera è stata fatta alla fine degli anni 30 quando Mussolini aveva avuto un notevole calo di consenso generale, e sentiva molto forte il disamore del popolo italiano verso di lui, in particolar modo dopo l’ingresso in guerra.
In primo piano sulla sinistra si erge una figura gigantesca, letteralmente sproporzionata rispetto a tutte le altre del quadro. È un uomo nudo, solo con un drappo che gli copre il sesso, tiene in una mano uno stendardo nero con il fascio littorio e nell’altra una sorta di clava, non un manganello normale, ma un oggetto che sembra come tirato fuori dal tronco da poco, ancora con i nodi del legno. Ai suoi piedi c’è una figura, più o meno proporzionale a quella del gigante, buttata a terra, della quale non si riesce bene a capire se si tratti di un uomo o di una donna, che a ben guardare ha i capelli fatti di piccoli serpenti, sotto di lei delle catene spezzate. Questa raffigurazione richiederebbe senza dubbio una spiegazione da parte dell’artista, perché la figura a terra potrebbe essere una medusa, ma questo non coinciderebbe con la figura in piedi che non è certo un Perseo, e inoltre lei non sembra vittima dell’uomo che la sovrasta, ma sembra piuttosto che lui l’abbia liberata dalle catene. Questo secondo dettaglio farebbe pensare che lui possa essere una sorta di Ercole, comunque di figura possente, che libera qualcuno dalle catene che potrebbe essere banalmente l’Italia, ma in questo caso non si spiegherebbero i capelli fatti di serpenti. L’ispirazione alla mitologia antica da parte di molti degli artisti dell’epoca fascista è estremamente poco colta, molto spesso basata su iconografie tratte più dalla vulgata popolare e non da studi approfonditi, in più gli artisti abitando a Roma a volte traggono i loro motivi simbolici semplicemente dalla loro visita ai monumenti antichi, senza però per questo averne una vera approfondita conoscenza. Per comprendere meglio non tanto il significato finale di questa parte del dipinto, ma l’ingresso abbastanza particolare di questa figura che sembra venire da un altro tempo storico, dobbiamo girare le spalle a questo dipinto e vedere che al capo opposto della sala si trova un altro grande dipinto murale più o meno coevo realizzato da Angelo Canevari, dal titolo I Primordi di Roma e l’Impero. Uno dei tanti dipinti di impronta arcaistica, raffigura episodi della nascita di Roma o dell’impero per confermare le radici storiche del nuovo impero fascista. Guardando specie le figure nude di questo dipinto se ne può ritrovare una sorta di immagine speculare in quello di Montanarini, i due pittori si conoscevano bene, ambedue avevano più o meno frequentato la scuola romana da cui avevano tratto questo vago riferimento a un certo espressionismo pittorico, e probabilmente Montanarini si sentì di dover mettere in connessione i due soggetti. In sostanza nella sala da un lato si celebra l’inizio dell’antica Roma e dall’altra l’inizio del fascismo.
Conclude la composizione al centro una scena di onore alle armi, dove la figura di destra è palesemente vestita con la divisa italiana militare della Seconda guerra mondiale, e in basso a destra c’è un gruppo di uomini muscolosi e virili, che rappresentano i lavoratori che a ben guardare sembrano costruire armi.
Sul fondo, in alto, un paesaggio non ben definito, quasi senza tempo, che fa intravedere edifici moderni insieme a edifici che appaiono antichi, passano aerei da guerra, e sul mare che frange le sue onde sulla spiaggia, appare un sommergibile di colore scuro. In riferimento alla II Guerra Mondiale è più che evidente. Per rendere trionfale questo momento storico della partecipazione dell’Italia, Montanarini dipinge a destra una sorta di angelo della guerra, raffigurato come una donna, con una lunga tunica, che ancora una volta richiama le iconografie romane antiche, che in una mano tiene il famoso gladio, cioè la spada corta romana, che è anche uno dei simboli storici del fascismo, e nell’altra tiene una corona di gloria, evidentemente da mettere sulla testa di un Mussolini che si immagina che tornerà vincitore.
La lettura attenta di quest’opera ci pone subito una questione sul soggetto generale del quadro, che appare abbastanza evidente che è un inno a Mussolini come condottiero che eroicamente ha deciso di entrare nella Seconda guerra mondiale. Montanarini rappresenta ovunque figure ingaggiate nella lotta, immaginari maschili militarizzate, una folla che inneggia al dittatore e al suo direttivo sempre vestiti da militari, una massa che in gran parte rappresenta le squadriglie violente dei picchiatori e dei combattenti fascisti. Non mi sembra che ci sia nessun dubbio sul fatto che qua Montanarini aveva avuto la precisa indicazione di raccontare il fascismo come lotta armata, segnando una sorta di genealogia che dalla marcia su Roma arrivava all’ingresso trionfale dell’Italia nel conflitto mondiale.
Dunque, la prima domanda che ci verrebbe naturale porci è: quale legame intrattiene questo soggetto con l’idea di sport, visto che teoricamente ci troviamo nel salone d’onore del cosiddetto allora foro Mussolini, che doveva rappresentare il luogo dello sport? Perché in una sala di rappresentanza del luogo dove si svolgevano attività ginniche e sportive delle giovani generazioni, dei nuovi italiani, dei nuovi fascisti, si sceglie di rappresentare l’aspetto più militaresco del movimento fascista?
La risposta è molto più semplice di quanto possa apparire, noi continuiamo a pensare lo sport del ventennio con la nostra visione di sport contemporanea, quella nata nel dopoguerra e che noi oggi assumiamo come assoluta e “universale”. Il foro Mussolini non era il luogo dello sport, ma era il luogo della educazione fisica, dove per educazione non si intendeva un termine generico per l’allenamento del corpo alle attività ginniche e sportive, ma proprio l’idea di una linea dura e coercitiva che iniziava dal corpo per arrivare più rapidamente alla mente, per formare uomini e donne nuovi, fascisti. Il foro Mussolini era prima di tutto un luogo di esibizione del corpo, era il luogo dove la massa si educava ad essere fascista, il luogo in cui i corpi, guardando gli esempi delle grandi statue marmoree esageratamente muscolose, maciste, improntate a un’idea di potenza fisica estremamente violenta, provavano ad omologarsi, a divenire soldati. Nelle grandi manifestazioni di massa i singoli atleti non avevano nessuna importanza, ma contava il disegno generale, l’immagine di una moltitudine di corpi che ripetevano tutti lo stesso gesto, restando nei ranghi, mostrando una unità totale di intenti sempre davanti al dittatore. Una fenomenologia dello sport che certo non appartiene solo alla dittatura fascista in Italia, che possiamo ritrovare simile nelle manifestazioni sportive della Russia di Stalin, in quella della Germania di Hitler, in quella di Franco in Spagna, ma anche in quella in tempi più recenti della Cina di Mao o di altre dittature postbelliche.
Intento dell’educazione fisica, in particolar modo riferita ai maschi, non era quella semplicemente di allenare il corpo per una migliore salute fisica degli individui, ma era un allenamento per creare quei soldati giovani che avrebbero poi combattuto per la patria, sia difendendo i suoi confini, sia allargando la propria influenza ad altri paesi colonizzati creando il tanto agognato impero. Nel suo interessante saggio Il corpo fascista Marcello Barbanera pone il sottotitolo molto significativo: Idea del virile fra arte, architettura e disciplina, l’autore spiega perfettamente qual era la funzione dell’educazione ginnica che veniva praticata per i ragazzi nel foro: «Il programma di addestramento della ONB (Opera Nazionale Balilla, ndr) assunse tutti i contorni di un rituale performativo, impartito inculcando manovre di gesti semplici, sistematizzati, ripetuti e radicati che, una volta messi in atto, contribuivano a formare uno stato d’animo collettivo. La reiterazione instilla ciò che viene definito una ‘conoscenza rituale’ del corpo, operante, ad esempio, nella maniera in cui la danza e gli sport sono insegnati: attraverso il movimento emulato meccanicamente. Il programma di allenamento balilla imprimeva nel corpo reazioni sollecite, automatiche, istintive ed efficienti ed eludeva un processo mentale intermedio. Posto a controbilanciare lo studio intellettuale in classe, esso esplorava l’elemento non cognitivo dell’esperienza empirica, l’educazione non verbale, come suggerisce il logo della ONB, un moschetto e un fascio su un libro aperto» (Barbanera, 2016, p.20) [3].
Nel 1928 nasceva la rivista “Lo sport fascista” che sarà molto incoraggiata da Mussolini, e che in qualche modo rappresenta l’immaginario sportivo del regime. Già nel primo editoriale, a firma del direttore Lando Ferretti, possiamo trovare i concetti di fondo che informano l’idea di sport del regime: «le vecchie e gloriose e società sportive, bandiere viventi dei pionieri dell’idea; le fresche falangi giovanili delle camicie nere, dal balilla all’avanguardista, al milite; le formazioni del dopolavoro; la nuova aristocrazia che si forgia non più soltanto nelle aule severe ma anche degli stadi degli atenei; e, più in là, officine sonanti di motori, vibranti ideali; ecco tutto un esercito in marcia, un agente che si rinnova nei corpi, negli spiriti, nelle armi, una stirpe che, al cenno ispirato del capo, ritrova, dopo tanto smarrirsi, le vie della potenza e della gloria». Le dichiarazioni di intenti della rivista coincidono perfettamente con quelle del regime: formare giovani che sono già pronti per diventare militi e per combattere per la patria, questa la vera funzione dello sport.
Nel 1924 Mussolini aveva istituito la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), di fatto un corpo paramilitare al servizio diretto del duce, che poi sarà assorbito all’interno dell’esercito del regno d’Italia. Ancora nel primo numero della rivista del 1928 troviamo un articolo, a firma di Giovanni Dabbusi, intitolato Lo sport nella milizia, che pone in diretta relazione l’addestramento delle camicie nere della milizia con l’esercizio dello sport: «ora, uno delle maggiori preoccupazioni dei gerarchi è il perfetto inquadramento della milizia nell’organizzazione sportiva generale della nazione; perché questa finalità si è raggiunta e dopo che ciascun milite comprenda l’intima virtù dello sport e la sua grande efficacia nella vita del soldato».
Potrei continuare a lungo raccontando numerosissime testimonianze della relazione strettissima tra militarismo, violenza e educazione sportiva che il fascismo tentò di inculcare nelle menti in modo particolare dei giovani durante la dittatura.
Questa analisi spiega perfettamente il senso del dipinto di Montanarini al Foro Mussolini. Quel dipinto racconta soltanto un’attitudine più che consolidata del regime che quella di considerare i luoghi di sport come luoghi di allenamento militare per le nuove generazioni, e tanto più doveva essere evidente nel momento dell’entrata in guerra dell’Italia. L’artista non fa altro che riprodurre l’idea fascista di sport come educazione alla violenza e alla guerra tipica della dittatura. Un’analisi attenta di iconografia del dipinto ci ha semplicemente rivelato che l’opera aveva una sua assoluta pregnanza in quel luogo, se lo si considera inserito nel contesto del ventennio. Dunque non solo semplicemente l’esaltazione di Mussolini, la sua appunto “apoteosi”, ma l’esaltazione più in generale della guerra e del potere militare.
A questo punto sorge di nuovo una domanda, che però non è indirizzata la comprensione del dipinto dell’epoca che ora appare più che chiaro, ma al senso che questo abbia inserito oggi in una struttura statale di grande rappresentanza: in che modo il dipinto di Montanarini ha una relazione con lo sport oggi? O ancor meglio in che modo si può connettere un’opera che esalta il militarismo e la guerra può essere oggi messa in relazione con la nostra attuale idea di sport? Lo sport oggi mantiene un qualsiasi tipo di legame con la guerra, con il militarismo, o con un allenamento al combattimento inteso proprio come azione armata in un conflitto? Dunque ultima domanda, come può un affresco che non parla assolutamente di sport, ma che metaforicamente intende gli sportivi come combattenti, come guerrieri, come potenziali militari, rappresentare oggi lo sport in una istituzione pubblica come il CONI?
La questione dell’ opera di Montanarini non è affatto ideologica, ma pone proprio una questione di rappresentanza e di simbologia. Possiamo accettare che nel 2025 lo sport venga ufficialmente rappresentato dalla guerra? Possiamo accettare lo sport di massa, che pure è un valore della Repubblica, visto che si intende lo sport come un diritto di tutti e di tutte, sia raffigurato attraverso l’immaginario violento di squadracce fasciste, di paramilitari, di militari, tutti intenti a mostrare i loro strumenti di violenza? Insomma in che modo l’iconografia espressa da Montanarini, evidentemente emanazione diretta di Starace e indiretta di Mussolini stesso, può essere ancora portatore di valori che corrispondono a quelli che sono oggi i valori di un ente nazionale per lo sport in Italia?
Il 20 settembre 2023 il parlamento italiano all’unanimità ha approvato la modifica dell’articolo 33 della Costituzione aggiungendo questa specifica frase «La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme». Leggendo queste parole appare molto evidente che l’idea di sport che afferma la Repubblica è lontana anni luce dall’idea di sport come educazione coercitiva alla guerra.
Qualsiasi proposta di risignificazione, o decisioni più radicali come quelli della cancellazione o dell’abbattimento, del patrimonio che ci ha lasciato in eredità la dittatura fascista richiede oggi più che mai prima una lettura iconografica, un’analisi seria da parte della storia dell’arte che non sia condizionata da un improvviso interesse solo formale. Questo strumento straordinario, che ormai da quasi un secolo informa le analisi e le letture dei patrimoni artistici italiani di tutti i tempi, deve essere finalmente applicato alla lettura dell’eredità del regime, perché l’omissione di questo atto dovuto di una lettura storica dei simboli e dei significati delle opere disseminate nel nostro paesaggio quotidiano, e anche più nei luoghi di alta rappresentanza dello Stato in ogni sua aspetto, se ancora omessa, testimonia solo un’evidente e colpevole volontà di mantenere vivi valori che non appartengono a questa Repubblica antifascista.
Non possiamo più guardare a queste opere d’arte, praticamente sempre espressione della propaganda di regime, semplicemente come a forme, come espressione estetiche, che in quanto tali possono prescindere dalle simbologie delle iconografie che propongono. Chi ancora oggi propone questa soluzione assolutoria, che si chiede se Montanarini sia stato più vicino alla scuola romana o più al Novecento, ignorando il fatto che avesse rappresentato un’immagine di guerra e non un’immagine sportiva, non lo fa certo per convinzione storica, certo propone una posizione ideologica, nel senso peggiore del termine. Si rinuncia quindi alla lettura scientifica, all’uso di strumenti più che consolidati di analisi storico artistica, al solo scopo di non dover denunciare che quelle immagini portano valori non semplicemente negativi, ma forieri oggi di conseguenza ancora estremamente gravi.
Voglio fare solo un accenno ad alcuni articoli che hanno coinvolto intellettuali e politici, purtroppo tristemente bipartisan, che dimostrano come una mancanza di un approccio rigoroso alla lettura di queste immagini, e lo dico senza remore, anche a causa di una mancanza di conoscenza delle opere a livello scientifico e storico artistico, abbia permesso una sorta di zona grigia, di area di imponibilità, in cui molte opere sono rimaste al loro posto come se niente fosse.
Il dipinto di Montanarini in realtà fu coperto nell’immediato dopoguerra da un grande drappo, per quel sano senso di vergogna che all’inizio fece fare azioni più che giuste ai partigiani immediatamente dopo la caduta del fascismo. Il dipinto è stato scoperto, nel senso letterale del termine, cioè è stato tolto il drappo che lo copriva, ad opera di Walter Veltroni, allora Ministro della Cultura. In un’intervista a “La Stampa” il parlamentare del Partito Democratico così parlava di questa sua decisione: “Mi è capitato spesso di assistere a questa rimozione. Nel salone d’onore del CONI c’è un quadro di Luigi Montanarini che si chiama Apoteosi del fascismo. Dal dopoguerra era coperto da un drappo verde. Proposi di toglierlo e mi guardarono con stupore e sollievo perché, siccome sono di sinistra, non ero sospettabile di nostalgia. Ora il dipinto è visibile». È bello? (domanda dell’intervistatore, ndr) «Non spetta a me dare un giudizio estetico. Ero ministro della Cultura, però, e avevo il dovere della salvaguardia dei beni. Bisognerebbe cancellare il genio di Leni Riefenstahl soltanto perché era la regista del Fuehrer o i film sovietici o radere al suolo la Piazza Rossa perché era il luogo del trionfo staliniano?» (Feltri, 2013) [4]. La risposta dell’onorevole Veltroni è a dir poco sconcertante, ma lo è ancora di più dopo aver attentamente analizzato cosa rappresenta quel dipinto. Veltroni ne parla senza minimamente accennare ai valori che propone, senza minimamente porsi la domanda di che tipo di simbologia rappresenta all’interno di una sala ufficiale dello sport italiano. E così come nota scherzosa vorrei far notare che Veltroni parla di un quadro, ma l’opera è un dipinto murale, forse intendendo che non lo aveva nemmeno osservato con molta attenzione. Per l’ennesima volta si parla di salvaguardia del patrimonio, e il tutto scivola sulla qualità estetica del dipinto, un alibi ormai andato avanti da settant’anni, e che non solo la destra ma anche gli ambienti “progressisti” italiani continuano a proporre. In proposito appare interessante come persino lo stesso autore parla di questo lavoro come di un’opera di grande rilievo artistico e di un grande valore.
Nel 1996 in occasione della proposta di restauro del dipinto di Montanarini il dibattito sull’opera si riaccese e si discusse a lungo sull’opportunità o meno di investire denari per il ripristino di un’opera che peraltro non aveva evidenti segnali di decadimento, ma caso vuole che proprio in quell’anno Alleanza Nazionale, era stata definitivamente sdoganata con l’ingresso a palazzo Chigi. Arianna di Genova sulle pagine de “Il manifesto” [5], in un breve ma esaustivo articolo, riuscì a riassumere perfettamente le posizioni dei diversi storici dell’arte intorno a questa spinosa questione. L’allora sovrintendente Strinati denunciò subito il fatto che non c’era nessuna dietrologia politica dietro quella richiesta, e si affrettò a dire che la sovrintendenza restaurava decine di opere pubbliche e che solo quando questi restauri apparivano “curiosi” c’era una vera attenzione. Quindi il restauro di un’opera fascista in uno spazio pubblico per il sovrintendente era un evento curioso, e quindi suscitava attenzione ingiustificata. Poco oltre la giornalista cita testualmente le parole di Montanarini che ormai novantenne dichiara: «Ero giovane – ricorda – e fu una sfida che mi impegnò moltissimo. Non mi vergogno di quel dipinto pieno di fede nel futuro, non nel futuro politico, di cui mi occupavo poco, ma della mia pittura» (di Genova, 1996). Seppure l’artista ha dichiarato di non essersi mai vergognato di quell’opera nella realtà, prima della polemica del 1996, si è guardato bene dal parlarne pubblicamente. Questo non per darne un giudizio morale, che mi sembra del tutto inutile al momento, ma solo per dire che anche nelle parole di chi allora fu completamente implicato con il regime c’è sempre questa strana sensazione di mezze verità, di una sorta di possibile autoassoluzione, dovuta alla giovinezza e alla innocente inconsapevolezza.
Ancora nell’articolo dell’articolo della di Genova appare la posizione dello storico dell’arte Enrico Crispolti, che seppure non prende una posizione netta contro il mantenimento dell’opera di Montanarini, fa notare gli inquietanti contatti tra quella stagione artistica e il presente degli anni 90, e poi ribadisce il fatto che si continuano a restaurare opere dichiaratamente smaccatamente di propaganda fascista, molto spesso anche di pessima qualità pittorica, e si lasciano in totale abbandono le opere di chi all’epoca tentò anche solo una minima opposizione come ad esempio Cagli e i Basaldella.
Per concludere vorrei ricordare che questo dipinto è stato oggetto di numerose interpellanze parlamentari fin dagli anni 60, è stato anche il teatro di presentazioni pubbliche imbarazzanti di manifestazioni internazionali che vedevano l’Italia in primo piano, come ad esempio la presentazione da parte dell’onorevole Renzi della candidatura di Roma alle olimpiadi del 2024, o la nota foto ricordo della squadra di rugby italiana in occasione del suo ingresso nel prestigioso Torneo dei sei nazioni. Nulla è stato fatto in merito, il CONI continua a realizzare tutte le sue manifestazioni ufficiali davanti a un’opera fascista che salta la guerra, che presenta persone armate, e che osanna squadriglie paramilitari di picchiatori.
Note
[1] Apoteosi: la deificazione di un mortale, ovvero la sua elevazione allo stato divino. In senso figurato, può significare anche l’esaltazione o la glorificazione di una persona o di un evento. Apologia: discorso pronunciato o scritto a difesa e spesso anche a esaltazione di sé e della propria opera, o di un’altra persona, di una fede, dottrina, ecc. Dizionario Treccani on line.
[2] La mistica fascista fu una corrente di pensiero interna al fascismo, basata su un’etica guerriera che prediligeva il fideismo volontaristico e l’attivismo dell’azione, in una fusione di teoria e prassi.
All’interno della Scuola di mistica fascista Sandro Italico Mussolini, fondata a Milano il 10 aprile 1930 e attiva fino al 1943, queste tematiche furono il principale oggetto di studio da parte di diversi intellettuali fascisti che tentarono di uscire da un ambito esclusivamente politico per crearne uno spirituale.
La Mistica fascista si sviluppò in particolare per l’impegno costante di Niccolò Giani con l’appoggio determinante di Arnaldo Mussolini. Anche in alcune università italiane fu istituita la cattedra di Mistica fascista.
[3] M. Barbanera, Il corpo fascista. Idea del virile fra arte architettura e disciplina, Aguaplano, Perugia 2016, p.20.
[4] M. Feltri, Veltroni, i luoghi del fascismo, in “La Stampa”, 23 Marzo 2013
[5] A. di Genova, Si svela la vergogna coperta, “Il Manifesto”, 28 febbraio 1996.
Bibliografia
Barbanera M., Il corpo fascista. Idea del virile fra arte architettura e disciplina, Aguaplano, Perugia 2016.
Belmonte C., Fascist-Art and Architecture out of its Time. Difficult Heritage, Silvana Editore, Milano 2024
Carpentieri T. (a cura di) Luigi Montanarini: il valore della pittura: la coerenza e l’unità del linguaggio, Marina di Pietrasanta, Villa La Versiliana, 9-31 luglio 1997, Petrartedizioni, Pietrasanta 1997.
Catalogo mostra Istituto Suor Orsola Benincasa, Luigi Montanarini 1927-1996, Napoli, Imago s.a.s, Napoli 1999.
di Genova A., Si svela la vergogna coperta, in «Il Manifesto», 28 febbraio 1996.
Feltri M., Veltroni, i luoghi del fascismo, in «La Stampa», 23 Marzo 2013 accessibile al link
Gravano V., (di)scordare. Ricerche artistiche sulle eredità nel fascismo in Italia, DeriveApprodi, Bologna 2024.
Masia L., Matteoni D., Mei P., Il parco del Foro Italico. La storia, lo sport, i progetti, Silvana Editore, Milano 2007.
Mazzotti E. (a cura di), Luigi Montanarini: antologica 1930-1990 ricognizioni sull’idea di arte, Catalogo mostra Pinacoteca Civica, Bondeno 2001, Ferrara 2001.
Reghini di Pontremoli L. (a cura di), Luigi Montanarini : disegni inediti 1920-1950, Catalogo della mostra, de’ Florio Arte, 1993.