+ Fluid Heritage
Queering the impossible.
Performance ecologista per re-immaginare modalità di cura
e pratiche di trasmissione culturali
di Teresa Masini

1. Ecologia della scena e nuovi orizzonti di corporeità
Possono le arti performative diventare un bacino all’interno del quale attingere un sistema di saperi alternativi in un periodo in cui le istituzioni tradizionali come musei, biblioteche e scuole si ritrovano a dover mettere in discussione i loro assetti (a partire dalla ricomposizione dei luoghi) e a reinventare le loro pratiche di trasmissione?
Il teatro cosiddetto sperimentale è sempre stato spazio di immaginazione e promozione di modalità nuove di pedagogia che ricercassero una relazione non gerarchica e costruissero ambienti di sperimentazione orizzontali, ma non è sempre apparso semplice trasportare queste ricerche nell’assetto delle sedi culturali adibite all’educazione, strutturate sulla potestas delle arti maggiori. Oggi, in un periodo storico in cui la corporeità sta diventando centro del discorso politico e sociale, studiare i fenomeni e analizzare i cambiamenti dall’interno, tramite pratiche del movimento che lavorano sull’impianto linguistico delle sensazioni, può risultare un modo efficace per fare dei corpi non solo un racconto, un oggetto di studio, un materiale da ri/produzione, ma veri e propri bagagli di sapere e conoscenza di un livello differente, campi minati in cui accadono delle cose, in cui le tessere degli incontri vengono continuamente spostate e riassegnate.
Le filosofie femministe si rivelano centrali nello sviluppo di questa relazione corpo-conoscenza. Rosi Braidotti (sostenitrice del vitalismo della materia) o Donna Haraway con la sua teoria del Compost hanno contribuito, insieme ad altre pensatrici, a rendere cre/attiva la teoria, farla agire nello spazio che investe e nel quale si propaga. Questa forma pratica del pensiero, trasportata nelle arti performative, permette di applicare il corpo come una tecnologia intelligente e pensante e non come mera superficie sulla quale inscrivere significati esterni. Questo intreccio, tipico del femminismo, di pratica e teoria, ha preso forma sulla scena tramite un apporto queer che negli ultimi anni sta producendo immaginari su forme altre di corporeità (e su modi nuovi di farne esperienza) attraverso gli spazi della cosiddetta “cultura del basso”.
Il teatro ecologista[1] si innesta a partire da questa scena, ne è in un certo modo un prolungamento e un’estensione e al medesimo tempo un’integrazione. I corpi, qui, sono veri e propri eco-sistemi scissi dalla struttura gerarchica interna alla scena, sono composizioni di singolarità informali ma non indifferenziate, corpi pensanti che proiettano il loro pensiero nello spazio a seconda dell’habitat nel quale sono immersi e dei corpi con cui a loro volta entrano in intra-azione. Attraversano lo spazio come un campo di forze che agiscono e dialogano tra loro, un humus desiderante di soggettività non normative. L’entità del corpo intesa come identità in questa scena transindividuale sbiadisce, lasciando lo spazio a un’emersione costante e non lineare dell’ospite dentro di sé.
Con ecologia della scena intendo quindi una pratica performativa queer, eco-centrata e differenziata che non si occupa per forza di temi ecologisti, ma lavora sull’espressione spettacolare come una pratica fisica piuttosto che come un veicolo di motivazioni psicologiche e narrative. Si allontana perciò dalla poetica della commozione, intesa come movimento affettivo per riconoscimento di una somiglianza o per partecipazione intellettuale, e ciò che provoca nello spettatore è più uno straniamento brechtiano, la sensazione postuma a un petardo che esplode sotto la sedia e lascia segni evidenti sul corpo. Piuttosto che fare, ad esempio, del cambiamento climatico o della questione di genere una tematica interna a un racconto, questa performance crea una risonanza tra i corpi implicati che permette di sentire e conoscere: la materia sulla scena assume e incarna, ma non pre-figura; le immagini, quindi, funzionano soprattutto come inneschi di sensazioni che la singolarità delle percezioni è messa nelle condizioni di esperire, non come rivelatori di significati.
L’ecologia teatrale è una forma di relazione scenica che rinuncia a qualsiasi forma di gerarchia e di subordinazione tra i corpi, umani e non umani, animati e inanimati. Ogni materia è protagonista e incide nello spazio della scena e sulle azioni dei suoi partecipanti. Le informazioni arrivano da ovunque e servono, tutte; non c’è ruolo di sudditanza in una visione priva di organismo, ma corpi intensi, che al posto di organi qualitativi hanno soglie o aperture.
Questo “eco-centrismo” delle arti sceniche si forma, a mio parere, a partire da un particolare concetto di confine che, secondo la fisica-filosofa Karen Barad, non va inteso come luogo materiale fissato, nemmeno come spazio inesistente o da rimuovere, bensì come soggetto agente e mobile, un apparato in movimento. I confini (tra un corpo e un altro corpo, tra un pensiero e un altro pensiero, tra un soggetto e un altro soggetto) esistono, si ampliano e si restringono, ma soprattutto si ri-definiscono continuamente. Nella arti corporee, e in generale nel movimento, questo diventa un importante veicolo di emancipazione dalla dittatura egoica contro un’apertura “eco-centrica”; poiché il danzatore abita quella soglia e quella soglia si sposta, anche l’identità e la qualità della divisione diventa, appunto, non più duale, ma espansa e informe. Il corpo, continuamente, entra ed esce da se stesso, contamina altri corpi, forma un terzo corpo fuori da quello schema, diviene-con e mai da solo.

2. Il polipo e la pianta
Per modulare all’interno della scena performativa contemporanea questa logica del confine (e comprendere le potenzialità della sua applicazione nelle sedi della cultura e della pedagogia), mi avvalgo qui di due figurazioni non tassonomiche, il polipo e la pianta, e di due loro capacità sensoriali.
Nel caso del polipo, la caratteristica è una particolare sensibilità corporea che gli consente di vedere con tutta la superficie della pelle. La percezione cutanea non gli permette di mettere a fuoco un’immagine, ma soltanto di rilevare cambiamenti generali e ondate di luce dalla stessa (Godfrey-Smith, 2018). Questa sensibilità visiva estesa in tutte le direzioni non lavora, quindi, in iperdefinizione, ma per iperintensità. Intensità corporea o corpo intenso sono qui, dunque, le parole chiave.
Nel caso della pianta, invece, la sua peculiarità sensoriale si ricollega al tropismo, il movimento lento e intenzionale che produce un vegetale per dirigersi verso una materia da toccare, che sia una fonte luminosa o un oggetto intorno al quale avvilupparsi. La concentrazione di pensiero è nelle superfici del corpo situate alle estremità, e il movimento prodotto (la tensione centrifuga di allontanamento con la propria tana[2] – senza liberarsi dal corpo) è l’attualizzazione di quel pensiero. Il concetto chiave qui è: periferie come centri molecolari.
Lo slabbramento dei confini che avviene in queste figure/creature consegna, all’interno di questo discorso su un’eco-centratura possibile e necessaria, un nuovo modo di sentire, una gradazione particolare di sensazione che rende l’esperienza corporea una vera e propria tecnologia, un campo dei saperi. I centri dei desideri, in queste figurazioni, si spostano nelle periferie e sulle superfici; i centri, perciò, si possono aprire, espandere, destrutturare completamente fino a chiedersi cosa sia, effettivamente, un centro, fino a chiedersi se il centro del corpo sia da tutte le parti o da nessuna e se perciò la danza, e le pratiche corporee in generale, non siano effettivamente una forma politica per praticare un principio di uguaglianza dei corpi e delle emozioni. Gli affetti si formano tramite il tocco, e il tocco avviene ben prima del contatto (così come dopo il suo stesso accedere), attraverso la repulsione elettromagnetica tra atomi ed elettroni che, come evidenzia Barad nel bellissimo testo On Touching (appunto, Sul Tocco), sta alla base del principio di attrazione dei corpi.

3. Due casi studio: Simone Aughterlony e Pony Express
Da queste premesse porto qui alcuni esempi di un filone di sperimentazioni del contemporaneo, nel quale rientrano soprattutto artiste, che identifico come performance o teatro ecologista. Nonostante le poetiche differenti, l’indagine comune di queste coreografe è, anziché la tematica ecologica in sé, la relazione tra il corpo e l’ambiente attraverso il lavoro delle, sulle e con le materie, in un’ottica vitalista, neomaterialista e queer. Con l’eco-centratura di queste pratiche mi riferisco esattamente a una nuova articolazione dello spazio, piuttosto che a un decentramento rispetto ad esso delle individualità che vi sono immerse. L’attenzione non è rivolta tanto al corpo umano nella sua fisicità formale, quanto al luogo affettivo (l’Eco di eco-logia) che un rapporto di intimità tra i corpi è in grado di generare. È lì che vive e si espande il corpo virtuale (la figura deleuziana).
Tra questi progetti analizzerò in particolare quello sul pensiero ecosessuale di un’uguaglianza sociale e agenziale dei corpi attraversando il lavoro scenico di Simone Aughterlony e del collettivo australiano Pony Express, cercando di individuare che tipo di istanze comuni articolano questi immaginari ecologisti applicati nelle arti performative oggi.
Simone Aughterlony, artista formatasi tra Berlino e Zurigo, lavora su un tracciato per cui il corpo dell’attore è di per sé una forma-artificio. Questo non in contrapposizione a una ipotetica essenza naturale sottratta, quanto in posizione dialettica con questa, come parti intrecciate nella struttura dello stesso sistema corpo, sempre costruito su basi culturali.
Il corpo è un artefatto, un corpo-macchina che non coincide mai perfettamente con il corpo esistente, ma sempre lo elude, lo traspone poeticamente, lo traduce in un’altra lingua, lo fa abitare da forze extraindividuali che disindividuano un io riconoscibile, sia del performer che del personaggio. Un corpo allenato, esercitato, talvolta ortopedizzato o artificiosamente riportato ad uno stato ritenuto selvatico[3].
Da questo intreccio indissolubile e costitutivo (verrebbe da dire ontologico) tra naturale, culturale e artificiale appare difficile pensare un teatro ecologista che applichi, invece, una divisione netta tra natura e cultura, tra corpo umano e corpo nonumano attraverso una formalizzazione dell’uno e dell’altro. Se l’ecologismo è un discorso di cura sulla composizione dell’ambiente molteplice e articolata, una scena ecologista non potrà che farsi applicazione di questo teso campo di forze. Aughterlony non solo mette in risalto l’esistenza di una forma altra di agenzialità, ma espone i prodotti discorsivi che più agenzialità messe in relazione attualizzano.
In Biofiction (2015), ad esempio, ogni corpo, umano e nonumano, organico e inorganico, animato e inanimato, agisce nello spazio. Viene a mancare qualsiasi gerarchizzazione, sostituita da una compenetrazione su più livelli e da più direzioni di varie forme di corporeità. Il tipo di interazione che viene a costruirsi tra questi soggetti segna la temperatura della performance, che, man mano che avanza, assume una sempre maggiore sfumatura intima, quasi erotica. Le zone erogene del corpo delle performer culturalmente adibite al piacere si spostano, colonizzandone le periferie, mentre queste scivolano su dei tronchi di legno o li lasciano scivolare su di sé, in un nuovo linguaggio condiviso per consistenze e superfici. Anche i tronchi sono parte costitutiva di questo slittamento, biologicamente suddivisi in sezioni e a loro volta performativamente sezionati nella prima parte della performance attraverso un gesto che, spiega Aughterlony, è un’apertura, una separazione delle cose verso un indirizzo di pluralità ontologica di ogni materiale e di ogni materia. Non solo il soggetto è quindi multiplo, ma la molteplicità è presentata come caratteristica costitutiva delle cose stesse: il concetto di corporeità viene esteso, e i corpi che da questa moltiplicazione si formano esorbitano necessariamente nello spazio. Si tratta di un “essere insieme” sulla scena che, sottolinea Aughterlony, rifiuta le divisioni normative tra natura e cultura, tra maschile e femminile o tra qualsiasi binarismo, ma apre a una partizione del sensibile unificante attraverso l’agency di ogni corpo e materia (Aughterlony, 2018).

"Biofiction", Simone Aughterlony. Photo © Jorge León

Esiste una branca dell’arte ecologista, chiamata ecosessuale, che ragiona, attraverso atteggiamenti sessuali e sensuali con la natura, sull’estensione dei campi del piacere nell’epoca postumana, in cui anche il sesso è diventato una pratica artificializzata e astratta che supera e sposta i limiti corporei canonici; attraverso una «ri-eroticizzazione dell’universo, mettono in discussione la gerarchia delle specie, le definizioni della sessualità e la stratificazione politica del corpo» (Preciado, 2017). Lavori come Pteridophilia (2018) di Zheng Bo o l’arte femminista radicale di Beth Stephens e Annie Sprinkle, autrici del Manifesto Ecosessuale, vertono intorno all’elemento terra, pianta, roccia, declinandolo nel discorso di una proliferazione affettiva del piacere e del contatto. Insieme al pensiero operativo di Aughterlony, un progetto efficace di habitat ecosessuale è Club Ecosex (2017) di Pony Express[4], uno spazio multisensoriale che ricorda contemporaneamente l’ambiente umido della serra, quello intimo di una tenda e la movimentata temperatura di un club notturno. Lo spazio è suddiviso in stanze, all’interno delle quali si è invitati a entrare in intimità con fiori, piante e altre materie naturali utilizzando materassi, profilattici e riviste porno a tema ecosex come strumenti facilitatori. Il tentativo del collettivo era di creare un habitat che agevolasse l’alterazione delle sensazioni, e così l’instaurarsi di una relazione di altro livello tra umano e vegetale, basata su un amore che coinvolge gli umori del corpo e, anche, sul piacere che questo affetto può produrre.
L’annullamento delle gerarchie tra le corporeità implicate nei lavori ecosessuali è un esercizio di deumanizzazione dei legami sociali: invece di circoscrivere l’amore all’interno dei linguaggi del romanticismo, della religione o delle istituzioni (Preciado, 2017), il pensiero ecosessuale ne cerca una definizione in termini ecologisti. Questi ipotizzano una costruzione di relazioni che vadano oltre un legame di parentela o di specie, ma stabilite sulla base di alleanze e di affetti. Ne è un’applicazione artistica il gesto di Sprinkle e Stephens di unirsi in matrimonio con «la Terra, gli Appalachi, l’acqua di Venezia, il carbone spagnolo, il lago Kallavesi in Finlandia, la luna, il sole…» (Preciado, 2017).

"Club Ecosex", Pony Express. Photo © Ilaria Scarpa/Luca Telleschi

4. Queering the impossible: una forma eco-centrata della cultura
Ri-pensare e ri-attualizzare l’ecologia in questi termini è anche, quindi, nella costruzione di nuovi formati, nell’articolazione di nuove tecnologie dello scrivere la scena attraverso corpi differenti, attraverso assemblaggi di pensieri e sensazioni. Piuttosto che sistemi chiusi, le performance si trasformano così in eco-sistemi, multipli e differenziati, in cui il luogo diventa strumento di cura del corpo.
Può una dimensione “eco-centrica” di questo tipo riformulare, all’interno delle sedi educative, formative e pedagogiche, un nuovo assetto basato sulle pratiche corporee e sul concetto di spazialità che le arti performative stanno elaborando? In questo momento di crisi e di necessario ri-assestamento come quello che stiamo vivendo è possibile pensarlo con più lucidità, e innescare la possibilità di attraversare di scarto, diagonalmente, dei muri che appaiono ora più vulnerabili.

Note
[1] Ho avuto modo di riflettere e ricercare intorno al rapporto tra teatro ed ecologia a partire dall’ascolto dell’episodio Il mondo del dopo. Teatro ed ecologia del podcast Noi siamo qui di AltreVelocità (si veda sitografia).
[2] Devo questa riflessione intorno al concetto di corpo come “tana mobile” al pensiero di Francesca Proia, danzatrice, performer, coreografa e insegnante di yoga che ho avuto modo di intervistare per la mia tesi di laurea lo scorso febbraio.
[3] I. Caleo, Dentro le turbolenze espressive della materia, in EcoPol/I. Caleo (a cura di), Bodymetrics. La misura dei corpi. Quaderno 1 Natura/Cultura/Artificio, IaPh Italia.
[4] Per gli ultimi aggiornamenti sulle ricerche e i progetti sull’ecosessualità di Pony Express rimando al sito ufficiale.

Bibliografia
Barad K., Performatività della natura. Quanto e queer, Pisa, Edizioni ETS, 2017.
Barad K., On Touching – The Inhuman That Therefore I Am, “A Journal of Feminist Cultural Studies”, XXIII, n. 3, 1 dicembre 2012.
Braidotti R., Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, Roma, DeriveApprodi, 2014.
Braidotti R., Quattro tesi sul femminismo postumano, “La Camera Blu. Rivista Di Studi Di Genere”, XI, n. 11, 2015.
Braidotti R., Hlavajova M. (a cura di), Posthuman Glossary, London-New York, Bloomsbury Academic, 2018.
Caleo I. (a cura di), Bodymetrics. La misura dei corpi. Quaderno 1 Natura/Cultura/Artificio, Roma, IAPh Italia, 11 marzo 2019.
Caleo I., I, Body. Strategie di decostruzione del soggetto nelle pratiche artistiche corporee, “Contemporanea”, n. 13, 2015.
Chen M. Y., Luciano D. (a cura di), Queer Inhumanisms, “A Journal of Lesbian and Gay Studies”, XXI, n. 2-3, giugno 2015.
Deleuze G., Francis Bacon. Logica della sensazione, Macerata, Quodlibet, 2007.
Godfrey-Smith P., Altre menti. Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza, Milano, Adelphi, 2018.
Haraway D., Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Roma, NERO, 2019.
Haraway D., Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata, Roma, DeriveApprodi, 2019.

Sitografia
Caleo I., Il mondo del dopo. Teatro ed ecologia, ep. 3, «Altre Velocità» (a cura di), 9 aprile 2020, podcast.
Aughterlony S. e Rosenblit J., A Necessary Ecology, video file, 8 aprile 2020, 60:07 min, link.
Aughterlony S., Biennale Teatro 2018 – Encounter with Simone Aughterlony, video file, 1 agosto 2018, 60:12 min., link.
Preciado P., Annie Sprinkle and Beth Stephens, in «Documenta 14 Athens», 2017, link.

Teresa Masini è ricercatrice indipendente. Laureata in Teatro e Arti Performative all’Università IUAV di Venezia, ha preso parte a diversi spettacoli come performer e assistente alla drammaturgia. Ha studiato e lavorato tra Bologna, Venezia, Istanbul e Reykjavík. La sua ricerca e scrittura si muove intorno alle teorie neomaterialiste e all’ecologia, agli studi e alle culture del corpo e ai critical animal studies.