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Un harem a Roma
di Serena Fiorletta

1.Cantiere
Addentrarsi tra gli oggetti di un museo smembrato significa muoversi tra polvere e tracce, trovando pezzi, frammenti, schegge che si fanno calce, stoffa, ceramica, gesso, tele e pigmenti. Non sono materiali inerti: sospirano, sussurrano, gemono e graffiano storie. Partire da un oggetto vuol dire perdersi, ritrovarsi, andare verso il centro dal margine e poi farvi ritorno.
Ho trovato uno spazio pieno di corpi in cui inciampo con la punta dei piedi, che sfioro con le dita, che inseguo mano a mano che la storia si srotola tra la polvere e le omissioni; è un lungo lavoro in fieri, iniziato quando ho avuto accesso ai materiali dell’ex Museo Coloniale di Roma, curando parte dell’inventariazione degli oggetti arrivati dopo la dismissione dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), presso il Museo preistorico etnografico Luigi Pigorini. Nei magazzini del museo mi sono ritrovata tra le mani i primi pezzi di corpi, ovvero alcuni calchi facciali della missione antropologica in Fezzan, condotta da Lidio Cipriani, negli anni Trenta. «L’impatto visivo ed emotivo scatenato dalla vista di questi oggetti ha contribuito all’idea di ‘disvelamento della memoria’ del fenomeno coloniale italiano e di un museo scomparso che non si vuole venga “ritrovato”» (Fiorletta, 2019). Addentrarsi nella storia e tra i materiali del Museo Coloniale ha significato narrare una parte di storia del colonialismo italiano, intraprendere un lavoro di restituzione dell’immaginario che ha contribuito a plasmare una mentalità, definire un ordine del discorso (Foucault, 2004), le cui categorie sopravvivono ancora oggi. Una strana storia ricolma di silenzi, di assenze pressanti.
La ricerca condotta sui calchi e sul Museo Coloniale ha portato ad allargare le maglie di una rete fitta, complessa ma soprattutto infeltrita dall’essere stata nascosta per lungo tempo, i nodi che la tengono insieme vedono l’intersecarsi di classe, “razza” e genere, come le principali categorie di riferimento attorno cui ruotano le identità coloniali. Interrogare i calchi apparentemente muti mi ha portato sulle tracce della costruzione della bianchezza degli italiani, sulla quale si innesta l’identità nazionale e la divisione in classi tra madrepatria e colonie. La costruzione del genere e i rapporti tra i generi, altro elemento fondante del colonialismo italiano, definiscono una subalternità femminile varia, complessa e apparentemente contraddittoria, in continuo movimento, simbolicamente densa. Ma di quali donne parliamo? Chi sono le donne nelle colonie?
Nello spazio di lavoro messo su in questi anni, reale, figurato-metaforico, scorgo le prime donne in alcuni calchi del Fezzan, riconosco i tatuaggi tipici delle popolazioni beduine[1]; escono dalle scatole ricoperte di cellophane statuine che ritraggono donne nere che portano brocche d’acqua, madri con bambini (Manfren, 2019).
Sento un respiro, percepisco un accenno, sono certa di poter seguire le tracce.
Mi accingo a scrivere da quello che è ancora un cantiere.


2. In che colonia abitano le donne?
Tra le sale dagli immensi soffitti del Museo Pigorini e gli stretti magazzini, porto il mio corpo di donna che registra quasi sempre l’assenza delle altre; in generale nei musei ci sono un minor numero di artiste, curatrici, responsabili, è aumentata la loro presenza nell’ambito culturale ma non in termini di ruoli che ricoprono. L’argomento “donne e musei” non è certo nuovo, è un dibattito aperto e diverse prospettive affrontano quella che è già da tempo una questione; femministe e artiste, hanno preso parola, gesto, iniziativa. Do Women Have To Be Naked To Get Into the Met. Museum? resta una domanda attuale[2], manca un reale e innovativo approccio di genere del museo e nei musei. Anche se esistono diversi «musei delle donne – estremamente eterogenei in termini di tipologia, dimensione, status giuridico – soprattutto in Europa e in Usa e di una rete dei musei delle donne – International Association of Women’s Museums (Iawm) – che ne raggruppa più di quarantacinque, oltre a una serie di soggetti impegnati a combattere la diseguaglianza di genere nel settore culturale» (Da Milano, 2019). Sono realtà poco conosciute, che hanno scarsità di fondi e che non risolvono completamente la necessità di una narrazione differente e di un patrimonio culturale re-immaginato, dove le diversità siano presenti, partecipi e possano autorappresentarsi.
Quella che sembra essere nuovamente una “questione di donne”, vista in un’ottica di pari opportunità, finisce per afferire più all’ambito delle politiche sociali e «il ruolo delle donne nel settore culturale, lo sguardo femminile nella rilettura della storia, dell’antropologia, della scienza attraverso le esposizioni museali rimangono tuttora sullo sfondo nell’ambito delle politiche culturali europee» (Da Milano, 2019). In sintesi, ancora oggi, per parlare di donne, generi e “razza” dobbiamo cercare retrospettive dedicate al tema. Non sono inserite in un flusso.
Ovviamente una parziale e minima rappresentazione “del mondo delle donne” esiste ma nelle vetrine, quando sono “esposte”, vengono rappresentate e raccontate dallo sguardo maschile del ricercatore/curatore o, a prescindere dal genere della soggettività autoriale, possiamo osservare quello sguardo patriarcale introiettato che sa così bene definire l’altr* da sé.
Questo è comune soprattutto nei musei “classici”, che custodiscono un patrimonio culturale storico e/o etnografico, dove lo spazio per le donne è il vuoto della loro assenza. Appaiono qua e là, attraverso raccolte di oggetti, la maggior parte delle volte domestici o agricoli per illustrare le loro attività principali, poi costumi, acconciature, gioielli. Il loro ruolo all’interno della società, i rapporti tra i generi, la costruzione del genere stesso (a meno che non ci sia la narrazione esotica di qualche rituale) sono una rappresentazione parziale, sovente astorica. Non è questo l’argomento del presente scritto ma è un passaggio, veloce e necessario, per comprendere l’immaginario coloniale, i suoi oggetti museali e l’esposizione che a questi venne dedicata ma, soprattutto, è fondamentale se abbiamo intenzione di mostrarli oggi[3].
La disuguaglianza di genere è un elemento fondante del discorso coloniale per definire gerarchie sociali e culturali, tra le metafore più diffuse ci «sono quelle inerenti alla scoperta/conquista dei nuovi mondi, alla “penetrazione” di terre (falsamente) “vergini”, pronte per l’esplorazione maschile» (Stefani, 2004). A queste si accompagnano le descrizioni e rappresentazioni delle donne dei territori conquistati che, a seconda dei momenti storici, esercitano attrazione e repulsione senza che l’apparente contraddittorietà infici la costruzione della subalternità di genere e “razza”. Le donne delle colonie sono innanzitutto coloro che abitavano quelle terre, in seguito colonizzate e silenziate; sono le italiane della madrepatria che diventeranno o si ritroveranno colonizzatrici, tra cui vi sono scrittrici, giornaliste, domestiche, viaggiatrici, artiste, prostitute e mogli. Sono, ovviamente, donne estremamente diverse tra loro eppure la necessità di categorizzazione coloniale e di matrice evoluzionista definisce dei tipi umani: bianche, arabe, beduine e nere[4]. Queste ultime soprattutto saranno «l’emblema dell’aberrazione sessuale e la quintessenza dell’alterità, sia in termini razziali che sessuali» (Sabelli, 2010). La donna africana «è la “Venere Nera”, l’essere primitivo, dalla sessualità sfrenata e insaziabile, simbolo dell’inferiorità e della degenerazione della razza nera» (Stefani, 2010). Le donne “altre” oscillano così sino ai nostri giorni tra bestialità e indomita sensualità, in un vortice di sessismo e razzismo che informa ancora linguaggio e categorie interpretative dell’Italia contemporanea[5]. Decido di “restare in Libia” ma sulle donne di questa terra c’è molto meno materiale documentario, trovo studi, resoconti e letteratura cosiddetta coloniale in cui sono chiamate “arabe” o “beduine”, non rispondono esattamente alla descrizione “bestiale” delle donne nere; la linea del colore sembra collocarle agli occhi degli italiani più vicine in una scala di bianchezza. La loro storia è un’altra.

Cesare Biseo "Danzatrice orientale" 1876

3. Un harem a Roma
Teste e volti sono ovunque, in forma di calchi, sculture, dipinti e disegni, uno mi colpisce e diventa il punto di partenza per narrare un’altra parte di vicenda coloniale. È un quadro che occhieggia da un grosso e prezioso volume Dipinti, Sculture e Grafica delle Collezioni del Museo Africano, l’unico modo per capire quanto e quale materiale formava il patrimonio, pittorico in questo caso, del Museo Coloniale. I quadri infatti sono solo in parte al Museo Pigorini, molti sono stati precedentemente portati alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna (Gnam).
Gli oggetti insieme alla memoria sono stati rimossi, il corpo del colonialismo è stato smembrato e nascosto nella città. The Scattered Body è il corpo degli artefatti coloniali sparsi per Roma, quello soggetto alla violenza coloniale, è il tentativo di riassemblaggio da diverse prospettive disciplinari (Schneider, 2019). Osservo il quadro, è un volto femminile, gli occhi dalle palpebre pesanti, la bocca semiaperta, un accenno di sorriso, un velo le copre la testa; guardo meglio, è del 1884 circa, Testa femminile velata, autore è Cesare Biseo. Non si sa null’altro di lei, il quadro è in deposito alla Gnam dal 1978, recentemente tornato nei magazzini del Museo Pigorini. Cosa ci faceva nel Museo Coloniale e dove era collocato? Sappiamo che il Museo offriva una esposizione molto eterogenea sul modello delle Fiere campionarie in cui «le cosiddette “opere d’arte”, ossia i dipinti, le piccole sculture, i disegni, le grafiche in genere avevano lo scopo principale di adornare le sale dedicate alle singole colonie» (Margozzi, 2005), creavano paesaggio, atmosfera, immaginario.
Ma sappiamo anche che gli oggetti sono portatori di significato, sono come parole che componevano il testo-museo, rimandando alla visione e «al messaggio del soggetto/osservatore e quindi lo Stato italiano, in particolare il regime fascista, gli amministratori coloniali, gli antropologi e gli italiani a cui il museo era dedicato» (Fiorletta, 2019). Il primo sguardo qui è di Cesare Biseo, tra i più noti pittori orientalisti italiani dell’Ottocento, noto anche per aver partecipato alla prima missione diplomatica italiana in Marocco, di cui faceva parte anche Stefano Ussi, altro pittore orientalista e il più conosciuto Edmondo De Amicis. Quest’ultimo pubblicherà, nel 1877, il libro Marocco e i due pittori, Biseo soprattutto, correderanno il volume con i loro disegni. L’orientalismo (Said, 2001), spiegato e approfondito da Edward Said, trova nel libro e nelle illustrazioni di Biseo un esemplare riferimento, vi è racchiuso in parole e immagini l’esotico “mondicino africano”, in cui il fascino, il pericolo, la pigrizia, l’indolenza del popolo marocchino sono a rappresentare l’idea più ampia di mondo arabo e di Oriente, costruito dagli occidentali nel corso dei secoli. Emerge in queste pagine, seguendo quella che era un’onda europea di rappresentazione letteraria e pittorica, anche la donna orientale, velata ma ammiccante, sottomessa ma disinvolta, costretta in quello spazio che diventa per l’Occidente la summa del proibito, del piacere, della vergogna, del biasimo ma comunque del sogno de Le mille e una notte: l’Harem. Non è qualcosa di estraneo alla memoria italiana, come sottolinea Barbara Spadaro, «sono le donne arabe, turche o beduine, più che le cosiddette veneri nere eritree, ad occupare l’immaginario letterario italiano tra gli anni ’20 e ’30, conformemente alla risalente fascinazione europea per l’harem (Alloula, 1986; Mernissi, 2000) e al pervadere di temi orientalisti di derivazione francese nell’immaginario letterario e artistico italiano» (Spadaro). Non sappiamo dove fosse sistemato il quadro di Biseo e come venne usato, in quali mostre o fiere, in che sala del Museo, possiamo con certezza affermare che era “coerente e riconoscibile” per chi lo guardava e che quasi sicuramente venne usato come riferimento pittorico della colonia “orientale” italiana, la Libia. C’è chiaramente una distinzione tra pittura orientalista e quella definita arte coloniale, ma vari studi indagano l’influenza dell’una sull’altra, anche durante il fascismo venne dibattuto in modo ampio e pubblico cosa fosse o meno l’arte coloniale; la differenza con il romantico orientalismo risiedeva soprattutto nell’esperienza sul campo dell’arte coloniale (nonché il suo intento documentario)[6]. Resta che i quadri degli orientalisti accompagnarono sempre le mostre, fiere ed esposizioni coloniali, anche con ampie retrospettive dedicate. La loro influenza la vediamo nell’arte coloniale, come nella fotografia e nelle cartoline che provengono dalle colonie, donne arabe (s)velate, seminude, oppresse ma lascive, da liberare dal giogo oppressivo dei maschi arabi e dall’indecente (ma favoloso) harem che le rinchiude. In sintesi «white men are saving brown women from brown men» (Spivak, 1988). La favolosità della narrazione cede il passo alla crudezza delle foto ma il messaggio delle immagini come dei resoconti di viaggio e della letterature riporta l’oppressione delle donne come elemento atto a definire l’arretratezza di quelle società, soprattutto rispetto al ruolo dinamico ed emancipato della donna fascista. Se quest’ultima non mette in discussione il suo ruolo di subalternità nella maschia società italiana, si pone al di sopra delle donne arabe che necessitano del sua “sorellanza” o pietà. L’idea della donna araba costantemente oppressa e incapace di autodeterminarsi coinvolge quindi sin da subito anche le donne italiane, mostrando come il «rapporto ambiguo con la costruzione dell’ordine coloniale e delle sue gerarchie di genere, classe e razza si esprime anche nell’assimilazione di un codice di sopraffazione dello sguardo» (Spadaro). Uno sguardo che non ha reciprocità, come osserva Malek Alloula in The Colonial Harem (Alloula, 1986), soffermandosi sulle cartoline prodotte a beneficio della madrepatria durante l’occupazione francese d’Algeria; l’autore ha analizzato le immagini, raffiguranti le donne algerine, costrette in pose seducenti, fatte svestire, messe in posa a mostrare lo sguardo del fotografo colonizzatore e non certo la realtà. Ma soprattutto sottolinea come non sappiamo nulla di ciò che queste donne hanno pensato, detto e visto. Mettendo in evidenza lo sguardo coloniale Alloula definisce la sua ricerca come un lavoro di restituzione al mittente.
La storia della costruzione della “tipologia” di donna araba, velata e oppressa, parte quindi da molto lontano e vede nell’orientalismo, i suoi scritti e i suoi oggetti, i prodromi di categorie che si rafforzano e definiscono con il colonialismo, arrivando all’oggi. Vediamo ritratta la «differenza del Terzo Mondo» (Mohanty, 2012), fissa, immobile e astorica, pulsante e visibile negli oggetti del Museo Coloniale.


4. Shāhrazād in Museo: la resistenza velata
Mi chiedo da tempo se la donna ritratta da Biseo sia una donna araba o di origini beduine, c’è infatti un altro suo disegno, che somiglia alla donna velata ma con i capelli in mostra e due grandi orecchini. Sembrano quasi la medesima donna prima velata e poi svelata. Sono molte all’epoca le donne beduine nei quadri e nei racconti di viaggio, ci sono dei “volti beduini” (quadri e sculture, studi di teste) di altri autori nel materiale del Museo Coloniale. Sono anch’esse ritratte come soggiogate da una cultura arretrata e bisognose della civilizzazione italiana, sono le indigene seminomadi o nomadi che abitano le zone rurali o desertiche della Libia, come la Cirenaica. Rappresentate spesso in modo folkloristico, con abiti tipici e danzanti, i ritratti hanno quel sapore amaro di alibi etnografico. Le ritroviamo anche nella letteratura, non è un caso che il libro del 1926, di Mario Dei Gaslini, premiato al primo concorso per il romanzo coloniale organizzato dal governo fascista, è uno scritto autobiografico ambientato in Libia che racconta la storia d’amore tra un ufficiale e una giovane indigena che vive in una sorta di harem. Il titolo del libro, nel suo orrore, potrebbe essere il nome di un’area espositiva, il titolo di una mostra, di uno spazio di restituzione al mittente: Piccolo amore beduino.
Vi è racchiusa una storia lunga e dolorosa, qui solo accennata, in cui sempre si evita, ad esempio, di raccontare la strenua e coraggiosa resistenza delle popolazioni cirenaiche, in cui le donne ebbero parte attiva. Parliamo della storia dei campi di sterminio voluti da Mussolini e realizzati da Rodolfo Graziani, una pagina in parte ancora da esplorare per cui «la storia della Libia risulta indebolita da una lacuna su un tema così importante, soprattutto per la Cirenaica. Il passaggio dai silenzi e dai miti del tempo coloniale ad un’età compiutamente postcoloniale (e non solo decolonizzata) è tardata in Italia, in Libia, nel Mediterraneo» (Labanca, 2011).
Tra l’orientalismo e il colonialismo accade che l’Oriente non è più il paese dei sogni, si è avvicinato, «colonialism makes a grab for it, appropriates it by dint of war, binds it hand and foot with myriad bonds of exploitation and hands it over to the devouring appetite of the great mother countries, ever hungry for raw materials» (Alloula, 1986). In questa appropriazione di risorse, la violenza sulle donne sono gli stupri perpetrati, le compravendite dei loro corpi ma anche la ventriloquizzazione delle loro voci e la restituzione di un’immagine di donna media araba, sempre e per sempre subalterna.
Immagino allora che la Testa velata abbia la voce di Shāhrazād de Le mille e una notte, quella raccontata da Fatima Mernissi (Mernissi, 2000), che ci descrive anche un harem diverso, svelandoci come la nostra immagine sia solo occidentale; una Shāhrazād che vuole confrontarsi con il re sanguinario per porre fine alla strage di donne, «un’eroina politica, una liberatrice». Una narratrice che racconta le sue storie, con la sua voce, per restare viva.

Note
[1] Il termine “beduino” definiva varie popolazioni indigene del “mondo arabo”, nomadi e seminomadi, strutturate da complessi sistemi di parentela, politici, nonché di appartenenza culturale, elemento che continua a definire l’appartenenza di popolazioni post-nomadi. In Libia probabilmente si dovrebbe parlare di arabi e berberi (amazigh), tra cui alcuni di questi ultimi erano beduini. Nella narrativa coloniale o nelle rappresentazioni pittoriche del Museo queste distinzioni e il loro uso non sono chiare, restano arbitrarie e generiche.
[2] La frase era stampata su uno dei noti manifesti delle Guerrilla Girls, un gruppo anonimo di artiste e attiviste femministe che, nel 1989, pubblicò 30 manifesti con l’intento di denunciare all’interno del mondo dell’arte e dei musei, sessismo e razzismo. La frase intera era: “Ma le donne devono essere nude per entrare nel museo? Meno del 5% delle opere nei musei sono di donne, ma l’85% dei nudi sono femminili”.
[3] Si veda l’intervista a Rosa Anna Di Lella, a cura di Viviana Gravano e Giulia Grechi, Mostrare una collezione coloniale: riflessioni sul futuro riallestimento al Museo delle Civiltà di Roma, in «roots§routes», n. 33, “Archivio è potere”, maggio-agosto 2020.
[4] Nelle definizioni c’è la mescolanza di elementi vari, linea del colore, etnie, culture, lingue, supposte provenienze. Inoltre questa definizione di tipi è funzionale alla costruzione della bianchezza degli italiani attraverso la razzializzazione degli altri soggetti.
[5] Donne e colonie, costruzione dei rapporti di genere, soprattutto nelle colonie del Corno d’Africa sono al centro di numerosi lavori di diverse studiose, per citarne alcune Giulia Barrera, Liliana Ellena, Gaia Giuliani, Cristina Lombardi-Diop, Sonia Sabelli, Giulietta Stefani, Barbara Sorgoni.
[6] In realtà Cesare Biseo e diversi altri orientalisti si recarono sul campo e non furono pittori da tavolino.

Bibliografia
Alloula M., The Colonial Harem, University of Minnesota Press, 1986.
Da Milano C., I musei delle donne nelle politiche europee. Dalle politiche sociali a quelle culturali, “Storia delle donne”, Vol. 14(1), 2019, p.84, link.
Fiorletta S., Il Museo negato. Narrazione nazionale e museografia, in «roots§routes», n. 30, I non detti del Museo, maggio-agosto 2019.
Foucault M., L’ordine del discorso, Piccola Biblioteca Einaudi, 2004.
Labanca N., Bestie, e umani. Un documento per la storia dei campi di concentramento in Cirenaica, in «Sentieri della Ricerca», Centro Studi Piero Ginocchi, Crodo, 2011.
Manfren P., Icone d’Oltremare nell’Italia fascista: artisti, illustratori e vignettisti alla conquista dell’Africa, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 2019.
Margozzi M., (a cura di), Dipinti, Sculture e Grafica delle Collezioni del Museo Africano, IsIAO, Roma, s.p., 2005.
Mernissi F., L’harem e l’occidente, Giunti Editore, 2000.
Mohanty C.T., Femminismo senza frontiere. Teorie, differenze, conflitti, Ombre Corte, 2012.
Papa C., Sotto altri cieli. L’Oltremare nel movimento femminile italiano, (1870-1915), Viella, 2009.
Sabelli S., L’eredità del colonialismo nelle rappresentazioni contemporanee del corpo femminile nero, in Petricola E., Tappi A., (a cura di) Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo, in «Zapruder. Storie in movimento», n. 23, settembre-dicembre 2010, pp. 106-15.
Said E., Orientalismo, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2001.
Schneider A., Art, Anthropology and Contested Heritage, Bloomsbury Academic, 2019.
Spivak G.C., Can the Subaltern Speak?, in Nelson C. – Grossberg L., Marxism and The Interpretation of Culture, London, Macmillan, 1988.
Stefani G., Generi coloniali. Maschile e femminile al servizio del colonialismo, in «Zapruder», p.7, n. 5, settembre-dicembre 2004.
Stefani G., Colonia per maschi: italiani in Africa orientale, una storia di genere, Ombre Corte, 2007.

Serena Fiorletta, antropologa culturale, è specializzata in museologia e patrimonio antropologico. I suoi interessi e aree di ricerca sono focalizzati sul colonialismo, postcolonialismo, genere e femminismi transnazionali. Insegna, come cultrice della materia, antropologia culturale presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università Sapienza di Roma ed è membro del Comitato Direttivo e docente presso il Master in Politiche e studi di genere dell’Università Roma Tre.